L’Amore ai tempi dell’incendio

Il nuovo lavoro della Compagnia Scimone-Sframeli debutta a Messina

Pubblicato il 10/11/2015 / di / ateatro n. 156

Amore è uno spettacolo di svolta per la Compagnia Scimone-Sframeli. E non solo, e non tanto, per la presenza forte e arricchente di un corpo nuovo come quello di Giulia Weber, che mai dà l’impressione di apparire estraneo, ma anzi sin dal principio campeggia con la straordinaria, e sapiente, naturalezza di chi abbia fatto esattamente lo stesso percorso degli altri, con gli altri.
Qui la novità è determinata dal rarefarsi di ogni appiglio possibile, sia che esso possa venire dallo spazio scabro della lancinante partitura drammaturgica di Spiro Scimone, sia che esso venga dallo spazio della scena di Lino Fiorito che è, d’altro canto, ridotta all’essenziale sublime: qui, in particolare, a uno sfondo cimiteriale su cui campeggia il bric-à-brac tombale per due coppie, illuminato ora più nettamente ora in tralice, in un delirio chiaroscurale, da Beatrice Ficalbi.
Davvero, adesso, il Novecento è morto e non si può certo dire “W il Novecento!”, se l’oltranza di questo lavoro inquadra una fuga che si lascia alle spalle, nella dipintura allusiva del telone di Fiorito, il paesaggio italiano di Carrà, il ricordo larvato delle Cipressate della parodia crepuscolare di Eduardo (in Ditegli sempre di sì), il Pirandello di All’uscita. Tutto questo costituisce, per il lavoro, nervi e sangue, ma, soprattutto, campitura di un’operazione che, più che mai, pretende la cancellazione di ogni punto di riferimento: niente trama, niente diegesi al di là dell’incrocio, in limine mortis, delle due coppie senili: quella eterosessuale e quella omosessuale dei due pompieri che spuntano in un’esplosiva mistura di festosa jonglerie e psichedelico funerale.

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Cosa c’è, allora, in questa nuova fase della compagnia?
Abbandonata l’urgenza politico-civile del messaggio corrosivo contenuto nella Busta e in Pali, e, forse, addirittura, l’enfasi di Giù, resta la lezione più alta di un teatro che non ha bisogno di nulla, se non del corpo degli attori e che si ri-vela nelle dinamiche relazionali della Compagnia, in un gioco onestissimo di dissimulazione, destinato a dire come il vero teatro civile stia, e non possa che stare, oggi come allora, nella Civiltà del teatro.
Una funzione rilevante, in questa prospettiva, è quella di Gianluca Cesale, il cui ruolo di “spalla” assume sempre di più i connotati di un apprendistato, gravido di promesse, a contatto diretto con l’esperienza magistrale incarnata da un attore superbo quale Francesco Sframeli.
La tradizione trascina con sé i propri contrassegni e la propria fine latente. Pertanto, anche in questo caso, ritornano come inventario disincantato ma coerente, tutti gli stilemi privilegiati della Compagnia, tutti gli indicatori più probanti di quel corpo in disfacimento (che coincide con la «disperazione» che Scimone e Sframeli si ostinano a dire): dalle «dentiere» all’incontinenza dei «pannoloni» che rivendica accudimento e ristoro materno.
Come sempre, però, l’essenziale rimane tacitato, nell’occultamento abissale che produce sgomento, nel silenzio che resta sotto le lenzuola (come “il buio in fondo al sacco” del Cortile), nelle fiamme di un incendio invisibile e perciò tanto più fatale, nella croce che, da segno manifesto (come nell’incipit di Nunzio), diviene lepida dottrina nel gesto iniziale, semplice ma misterioso, di Scimone che tratteggia la sagoma spenta del lumino sepolcrale. Già, in quel momento inaugurale, arriva, inavvertita quasi, la liberazione, l’assoluzione che il grande teatro consegna a chi sappia coglierne il segno e il senso.

Scimone-Sframeli, Amore

Scimone-Sframeli, Amore

E chi se lo sarebbe aspettato che la catarsi per questa Compagnia avvenisse nella misura traumatica della morte che somiglia al sonno?
E se il sonno della ragione genera mostri, non c’è prodigio più grande dell’occasione perduta e del sogno immemore come un rimpianto dolce e lubrico.
Lo spettacolo rinasce, ogni volta, nei gesti e nelle intenzioni di Francesco Sframeli che è la scaturigine più autentica della limpida vocazione drammaturgica di Spiro Scimone. Nelle sere messinesi del debutto dello spettacolo – per la prima volta nella propria città (è anche questo un segno?) – abbiamo creduto di rilevare quel gesto di Sframeli, prima comandante circense dei pompieri (poi comunque, al di là dell’allegoria contingente scelta per questa pièce, fondamentale capocomico in scena), nel lasciarsi scivolare lungo la testiera del letto/tombale per immergersi malizioso, e incredulo quasi, nel proprio vissuto.
Più di una volta, questo grande attore messinese, facendo riferimento a un insegnamento di Peter Brook, ricevuto direttamente da Yoshi Oida, ha ricordato una massima di quel «segreto» del grande demiurgo inglese: “tienti forte e lasciati andare con dolcezza”.
Ecco, per questa Compagnia, il tempo di “tenersi forte” è forse concluso e, nel “lasciarsi andare con dolcezza”, quell’antico rigore diventa solenne levità, libertà che non ha bisogno di orpelli per imporsi.

Amore
di Spiro Scimone
con
Francesco Sframeli
Spiro Scimone
Gianluca Cesale
Giulia Weber
Scene di Lino Fiorito
Luci di Beatrice Ficalbi
Regia di Francesco Sframeli
Produzione
Compagnia Scimone e Sframeli
Théâtre Garonne/Tolouse

Debutto al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, 5 novembre 2015




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