L’Ubu-Pinocchio di Roberto Latini

Il teatro del potere nell'era dell'eccidio dei migranti

Pubblicato il 07/02/2016 / di / ateatro n. 157

William Shakespeare e Alfred Jarry sono i capisaldi della poetica di Roberto Latini. Non a caso l’Ubu roi è probabilmente il culmine estetico e drammaturgico dell’attore e regista, allievo di Perla Peragallo. Questo spettacolo (e sarebbe bello vedere anche la reazione di un pubblico francese, prima o poi) ha debuttato nel 2012, Latini ha ricevuto peraltro il Premio Ubu, per Il servitore di due padroni di Antonio Latella, come migliore attore nel 2014.
Latini gommato fa stretching come una marionetta umana, mossa dai fili di una ideale luce, il fascio scenico realizzato dal sapiente gioco estetico di Max Mugnai. Lady Macbeth e sempre nuovi personaggi tratti dai testi di Shakespeare prendono vita, animati da quello che possiamo considerare l’Amleto italiano, ovvero Pinocchio, secondo Latini. Omaggiando Carmelo Bene, Latini è abitato dai costumi e dalle catene che furono già in Bene la traduzione e il tradimento di Collodi. Acrobaticamente impegnato al microfono, diviene la Lady Macbeth che pronuncia la nota battuta sul neonato a cui schizzare via il cervello, ma anche la romantica e isterica Giulietta. L’incipit collodiano del “c’era una volta” prometteva “un re”: viene degnamente sostituito dal burattino-Latini, che rende Pinocchio davvero e finalmente un re, anche narratore.

Roberto Latini, Ubu Roi (Ciro Masella, Roberto Latini, Marco Jackson Vergani, Savino Paparella)

Roberto Latini, Ubu Roi (Ciro Masella, Roberto Latini, Marco Jackson Vergani)

Amleto è Pinocchio, la Tempesta è Calibano, Cotrone è Pirandello, Latini è Jarry-Shakespeare in una giostra acrobatica e danzata in cui il gatto e la volpe sono ballerini e le risate e i clown sottolineano i momenti più drammatici. Ritornano tematiche sviluppate in altre opere di Fortebraccio Teatro, grazie anche alla tessitura drammaturgica del compositore Gianluca Misiti, specchio ed eco del regista.
Papà Ubu uccide il re facendo scoppiare il fallo fittizio, tre palloncini colorati che sono poi rinvenuti nel momento in cui il re Venceslao muore giocosamente, spandendo tre ciuffi rossastri dal petto come fuochi d’artificio. Molteplici e consueti sono decervellamenti o risucchi in botole, come da testo – e d’altro canto Latini, lo sappiamo, è un fedele “traduttore” dei testi da cui sono tratte le sue opere. I nobili divengono sembianza di un solo attore in Latini, con capriole da saltimbanco mimate a tempo, raccogliendo quegli stessi petali donati dall’unico attore che interpreta tutti i nobili e re Venceslao/ Lorenzo Berti, con promessa funerea indubbiamente e costante elemento scenografico. C’è in questa esibizione delle rose mortifere anche un omaggio alla Duse, omaggiata da Bene? Forse si tratta solo di uno sberleffo intelligente alla bara-letto di Sarah Bernhardt, o di una compiaciuta mascherina di Latini che Ippaso ci ricorda essere soprattutto “un’attrice” (vedi Katia Ippaso, Io sono un’attrice, Editoria&Spettacolo, 2009, già recensito da ateatro).
Suoni di ambienti esterni, uccelli, acqua e altri elementi naturali sono rievocati dal tappeto sonoro; dentro le cornici stanno i morti e in questo caso i re, quindi coloro che rinunciano alla vita per morire indossando una corona-megafono – qui è inevitabile pensare al Macbeth di Orson Welles. Pinocchio è l’unico personaggio in scena a dire cose sensate, è la coscienza parlante ed è anche Lucignolo. Pinocchio è la storia di una iniziazione e presenta diversi elementi massonici, come ben evidenzia l’impianto scenico. Dentro la tradizione non può più rimanere neanche una piccola traccia di regalità o cerimonia, perché il moderno ha già spazzato via tutto: così una katana viene rimpiazzata dalle pallottole e non è più tempo di scope volanti, anche se qualcuna ancora rimane sospesa sul fondale. L’ammonimento è: “Seppure voleste colpire le vostre spade sono ormai troppo pesanti per le vostre forze, non potete sollevarle, non potete […] non c’è altro rimedio che il dolore nel cuore”. La citazione corale e i riferimenti alle altre opere di Latini costituiscono qui una divertente via di perdizione per lo spettatore. Il gioco c’è e sarebbe un peccato non stare alle sue regole.
Dopo l’annuncio della guerra, una danza circolare antioraria e un mantello rosso sulle spalle della regina aleggiano annunciando l’inizio della catastrofe. Anche Pinocchio ha legato al suo collare una catena che regge ormai solo il suo scheletro: a esso toccherà in sorte di essere  vagliato dagli aruspici con uno specchio, mentre è steso sul pavimento del palcoscenico creando una ombra anomala e ossimorica per il suo opposto orientamento rispetto alla proiezione della luce.

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Madre Ubu, interpretata dall’ottimo Ciro Masella, è spaventata mentre compie un sacrilego furto e su di lei incombe il teschio decapitato di Macbeth/Padre Ubu e alter ego di Pinocchio: all’uscita, serpeggiante da un acuto cantato su arpa, crolla un rosso sipario e dal fondale accede Papa Ubu con uno scheletro bianco come quello di Pinocchio ma senza testa. Il fondale rosso ricoprirà il corpo di Pinocchio e quello della sua ombra-scheletro nero. Ma questo fondale, che è poco più che un enorme velo di sangue, finirà per avvolgere Papa Ubu, che ci cammina dentro calpestandolo con presunzione: ma alla fine sarà proprio questo sudario a risucchiarlo e ucciderlo per finta. Ubu svela quindi sotto di sé lo scheletro di Pinocchio, mentre con gesto imitativo fa roteare una tibia o quel che rimane del suo scheletro privo di colonna vertebrale: a reggerlo – si sa – era solo il potere. Alla vittoria del principe Bugrelao, primo clown della compagnia di guitti, segue il riassorbimento della benda di sangue sollevata da una parte dalla quinta di destra.

L’omaggio di Latini al Macbeth Horror Suite di Carmelo Bene, per la “ferita benda” e non per il braccio, mette in evidenza una profonda evoluzione nella concezione di teatro. Se in Bene infatti assistiamo a una consapevolezza finzionale, in Latini il reale con il suo portato metafisico e verticale incombe sulla comicità, rendendola tragico epilogo. Non ci può essere salvezza nel reale, anzi lo scheletro nero è sempre presente al centro del palcoscenico e al centro della vita. La skené sacrale lascia oggi il posto ai protagonisti dell’avanspettacolo. Pinocchio in bicicletta gira in senso antiorario per celebrare un requiem alla sua ombra scheletrica. Lo segue Papà Ubu, percorrendo lo stesso tragitto su questa macchina del tempo a due ruote. In senso orario e con una bici bianca, come quella sulla quale abbiamo incontrato Pinocchio nella prima parte dello spettacolo, gli rivolgono un omaggio il gatto o la volpe, poco importa, danzando quasi volando e salutando una farfalla con il compare (il gatto o la volpe, chissà? Perché conferire dei rigidi ruoli all’ineffabile bellezza delle mascherine?). Il re, ricevuto il volo e dopo averlo scambiato con un battito cardiaco, stramazza morto in un angolo del palcoscenico, sempre quello di sinistra e sempre con il capo rivolto verso il lato di palcoscenico da cui si è eclissata la enorme benda rossa e ferita.
Al centro della scena viene collocata una bara e viene apparecchiata come per un banchetto o per un talamo nuziale ed è inevitabile pensare a La vita cronica di Eugenio Barba per l’Odin Teatret – in effetti ci sono anche le ali – ma anche e prima ancora di Barba, e non è un caso, il pensiero va alla botola in cui si rifugiano tutti i personaggi di Akropolis di Jerzy Grotowski prima del crollo che si ode nel finale a scena ormai vuota. Ancora una volta viene riprodotto il suicidio sacrificale del samurai, in una ripetizione che svuota di significato il dolore. Tolte le maschere, i già morti si uccidono di nuovo, ma non sarà vero fino a quando non sarà il vero samurai/Regina Rosmunda/zar Alessio/Sebastian Barbalan a sparare pallottole ai malcapitati con la sua katana-bastone di legno.

Roberto Latini, Ubu Roi

Roberto Latini, Ubu Roi

Madre Ubu imita la Fatina con la voce, quando come una apparizione in senso pirandelliano viene evocata per spaventare Padre Ubu. Tuttavia ci si fa male per gioco, battendo panni sulla gommapiuma-botola e anche bara. La verticalità è dunque esasperata non solo da doppi esseri con ali ma anche dall’entrata di una macchina scenica, vero e proprio deus. Davanti a essa Pinocchio danza e gioca con il suo scheletro, quasi fosse una bambola, mentre alla sua sinistra un angelo spande piume bianche da un secchio. La fisarmonica sottolinea l’ambientazione popolare e folklorica da processione, quasi un dramma da Maggio montano, incluse le simulazioni magiche della pesca ai lati della rappresentazione centrale e nella scena iniziale. La musica sovrasta il vociare e i versacci mentre il buio accoglie sul fondale l’erigersi di un immenso vascello infernale come un teatro d’ombre allestito da un neuròspastos senza età e senza morale, tripudio di cronaca coeva che renda memoria all’eccidio dei migranti.
Dal 4 al 7 febbraio 2016 Sala Giancarlo Nanni

Teatro Vascello, Roma

Fortebraccio Teatro

UBU ROI
di  Alfred Jarry

adattamento e regia Roberto Latini

musiche e suoni Gianluca Misiti
scena Luca Baldini
costumi Marion D’Amburgo
luci Max Mugnai

con Roberto Latini

e con
Francesco Pennacchia, Padre Ubu
Ciro Masella, Madre Ubu
Sebastian Barbalan, Regina Rosmunda/ Zar Alessio
Marco Jackson Vergani, Capitano Bordure/ Orso
Lorenzo Berti, Re Venceslao/ Spettro/ Nobili
Guido Feruglio, Principe Bugrelao
Fabiana Gabanini, Palotini/ Orsa/ Messaggero

direzione tecnica Max Mugnai
collaborazione tecnica Nino Del Principe
assistente alla regia Tiziano Panici
cura della produzione Federica Furlanis
promozione e comunicazione Nicole Arbelli
foto Simone Cecchetti

un progetto realizzato con la collaborazione
Teatro Metastasio Stabile della Toscana




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InformazioniVincenza Di Vita

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