#BP2016 | Le cattive pratiche scacciano quelle buone
Il documento del Teatro dell'Elfo
La nostra posizione sul decreto può essere ricapitolata così: siamo stati fino ad oggi inascoltati, nel nostro tentativo di dialogo con le istituzioni e con il ministero stesso, forse non perché avevamo torto, ma perché avevamo troppa ragione.
Il documento della Commissione teatro – presentato al tavolo tecnico del MIBACT il 4 dicembre 2015 e pubblicata poi ateatro.it – dice alcune cose con molta chiarezza.
Citiamo dal capitolo Attendibilità dei dati: «Qualora qualcuno fosse portato a “gonfiare i propri dati (con borderò inesistenti o comprati, presenze e riempimenti sala “aggiustati”, laboratori, letture e proiezioni di film “promossi” a spettacoli, contributi per giornate lavorative “nominali”, e altri frutti dell’italico teatralissimo ingegno, già denunciato in passato) danneggerebbe immediatamente e irrimediabilmente gli altri soggetti, visto che i soldi vengono divisi sulla base dei punteggi ricavati tramite algoritmo dai dati all’interno di ciascun sottoinsieme. Inutile sottolineare che un sistema dove si enfatizzano dati numerici a scapito della qualità artistica, può tendere a incrementare comportamenti scorretti o pratiche “astute” (…)».
Per quanto ci sia stato un tentativo anche serio di porre rimedio con piccoli aggiustamenti – rendo merito al direttore generale Ninni Cutaia di averci provato negli stretti margini che la situazione gli consentiva – la sostanza del problema rimane inalterata. Stiamo tutti accettando di chiudere gli occhi rispetto a questo dato: il decreto non migliora come era indubbiamente nelle intenzioni di chi lo ha redatto, bensì corrompe il sistema. Il sistema di valutazione, lo si è visto, è un invito fortissimo a cedere all’italico ingegno di cui si parla sopra. Rivolto a tutti, anche ai più integerrimi e onesti, un invito a cedere non fosse che per difendersi dalla concorrenza sleale di chi, dell’ italico ingegno, ha già fatto un uso disinvolto già nel 2015, terremotando il nostro sistema teatrale che necessitava di tutt’altro.
Dovremmo competere sulla qualità dei progetti e sulla capacità di costruire grandi e piccoli teatri d’arte, essendo i grandi e i piccoli teatri insieme la rete che può far sviluppare un sistema davvero nazionale di produzione artistica e al tempo stesso una rete di presidi culturali – da far vivere, non da chiudere – nei territori e nelle città d’Italia. Competiamo invece su puri e astratti numeri da produrre, senza badare se i numeri hanno coerenza con la funzione, la missione che ogni teatro dovrebbe avere e dovrebbe darsi. Questo è il significato della parola progetto: darsi un compito e trovare gli strumenti per svolgerlo. E più il compito è difficile e più sarà facile essere costretti a dimenticarsene per fare solo, sempre, semplicemente numeri, in qualunque modo.
Se la giornata odierna non dice una parola chiara su questo argomento, il silenzio risulterà assordante e accetteremo nei fatti una vistosa degenerazione del sistema, fingendo tutti di non sapere quello che accade. Ma è possibile chiudere gli occhi, di fronte al documento della Commissione teatro? No, non è possibile.
Non sarà facile, nonostante la serietà d’impegno che aTeatro ha messo nella organizzazione di questo convegno. L’irritazione del ministro Franceschini per le critiche e i ricorsi al TAR spaventa molti, ma verremmo meno alla nostra funzione di artisti, così strettamente legata alla tutela della libertà di pensiero e di creazione, se tacessimo per timore di irritare: credo che chi taccia non faccia un favore né al ministro, né al direttore generale, né MIBACT, né al governo, né al parlamento. Parlare ora serve ad avvisare i responsabili politici e i legislatori che mantenere oggi scelte ( e soprattutto non-scelte) di politica culturale così distorsive significhi non fare altro che rendere più probabili future pesanti conseguenze: le produrranno quasi con certezza i gonfiamenti inutili dei progetti, che vediamo moltiplicarsi, fatti esclusivamente per assicurarsi più fondi attraverso la concorrenza sleale del doping dei numeri.
Occorre una nuova prospettiva costruttiva, occorre aprire il dibattito sulla delega al governo e riempirla di contenuti meditati e seri, ma credo debba affiorare alla coscienza di tutti che bisogna sgombrare il campo da certi meccanismi che hanno rovinato sul nascere le buone intenzioni di riforma e cominciare a parlare di una legge che sappia di dover riannodare i fili spezzati del discorso. Da un lato si assiste al diffondersi una grande retorica sull’ importanza della cultura e sulle funzioni vitali dell’arte per la vita di una paese e per la creazione di una consapevolezza comune non solo degli italiani, ma di tutti gli europei. Dall’altro non si è capaci di capire e articolare un pensiero vero, capire cosa questo realmente significhi quando si parla di teatro e di musica e danza.
Credo che il vero problema sia che nessuno crede sul serio a quello che dice, quando parla di arte e di cultura. La grandezza dei numeri che muove il solo sistema finanziario nel mondo, pare a volte trasformare in una nicchia residuale persino l’economia reale. La brutalità criminale dei conflitti che si moltiplicano e la nostra capacità di complicarne gli esiti anziché di ridurne l’intensità con l’azione politica, crea un tale clima di sfiducia in tutto e in tutti, che parlare d’arte fa alzare le spalle a molti: “con i problemi che ci sono, mi parli di arte.” L’arte non è un giocattolo o solo una forma di intrattenimento colto, fare arte non significa giocare con le parole o con gli oggetti. L’arte è una forma importante di pensiero e di produzione simbolica irrinunciabile per la costruzione di una civiltà. Per quanto sembri impossibile crederci seriamente persino in Europa, è così: rinunciare significa rinunciare alla civiltà. Eppure non abbiamo altra strada. L’arte e la cultura sono il fondamento delle civiltà, non un semplice abbellimento. Se non ci crediamo noi fino in fondo, non ci crede nessuno.
Per questo, dobbiamo lavorore tutti, da subito, nella prospettiva di una legge che superi lo stallo del decreto e, speriamo, faccia intravedere un futuro più coraggioso e meno ripiegato sulla consolatoria ma devastante missione di far diventare tutti i teatri terminali per la produzione di carte per il MIBACT invece che di arte per i cittadini. Per aiutare a dare un senso alla vita spirituale del nostro paese, perché davvero, lo credo davvero, non si vive di solo pane. E neppure di soli numeri.
Elio De Capitani, presidente
congiuntamente al CdA e all’Assemblea dei soci di Teatro dell’Elfo s.c. Impresa sociale.
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