Bestemmie Olimpiche per Angelica Liddell

La censura preventiva alla Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi in prima italiana a Vicenza

Pubblicato il 30/08/2015 / di / ateatro n. 156

D’estate, si sa, anche gli animi si scaldano e i media sono affamati di notizie. Così, dopo la pseudopolemica sulla pipì a Santarcangelo (che almeno è partita dopo la replica dello spettacolo di Seghal), è esplosa la polemica preventiva per lo spettacolo di e con Angelica Liddell al Teatro Olimpico di Vicenza, dopo che il suo Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, Cantata BWV 4, Christ Lag in Todesbanden. Oh, Charles! è stato già visto e applaudito in mezza Europa.
Il provincialismo dei talebani nostrani segue sempre lo stesso copione: ne abbiamo parlato solo qualche settimana fa (vedi Pisciare fuori dal vaso. Piccolo promemoria sugli scandali teatrali).
Sulla vicenda pubblichiamo l’intervento di Roberto Cuppone, storico del teatro, nonché consulente teatrale e accademico dell’Accademia Olimpica.
Segnaliamo anche l’intervento di Cesare Galla sulla stessa vicenda.

Angélica Liddell, Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi

In un’intervista concessa ad Anna Bandettini su “la Repubblica” il 21 agosto, Angélica Liddell parla del suo debutto con Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, Cantata BWV 4, Christ Lag in Todesbanden. Oh, Charles!, in prima nazionale al Teatro Olimpico di Vicenza, per il Ciclo degli Spettacoli Classici, 18 e 19 settembre (vi conviene prenotare, col casino che è successo, sarà tutto pieno). Si fa scappare “sangue”, “crocefisso”, “masturbazione”, in catalano? in inglese? in che ordine? Apriti cielo.
Legulei e legaioli locali si lacerano le vesti, in nome della religiosità, della classicità, dell’olimpità o di qualche altra imprecisata -ità; le autorità autorizzano, i teatranti teatralizzano, ex ministri amministrano; il polverone si alza; Salvini e Storace ne fiutano gli afrori mediatici e sciacallano. Si invoca la cancellazione dello spettacolo, si minacciano occupazioni, si chiedono dimissioni e pene corporali (il cilicio per il presidente del Teatro Comunale? la cintura di castità per Emma Dante?). Ad libitum. In ogni replica ricorrono come un mantra quelle tre parole, diversamente combinate: “crocifisso e sangue”, “masturbazione e crocifisso”, “sangue e masturbazione”, senza un’idea chiara né della effettiva successione, né dell’eventuale versamento di liquidi, perché in effetti al momento l’unica che sembra avere visto lo spettacolo è l’ignara e meritoria Bandettini (a cui intanto è molto piaciuto).
Non entro nel merito di queste posizioni aprioristiche (cioè politiche), siano scandalistiche o buoniste; parlo di cose concrete, quelle con cui sono abituato a lavorare, e cioè di fantasmi. I fantasmi che agita il teatro, e che in questi giorni, come da duemilacinquecento anni, turbano i nostri sonni (sperando, almeno da parte nostra di saltimbanchi, che il risultato sia catarsi – in veneto, ‘trovarsi’, parola che forse può essere capita, a loro modo, anche dai moralisti).
A ben guardare, quei “classici” di cui questi Polemisti Estemporanei (PE) si riempiono la bocca sono per l’appunto storie di madri che ammazzano i figli (Medea), se li scopano (Fedra), si accoppiano con animali (Pasifae), salvo scoprire poi che il toro era un dio (zoofilia? blasfemia? abigeato?); storie di dei capricciosi e patologici, dove un dio strafatto se la fa addosso (Le rane) o dove per salire in cielo bisogna cavalcare uno scarabeo stercorario (Le nuvole). I PE dimenticano che il “tempio” di cui paventano lo scempio, il Teatro Olimpico, è la fissazione ad aeternum, in tre ordini architettonici, della casa di uno che ha ammazzato suo padre e copulato con sua madre (a ben vedere, un immigrato dai dubbi rapporti con la Sfinge nordafricana; che fosse anche disabile, spero non dia fastidio). Dal che del resto nessuno ha mai dedotto che l’architetto (Palladio, ndr) fosse uno sporcaccione o un voyeur.

Angélica Liddell, Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi

Angélica Liddell, Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi

I “classici” appunto sono quelli che non restano fantasie sconce di ignoranti caprai greci, ma che arrivano potentemente fino al nostro immaginario. A meno che non si voglia pensare che Seneca fosse di sinistra e Racine in odore di terrorismo, la “classicità” di queste storie sta proprio nella loro “oscenità”, che viene da ob e scaena: cioè prima stavano fuori scena, e il teatro le ha in-scenate, letteralmente, per fugarne il potenziale ansiogeno (altra cosa è il “classicismo”, quello dei nanetti da giardino).
E vengo più precisamente al Sacro – non che tutto questo non lo sia. Cioè sempre ai caprai greci. Ignari delle quote latte, di là da venire, nella tragodìa (tragedia) danzavano per Dioniso vestiti di pelli di capra con vistose protesi falliche (che, all’epoca, diversamente da oggi, sembra venissero semplicemente salutate come segno di buona salute); dunque il teatro in origine è un rito, una cerimonia religiosa. Come del resto nel Medioevo riaffiora in quella domanda, “Quem quaeritis?”, “Chi cercate?”, che l’Angelo rivolge alle Marie, il Cielo alla Terra, nella liturgia pasquale; da cui evolvono dieci secoli di drammi liturgici, sacre rappresentazioni e finalmente drammi profani. Perché adontarsi oggi se qualcuno cerca di ricordarsi la vera funzione del teatro, quella domanda: “chi cercate”? Semmai dovremmo arrabbiarci per tutti quelli che non lo fanno: a ben vedere sono duemila anni di frizzi, lazzi, mossette, pute da sesto, attori in buona fede e alberghi del libero scambio che hanno “banalizzato” il teatro; trasformato il theatron (‘visione’!) in mero intrattenimento, parente diretto dei luna park, della lap dance e dei pornoshop (non a caso appunto tutelati dai medesimi uffici SIAE). O, nella migliore delle ipotesi, fra case di bambole, donne del mare e giardini dei ciliegi, in inquietudini borghesi, niente che oggi non possa essere risolto da una sana terapia familiare (purché breve; astenersi neofreudiani).
Ecco perché secondo Grotowski, diversamente dalla “profanazione”, che è invece “mancanza di rapporto col sacro”, oggi paradossalmente “il blasfemo è il momento del tremito […] È un modo per ristabilire i legami perduti, per ristabilire qualcosa che è vivo […] non c’è blasfemo se non c’è relazione vivente col sacro”.
Omnia munda mundis, direbbe padre Cristoforo (che, pure lui, da giovane, aveva combinato le sue).
E del resto chi è mundus, scagli la prima pietra: chiedete a un cattolico cosa pensa del Dio-Po di Bossi, o a un islamico come vede il Profeta sulla maglietta di Calderoli.
Due esempi di “classicismo”?




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