#CaseMatte 4. Da Volterra a San Salvi
Il diario di viaggio del Periferico Tour negli ex manicomi italiani
Ultime due tappe del viaggio di Case Matte promosso da Teatro Periferico: Volterra e Firenze.
Gli spettacoli: Mombello. Voci da dentro il manicomio di Teatro Periferico, La passeggiata teatrale di Chille de la Balanza e Atlante della città fragile di Gigi Gherzi.
Se nella prima parte del nostro viaggio abbiamo incontrato soprattutto pazienti e operatori in qualche modo somiglianti ai personaggi dello spettacolo e abbiamo avuto l’occasione di ragionare sulle forme di controllo e repressione della malattia mentale, se ad Aversa la nostra attenzione è stata tutta catturata dal luogo-manicomio inteso come spazio e storia di cui una comunità intende riappropriarsi, ecco che a Volterra e Firenze incrociamo l’arte.
A Volterra sapevamo che sarebbe stato impossibile fare lo spettacolo per intero. L’ex manicomio è inagibile (viene una stretta al cuore pensando ai Demoni di Thierry Salmon visti tanti anni prima negli stessi spazi) e l’attuale ospedale non ha un corridoio sufficientemente grande e soprattutto disponibile. Dobbiamo accontentarci di rappresentare una versione ridotta dello spettacolo, nel nascente museo dedicato ad Oreste Nannetti, artista inconsapevole di quella che viene definita ancora oggi art-brut (arte grezza).
Nannetti, che si firmava NOF4, incise, fra il 1958 e il 1973, con la fibbia del suo panciotto, centottanta metri di un muro del padiglione Ferri, il reparto criminale. Geroglifici, numerazioni, formule chimiche, elenchi, figure geometriche che raccontano storie di astronavi, di metalli, di bombe, di missili, di razze spaziali “con il naso a Y”. Nannetti, che si definiva colonnello astrale, scolpì di continuo, nelle ore d’aria, schivando le teste dei catatonici seduti sulla panchina del giardino. Una copia dell sua opera, unica al mondo, è esposta a Losanna alla Collection de l’Art Brut. Fu Aldo Trafeli, l’infermiere di Nannetti, che alla sua morte decifrò i graffiti che, a prima vista, risultano incomprensibili. Un libro di pietra fatto di parole libere, anche dalla punteggiatura, parole che vengono dal sogno, ma che si intrecciano con la sua vita reale di recluso:
“10% deceduti per percosse magnetico-catodiche, 40% per malattie trasmesse, 50% per odio, mancanza di amore e affetto.”
Il figlio di Aldo Trafeli, Andrea, alla morte del padre ha fondato l’associazione Inclusione Graffio e Parola che si occupa di recuperare la memoria di Oreste. E’ lui il nostro primo contatto. Ma quando arriviamo a Volterra non riusciamo a incontrarlo. In nessun modo. Ostinati, andiamo a cercarlo sul posto di lavoro e riusciamo a parlare con lui. Parliamo anche con l’ufficio tecnico della Usl 5. E quelle domande che ci frullavano in testa cominciano a farsi più chiare.
La Usl ha venduto il padiglione Ferri, sul quale il Comune di Volterra purtroppo non ha posto alcun vincolo. Ma poi è intervenuta la Soprintendenza alle Belle Arti e tutto si è fermato. Una parte dei graffiti è stata staccata ed esposta al museo; un’altra parte, rimasta all’aperto, si sta scrostando e deteriorando; qualche altro graffito, ancora in buone condizioni, potrebbe essere staccato dal muro e portato al riparo, ma non ci sono le risorse finanziarie. Quindi la vendita è avvenuta (a un immobiliarista anglo-indiano sembra… per la costruzione di un resort di lusso sembra… ), ma non è ancora operativa e quando lo diventerà, beffa finale, i graffiti ora esposti al museo dovranno tornare al loro posto. Cosi a bordo piscina, in un resort per ricchi, potrebbero essere esposti i graffiti di Oreste Nannetti.
La cosa non ci stupisce più di tanto. Nel nostro peregrinare degli ultimi due anni abbiamo visto ex manicomi trasformati, spesso snaturati, magari con un piccolo museo a ricordo. Luoghi dove la memoria non dà più scandalo, ma è innocua rappresentazione di qualcosa percepito come lontano nel tempo. Luoghi che suscitano nel visitatore una pietistica commozione ma che non trasmettono l’orrore profondo di un’esclusione ancora oggi praticata.
Ma torniamo a Volterra. Il museo è quindi temporaneo? Nel senso che è stato inaugurato pur sapendo che le opere più importanti che espone, le opere di Nannetti appunto, alla fine torneranno al loro legittimo proprietario? Ma perché il Padiglione Ferri non si è venduto solo dopo aver provveduto a far staccare i graffiti? Non si potervano fare accordi economici con la proprietà atti a salvaguardare le opere?
Nessuno ci dà risposte chiare. Anzi abbiamo l’impressione che risposte chiare con ce ne siano proprio. Insomma l’unica cosa certa è che il destino dei graffiti è incerto. E in ogni caso i graffiti non potranno essere salvati tutti. Il tempo cancellerà quelli esposti alle intemperie. Ma tranquilli, gli svizzeri ne hanno fatto una calco, potremo sempre andare a Losanna a vederli! Si mastica amaro, ma c’è lo spettacolo da ricostruire ed è nelle mani di due soli attori. Proviamo a mettere sulle loro spalle più di un personaggio. Difficile, se non impossibile. I personaggi ormai sono un tutt’uno con gli attori: il corpo, la maschera, il movimento, tutto è fuso insieme. Ogni tentativo finisce per risultare una banale imitazione. Così decidiamo di far dire ai personaggi interpretati dai due attori molti dei testi che nello spettacolo vengono recitati dagli altri. Sembra funzionare. Lo spettacolo è itinerante, il pubblico si muove tra le stanze del museo, senza luci di scena, con qualche suono e nulla più. Buttiamo giù la quarta parete, che nello spettacolo già non esiste (nel senso che esiste, ma ci sta dentro anche il pubblico). Gli occhi degli attori guardano diritti gli occhi degli spettatori. Alcuni monologhi, pronunciati, lì, in mezzo alle sale del museo, senza protezione alcuna, suonano ancora più drammatici:
“me lo dai un bacio? … eh lo so… sono matto. Vorrei scappare per volare, per andare al ristorante, per andare a vedere le papere, per tornare a casa, per andare via, per arrivare da qualche parte, per uscire e basta, per bere, perché ti hanno abbandonato.”
(Laursa Troschel, Mombello. Voci da dentro il manicomio)
Alla fine dello spettacolo, su una camicia di forza prestataci dal museo, proiettiamo le foto di Giacomo Doni, accompagnandole con i suoni di Luca de Marinis. Giacomo ha realizzato anche un e-book dal titolo Era Mombello, una digitalizzazione di vecchie fotografie del manicomio di Limbiate. E raccoglie storie. Lui è una di quelle persone con cui intendiamo continuare ad interagire.
Nei due giorni in cui lavoriamo, il personale del museo fa di tutto per metterci a nostro agio. Spostiamo i mobili, le teche del museo, prendiamo a prestito i materiali esposti. Mentre lavoriamo accanto a noi, in una stanzetta, un paziente disegna grattacieli. Per due giorni lo vediamo impegnatissimo ad usare il tecnigrafo. Metri e metri di grattacieli tutti uguali. Mauro porta con sé una nota di gentilezza.
La sera dopo, la Passeggiata dei Chille de la Balanza che parte dall’ex padiglione Koch. Anche in quest’occasione l’argomento della vendita dell’ex manicomio ritorna in modo prepotente.
A Volterra dormiamo in un efficentissimo ed economico sosta camper del comune di Pomarance. Siamo gli unici. Tutti i servizi sono a nostra disposizione. E’ una meraviglia! Ci ripromettiamo di segnalarlo negli appositi siti. A malincuore partiamo per Firenze, consapevoli però che viaggiamo verso casa. Perchè Firenze è già un po’ casa.
Siamo ospiti nell’ex manicomio di San Salvi, residenza della compagnia Chille de la Balanza. Sissi ha svuotato interamente il corridoio dove faremo lo spettacolo. Un lavoro lungo e faticoso, visto che il corridoio funge un po’ da magazzino della compagnia. Anche lo spettacolo sembra sentirsi a casa. C’è una stanza chiusa da un cancello di ferro. Ci sono le porte. E grandi finestre che oscuriamo, come facciamo ogni volta. La luna piena passa dalle fessure. Non c’è nulla da fare. Il buio non si ottiene mai del tutto. La luce traspare dalla plastica, si infila sotto le porte. Se non è la luna è il riverbero di un lampione. La luce la vince sempre perchè, come dirà il giorno dopo Giuliano Scabia, “il bene vince sempre”.
Il pubblico è numeroso e tanti anche gli applausi. Ci sono molti giovani. Alcuni studenti dell’università di medicina si fermano a parlare con noi. Diversi di loro vorrebbero intraprendere studi di psichiatria. Ci dicono che ci inviteranno in università per un incontro.
Pubblico giovane e numeroso anche da Gigi Gherzi che racconta ancora le storie fragili dalla Città Fragile.
La mattina dopo, ultimo incontro pubblico, alla presenza di Giuliano Scabia. Siamo un po’ emozionati, ma lui si rivela disponibile e alla mano. Si chiacchiera per un paio d’ore. Ci dice che in fondo gli ex-manicomi, come i cinema, non si usano più (pensiamo subito all’Apollo a Milano). Dinosauri destinati a sparire. Anzi già spariti. Forse sarebbe meglio abbatterli. Ma dentro al dinosauro, suggerisce, potrebbe nascondersi un piccolo animale e oggi quell’animaletto può tornare fuori. Si tratta di avviare una metamorfosi degli spazi.
All’incontro è presente una ragazza del gruppo I so’ pazz che ha occupato l’ex opg di Napoli (prima di proprietà del Ministero di Grazia e Giustizia, ora fortunatamente in gestione al comune). In qualche modo le occupazioni consentono la riappropriazione da parte della cittadinanza e la risistemazione, seppur temporanea e parziale, dei luoghi. E poi c’è sempre una terza possibilità, come ci ricorda Pietro Clemente, antropologo e docente universitario: trasformare gli ex manicomi in musei, perché la memoria possa trovare una giusta casa. Ma i musei non rischiano di essere la tomba della memoria? Allora si pensa a musei vivi, partecipati. Musei che si nutrano delle comunità che oggi si definiscono intorno a quegli spazi. Perchè la storia è fatta di tante storie, la storia è plurale. Di queste comunità ci parla anche una giovane fotografa, Elvira Macchiavelli di EsplorazioniUrbane.it. Non solo mostra le foto di molti ex-ospedali psichiatrici, soprattutto del nord italia, ma ci parla di gruppi, di associazioni, di persone che ci lavorano dentro da anni, attivando pratiche di inclusione e che in alcuni casi hanno ottenuto di gestire autonomamente una parte dei padiglioni abbandonati. Abbattimento? Occupazione? Trasformazione museale? Affido alla società civile? Ancora domande.
Alla fine si pranza tutti insieme (a Firenze mangiamo benissimo, Sissi ci tratta da re) e attendiamo la sera per la Passeggiata nel manicomio di San Salvi. Claudio racconta dei primi tempi in cui lui e Sissi arrivarono qui, di quella strana faccenda del riscaldamento funzionante per tutto l’ex manicomio nonostante ci fosse solo un padiglione attivo, delle denunce, dei rischi corsi, del murale che oggi è protetto dalla Sovraintendenza delle belle arti, dei disegni dei pazienti sui muri, degli alberi meravigliosi del giardino. Si percepisce che questo è il “suo” manicomio.
A San Salvi c’è anche la Tinaia, che visitiamo la mattina dopo. Fondata nel 1964, ancora in regime manicomiale, e riaperta nel 1974 da alcuni infermieri (cambiare si può come abbiamo scritto nel report dell’Aquila), la Tinaia è un laboratorio artistico che nasce con lo scopo di opporsi alla mentalità repressiva del manicomio tradizionale, mettendo in atto pratiche di libera espressione artistica, che consentano l’uscita dall’isolamento e dall’emarginazione. La Tinaia è bellissima. Sale luminose cariche di quadri. Grandi tavoli pieni di pennelli e colori. Sappiamo che molte delle opere realizzate qui negli anni sono state esposte in Italia e all’estero in musei, gallerie, collezioni di arte contemporanea (a Losanna, a Parigi, a Londra, a Chicago, a New York, a Liegi). Quando arriviamo ci sono persone al lavoro. Il tempo che abbiamo a disposizione è pochissimo e cerchiamo di guardare tutto il possibile. Ci sono quadri a grandezza d’uomo e quadri piccolissimi. Molto colore. Molto rosso. Molti volti. Pochi paesaggi. Molte parole dipinte sulle tele. Riusciamo anche a parlare con una delle responsabili. Ci dice che oggi la Tinaia è un’associzione onlus, aperta sempre alle persone con disagio psichico, ma che punta soprattutto al lavoro di relazione con le persone, più che all’ottenimento di risultati artistici. Pranziamo a San Salvi alla cooperativa sociale (ce n’è una per ogni manicomio) e ripartiamo il più tardi possibile verso Milano. Nelle orecchie le parole di Giuliano Scabia: “Il viaggio, ricordatevi l’importanza del viaggio”.
Situazione delle cartelle cliniche: a Volterra sono custodite presso la Usl, quelle di San Salvi invece giacciono all’Archivio di stato a Firenze.
Totale chilometri percorsi 2350
Totale spettatori 1760
Tag: casematte (11), ChilledelaBalanza (5), Giuliano Scabia (14), Teatro Periferico (20)
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