La giornata di Leopold Bloom in un Atto unico
Lo spettacolo di Claudio Collovà visto a Messina nella rassegna "Atto unico. Scene di vita, vite di scena"
“Atto unico. Scene di vita, vite di scena”, rassegna teatrale curata da QuasiAnonimaProduzioni, con la direzione artistica di Auretta Sterrantino, ha concluso i suoi sette appuntamenti, lo scorso 17 aprile, al Teatro Savio di Messina. La manifestazione, giunta alla terza edizione, ha ospitato tre spettacoli della stessa Sterrantino, volti all’indagine sulla interiorità e alla sua espressione mediante il dialogo tra diverse forme artistiche, arti visive e musica, teatro e filosofia, scrittura letteraria e lirica. Tale coerenza, che distingue il particolare linguaggio di Sterrantino, regista e drammaturga di Quando, come un coperchio, InSomnium. E si sciolgon le ore e Nudità. Chiaroscuro permanente, ben si sposa alla scelta di inserire spettacoli tra loro diversi, per poetiche e temi trattati, come Interno di casa con bambola, dramma di Manuel Giliberti; Barbablù. Storia di quotidiana violenza, indagine intima di Mario Mascitelli, Camposanto mon amour, musical di Paride Acacia e l’unico monologo della rassegna, Bloom’s day di Claudio Collovà.
Il lavoro di Collovà, attore, regista e docente di teatro palermitano, traduttore, scrittore e direttore artistico delle Orestiadi di Gibellina dal 2010, era assente dai teatri di Messina dal 2011, quando aveva presentato nella stagione di prosa della Sala Laudamo, diretta da Dario Tomasello, uno degli episodi tratti dall’Ulysses ed esattamente Artista da giovane con Salvatore Cantalupo e Alessandro Mor. Il progetto nasce da uno studio sui testi di James Joyce, prodotto dal Teatro Biondo Stabile di Palermo, tra il 2010 e il 2013: oltre a Bloom’s day e Artista da giovane, i due episodi Uomini al buio-Ade e Telemachia (lavori poco visti, purtroppo).
Il Teatro Savio è una delle tante sale appartenenti alla curia arcivescovile della città, concesso in affitto secondo criteri e modalità che non sembrano agevolare la fruizione degli spazi (del resto non esistono modelli di concessione o convenzione nemmeno per gli spazi comunali).
E’ necessaria l’iniziativa di giovani e coraggiosi operatori indipendenti dalle strutture pubbliche per ospitare lavori come questi, firmati magari da artisti riconosciuti a livello internazionale, eppure poco rappresentato in Italia (tra l’altro a Palermo le cose vanno molto meglio, il 6 maggio debutterò Horcynus Orca, tratto dal romanzo del messinese Stefano D’Arrigo con la regia di Claudio Collovà, protagonisti Giovanni Calcagno, Manuela Mandracchia e Vincenzo Pirrotta).
La mattina, durante le prove Bloom’s day a Messina, il regista si concentra sul fantoccio che interpreterà Molly, la moglie del protagonista: è importante che stia comoda, che non si sciupi troppo, se ne prende cura come fosse una bambola umana, lasciandola seduta in prima fila, mentre vengono organizzate le americane, perché con il tecnico delle luci si possa poi “dipingere insieme”. Una volta disposta la scenografia Collovà si assicura che la coperta sulla quale verrà adagiata Molly sia perfettamente sistemata, con le pieghe morbidamente disposte a definire una esatta autenticità, così da simulare il peso di una donna adulta: ogni impercettibile filo viene eliminato perché non pregiudichi l’ordine della scena altare su cui è collocata Molly. Tra un gesto e l’altro, mentre guarda la scena che prende pian piano forma, canticchia Dylan e la sua The Times They Are A Changin’, una canzone che parla di scrittori e critici, di profeti e acque, e dei tempi che cambiano.
Con la sua infedeltà Molly Bloom si insedia al centro della scena: con lei è l’esibizione della colpa consumata da una corrispondenza tra lei e la sua amante Marta, che si firma Henry Flower, porta come cognome “fiore”, “flower” in inglese, niente di strano che anche il cognome della famiglia sia legato alla fioritura dunque, “to bloom” e sia identificabile anche con il verbo italiano “sbocciare”? Solo Leopold, il marito inquieto e impacciato sembra infatti non accorgersi dell’inganno linguistico? E inoltre il cognome ungherese di Bloom, ebreo che ha dovuto per tale ragione mutarlo, è “Virag”, in italiano traducibile con “bocciolo”, “fiore”. Ciò che distingue le scelte scenografiche e registiche, non è però motivato da una sorta di blando intento didascalico, ma dalla semplicità e dalla volontà di veicolare tale immediatezza allo spettatore. Per questo non sarà difficile identificare Molly in una “Ophelia addormentata” nel suo letto di fiori. Del resto Shakespeare è già presente in Joyce, Collovà sceglie solo di fare da medium, trasponendo sulla scena la sua traduzione dalla lingua originale: un tradimento pertanto, come da tradizione, sacrificando il simulacro di uno straordinario capro finto e quindi morto, solo nella verità del gioco scenico, al centro del palcoscenico, come si vuole nella più classica delle tragedie (in greco antico: “tragos” è “capro”; “apocalipto” è “tradisco”; “metafrago” è “traduco”; “paradidomai” è “consegno alla tradizione”; “paradoxos” è “straordinario”ndr).
La sagoma di Molly è contemporanea al travaglio fisico e percettivo di Leopold/Sergio Basile: incombe sempre nell’istante scenico, nelle ossessioni per il cibo, il denaro e la patata talismano (“potato” nel testo originale, precisiamo per i lettori più curiosi). La vicenda è talmente intima e condivisibile da sembrare inesistente, come le fragilità umane, negate perfino da un protagonista che probabilmente è morto, o sta sognando. Una bombetta surreale come quella dei personaggi di Samuel Beckett, decisiva peraltro nel romanzo Molloy – inevitabile pensare alla somiglianza onomatopeica con la signora Bloom, ma d’altro canto niente nel teatro di Collovà è lasciato al caso – e nella comicità surreale dei suoi testi teatrali. In particolare Basile incarna un divertentissimo fool, quindi è anche cretino, perché etimologicamente è diventato “chrétien” ovvero “cristiano”: per questo il capovolgimento della crocifissione proiettata sullo schermo-fondale, che si erge in Bloom/Basile al contrario, con le braccia allargate verso il basso, infera promessa. Ma d’altronde, guardando le simmetrie sceniche di Collovà, come fare a meno di pensare a Dante e alla sua Commedia, fonte di ispirazione sia per Joyce sia per Beckett? Non stupisce che gli scrittori che hanno ispirato da sempre le scritture di Collovà siano riconoscibili anche in Eliot, e in Yeats naturalmente. Così come Eliot diceva che Dante era un poeta “semplice”, anche Collovà rivela che ha sempre considerato “Joyce un poeta semplice”. Per questo probabilmente decide di consacrare un suo personalissimo “bloomsday” da dedicare allo scrittore irlandese (peccato però che sia stato replicato appena sette volte!).
Leopold Bloom è intriso di maschilismo e misoginia, ma questo non infastidisce, intenerisce piuttosto. La maschera sempre mutevole che riesce a conferirgli Basile è istantanea trasfigurazione, più eretica delle blasfemie presenti nel divertentissimo monologo. Lo spettatore è pietrificato e immobile durante le passeggiate in senso orario e antiorario, durante la poesia di un “io passo oltre”, recitato oscenamente; nel buio di un nero mai opaco ma riflettente. Così è l’acqua mortifera e “anti-eroica” di un hammam in cui Bloom diventa Ofelia ed è dissacrante e raffinato in questa stereotipia fuori sincrono proiettata sul fondale, mentre lavandosi e poggiando un fiore sul suo volto dice alla goccia, che si posa sulle sue nude membra nell’episodio dei Lotofagi in Joyce: “ecco il mio corpo”. Leopold canta, va al cesso in una scatola-valigia, citando l’Ubu di Jarry, quindi ancora una volta Shakespeare e ci sembra molto contemporaneo in quanto moderno reazionario, ben collocabile nella Italia odierna. La sua inutile purificazione e giustificazione della colpa attraverso il flusso d’acqua, in una consueta nascita-morte, anche battesimo, trasforma lo spettatore, angosciato e compassionevole nei confronti del protagonista della vicenda narrata.
Ci diverte un cambio scena delimitato da una sorta di arpa irlandese, realizzata dalle oniriche e ipnotiche musiche di Giuseppe Rizzo, mai tappeto sonoro ma inquietante presenza costante e necessaria, mentre Leopold Bloom spazzola i capelli di Molly, ci viene da pensare che si sa che i capelli crescono anche ai morti. Eppure quando è il momento degli applausi tra il pubblico qualcuno si chiede perché Molly non avanzi sulla ribalta, per prendersi il suo momento di ringraziamento, talmente è reale il dialogo tra i corpi dei due performer, quello umano e quello desiderato, o sognato, che il gioco ingannevole della finzione teatrale è vero e presente, oltre il limite del palcoscenico. La potenzialità artistica di questo spettacolo sta infatti nella sua autenticità, nella sua estrema possibilità di ritrarre un quotidiano surreale ma di cui ognuno di noi è vittima e carnefice allo stesso tempo. La inquietudine che trasmette il monologo è una presa di coscienza politica sulla fragilità, nella consuetudine ipocrita che regge i rapporti umani di potere.
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