#DuettoCritico2015 | Amleto sotto processo tra realtà e finzione
Please, Continue (Hamlet) di Yan Duyvendak e Roger Bernat
#DuettoCritico2015 è il frutto di conversazioni dopoteatro. Sguardi incrociati, a volte paralleli a volte divergenti, hanno acceso discussioni intorno ad alcuni spettacoli del 2015, significativi perché suggeriscono qualche riflessione sul teatro e sulla sua evoluzione.
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18/01/2016 Mount Olympus di Jan Fabre
20/01/2016 Please, Continue (Hamlet) di Yan Duyvendak e Roger Bernat
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#staytuned
Credevamo di sapere tutto di Amleto e del suo tragico destino. Almeno fino al giorno in cui la sua storia non è stata filtrata da un procedimento penale che lo ha visto nei panni dell’imputato.
Quando leggiamo l’opera di Shakespeare, difficilmente consideriamo il protagonista un omicida che potrebbe essere condannato all’ergastolo perché ha ferito mortalmente Polonio, scambiandolo per un topo. Amleto incarna le nostre frustrazioni e giustifica in nome delle proprie sofferenze la follia e l’assassinio. Ma basta cambiare punto di vista, portare il dramma nel contemporaneo, come se tutto fosse accaduto davvero: cosa faremmo se un ragazzo di poco più di vent’anni, iscritto all’università, magari un po’ ubriaco, uccidesse il padre della propria ex? Sarebbe colpevole? O magari lo giustificheremmo e quindi lo considereremmo innocente?
Eliminando la poesia, le cose si complicano. La nostra propensione a immedesimarci con il personaggio tende a svanire. Il sentimento morale, più o meno soggettivo, più o meno determinato dalla società nella quale viviamo, tende a prevalere. Ma il nostro senso di giustizia dipende così tanto da fattori esterni?
Please, Continue (Hamlet) di Yan Duyvendak e Roger Bernat si muove all’intersezione tra realtà e finzione, attraverso un abile mix, con ampio uso di citazioni e di meccanismi teatrali, e di “effetti di realtà”. C’è il “vero” fatto di cronaca nera, che può ricordare l’uccisione di Polonio da parte di Amleto. Intorno a questo episodio ruota il processo: i “veri” magistrati e avvocati che interpretano il ruolo di magistrati e avvocati, la verità di una improvvisazione che accade qui e ora. Non esiste un testo da interpretare, con le battute definite a priori: è piuttosto un format, una cornice all’interno della quale “giocare” i propri ruoli.
Please, continue (Hamlet), che nel titolo riprende il mantra che viene ripetuto ai prigionieri da chi li interroga, è sbarcato a Milano il 29 e 30 novembre scorso negli spazi dell’Unicredit Pavilion, grazie a Zona K. Ogni città nella quale viene presentato chiede la partecipazione dei principi del foro locale, ogni sera diversi: questo determina l’attendibilità e l’adattabilità nella location ospitante, e garantisce che ogni replica sia diversa da tutte le altre.
Ma proprio così si insinua il dubbio sulla fallibilità della giustizia. Il reato è lo stesso, le prove sono le stesse in tutti i paesi, tutte le sere, ma in base al giudice e ai giurati (scelti tra gli spettatori), oltre che alla bravura di pubblici ministeri e avvocati, la sentenza può essere ribaltata. L’accusa può chiedere dodici anni per omicidio volontario, oppure optare per l’omicidio colposo. La corte può assecondarla, o arrivare all’assoluzione perché il reato non sussiste, come è avvenuto due volte in Italia.
Questo Amleto ha già affrontato oltre 70 processi, obbligando il pubblico a riflettere sulla complessità del personaggio e sulla sua vera o presunta follia (che è però anche la nostra, se ci immedesimiamo in lui); ma ci interroga anche su cosa intendiamo per realtà, per “fatto”, oltre che sui meccanismi della giustizia e del processo penale.
Sul versante della finzione ci sono tre attori: a loro tocca interpretare i ruoli dell’imputato Amleto, della parte civile Ofelia e della testimone Gertrude. Per calarsi nei panni dei tre personaggi, gli attori hanno ricostruito la vicenda nei dettagli, in una sorta di prova, memorizzando spazi e gesti, in modo da costruire una memoria dell’evento a cui attingere durante il processo.
Sul versante della realtà, ci sono gli altri “attori” della pièce: il giudice e il cancelliere, il pubblico ministero, l’avvocato di parte civile e l’avvocato difensore, più il perito psichiatra. Sono professionisti che esercitano la loro “vera” funzione. A loro Yan Duyvendak chiede di non recitare, ma semplicemente di svolgere il loro lavoro come lo farebbero in un vero processo. A tutti costoro la produzione consegna con qualche giorno d’anticipo un dossier con gli atti dell’inchiesta: il rapporto della polizia, il verbali degli interrogatori, l’esame dell’anatomopatologo sul cadavere della vittima, eccetera. Il perito può esaminare l’attore-Amleto per stendere la perizia psichiatrica, che viene inserita nel fascicolo (il perito viene peraltro sentito nel corso dell’udienza).
Il processo-spettacolo non segue esattamente le procedure: il dibattimento è concentrato in tre ore, i tempi per gli interrogatori e le arringhe sono contingentati. I sei giudici popolari non vengono nominati all’inizio del dibattimento (come avverrebbe in un regolare processo), ma vengono scelti appena prima della camera di consiglio. Lungo tutto il corso del dibattimento qualunque spettatore sa – e teme – di poter essere chiamato a giudicare Amleto: questa possibilità viene enfatizzata dal fatto che all’inizio della serata ogni spettatore riceve un taccuino su cui prendere gli appunti da utilizzare in camera di consiglio.
Magistrati e avvocati costruiscono il loro script a partire agli atti di cui dispongono, ma devono anche tener conto delle risposte imprevedibili dei tre attori e delle altre parti. Gli attori non conoscono le domande che verranno rivolte loro da magistrati e avvocati, e dunque improvvisano a partire dalla “memoria” della scena del delitto, ma anche – per riempire eventuali “buchi” – dal loro vissuto, che interferisce sull’interpretazione e sull’atteggiamento processuale.
Nessuno ha un copione prefissato: né gli attori (che devono inventarsi di volta in volta le risposte, garantendone la verosimiglianza), né i magistrati e gli avvocati (così come accade in un processo, dove ci sono le procedure e gli atti istruttori, ma poi ciascuna parte sceglie la propria linea di condotta), né gli spettatori (che possono essere chiamati a far parte della giuria e devono giudicare a partire da quello che hanno appena visto, e forse da un qualche personale pregiudizio sul personaggio Amleto).
La serata illumina in primo luogo la figura di Amleto, colto in un momento chiave della sua parabola esistenziale: si esplorano le sue intenzioni, le sue motivazioni, il suo stato d’animo (quando colpì Polonio era capace di intendere e di volere?), il rapporto con gli altri personaggi, a cominciare da Polonio e da Claudio.
Di interesse più generale è un secondo obiettivo pedagogico: si tratta di illustrare la dinamica di un processo penale e dunque il rapporto tra verità e giustizia, accrescendo la consapevolezza degli spettatori-giurati su quello che significa “fare giustizia”.
Una terza chiave di lettura esplora il rapporto tra realtà e finzione, e la sospensione dell’incredulità. Ben presto la dinamica del gioco prende il sopravvento e la discussione sulla colpevolezza o sull’innocenza di Amleto assume un’urgenza “reale”. Gli “attori” e gli spettatori sono consapevoli che quello a cui stanno partecipando non è un autentico processo. Tuttavia il meccanismo spettacolare accresce la consapevolezza a diversi livelli.
La serata ci ricordandoci che da sempre un processo può essere letto anche in chiave spettacolare. Ma questa performance che fa interferire il dispositivo teatrale e quello del processo può essere considerata teatro? Il teatro presupporre necessariamente l’empatia con quanto avviene in scena? La perdita del senso poetico della tragedia rischia di far venire meno la comunione tra attore e spettatore, anche perché la finzione degli attori è sottolineata dal loro costume: una t-shirt gialla che sulla schiena porta scritto il nome del personaggio e la specificazione “(attore)”. L’oggettivazione della vicenda negli atti e nelle procedure giudiziarie fa emergere un profondo senso di giustizia, che ci porta a provare sensazioni molto diverse dalla lettura del testo shakespeariano. Nel corso della serata i diversi soggetti – e anche gli spettatori, potenzialmente membri della giuria – sono chiamati a valutazioni e decisioni che contribuiscono a creare di momento in momento l’effettivo copione della serata. Questo margine di scelta implica un’assunzione di responsabilità: proprio nel costruire occasioni di libertà responsabile Please, Continue (Hamlet) crea un percorso di emancipazione personale e collettiva. Una rappresentazione come questa potrebbe essere considerata il migliore e il peggiore teatro possibile, ma dimostra in ogni caso la potenzialità pressoché infinita di interpretazioni del testo di Shakespeare.
Please, continue (Hamlet)
Compagnia Yan Duyvendak
Un’idea di Yan Duyvendak & Roger Bernat
In scena
Attori: Francesca Cuttica, Francesca Mazza, Benno Steinegger
Partecipazione straordinaria di: Umberto Ambrosoli, Alessandro Bastianello, Gherardo Colombo, Oscar Magi, Ilio Mannucci Pacini, Mario Mantero, Isabella Marenghi, Adriano Scudieri, Salvatore Scuto
29 – 30 novembre 2015 – Unicredit Pavilion
Tag: Amleto (14), Il teatro è un dispositivo (28), partecipatoteatro (27), Roger Bernat (6), Yan Duyvendak (3)
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