Le c(h)oeur montois di Marco Martinelli
Bruits d’eaux / Hérésie du bonheur al Théâtre Royal di Mons
Ci sono quattro punti di forza in questa messinscena di Rumore di acque per Mons Capitale europea della Cultura 2015, cui Marco Martinelli è stato invitato insieme ad altri prestigiosi artisti teatrali come Jean-Michel Van den Eeyden, Wajdi Maouawad o Lorent Wanson (si veda per questo il numero speciale 124-125 di “Alternatives théatrales”: Élargir les frontières du théâtre). Il testo è uno dei più belli di Martinelli e le traduzioni in più lingue, avvenute o in corso, ne confermano la vitalità transitiva: la tragedia dei migranti attraverso il monologo di un generale che tiene il conto burocratico dei morti annegati ed è assediato dalle loro voci. A Mons il testo sembra assumere una luce ulteriore.
Il francese di Jean Paul Manganaro risulta particolarmente congeniale a questo racconto scandito dai numeri, con una musicalità poetica che comincia dal titolo, dalla leggerezza sonora del plurale di quel Bruits d’eaux, e risuona sempre più grazie a Karim Barras. Ed è questo il secondo punto di forza. Barras si è diplomato ventenne all’Institut National Supérieur des Arts du Spectacle a Bruxelles (1993) e ha una bella carriera come interprete di autori moderni e di classici. Da protagonista dell’Hamlet di Michel Dezoteux ha vinto il premio della critica belga 2014 quale miglior attore, dopo essere stato Riccardo III con lo stesso regista nel 2010 (e Claudio nell’Hamlet di Armel Roussel). Il suo generale punta decisamente sul testo, laddove il primo storico interprete nel 2010, Alessandro Renda del Teatro delle Albe, aveva creato un intenso personaggio tendente alla maschera in uno spettacolo che gli era affidato per intero: puntando sulla fisicità nello spazio ristretto di una lapide orizzontale.
Si sente l’ombra dei malvagi shakespeariani in Barras, nel suo lavoro rigoroso sulla lingua, senso e sonorità, per dar voce a una tragedia della contemporaneità di dimensioni bibliche. Il movimento è tutto delle parole, nelle parole. Il generale non si scompone, chiuso nel perimetro di una divisa d’antan, scura e carica di medaglie. Crea un polo sonoro capace di dialogare in modo imprevisto con i Fratelli Mancuso: l’arcaicità del loro siciliano e dei loro strumenti musicali, lo sprofondamento del canto popolare in tragedia appunto e quel recitato inesorabile che non concede abbandono nonostante certe dolcezze della lingua. A volte si alternano, a volte si sovrappongono in un concerto diretto con sicurezza.
Terzo punto di forza, lo spazio e i costumi di Ermanna Montanari: un’alchimia d’arte inossidabile quella di Martinelli e Montanari, che comincia dall’ideazione ma dove diventano via via più chiari l’identità registica dell’uno e l’apporto visivo dell’altra. Siamo nel Théâtre Royal di Mons, lo spazio all’italiana viene rovesciato, mettendo i centocinquanta spettatori sul palco e l’isola del generale nella vasta platea, dove – leggiamo nelle Note di regia – gli schienali delle “poltroncine rosse sembrano un mare di onde geometriche disegnato da Klee” e i due ordini di balconate “la fiancata di un transatlantico”. Un rovesciamento che nasce da una visione e crea un effetto strano di rispecchiamento: perché dall’altra parte c’è il coro che è pure composto da cittadini, ma soprattutto perché quello che vediamo è come se infrangesse lo schermo televisivo che quasi ogni giorno ci mostra sbarchi e naufragi. Qualcosa di abitudinario, interiorizzato come tale, che evidentemente lascia dentro un’inquietudine, un dolore nascosto che Martinelli materializza sulla scena e risveglia in noi.
Il sipario tagliafuoco del teatro è pieno di cifre disegnate. Si alza ed ecco che davanti, proprio vicino a noi, il generale comincia a parlare; poi si sposta sulla pedana. Un lungo rettangolo bianco che fende la sala; i Fratelli Mancuso hanno il loro teatrino di lato su una pedana; a destra una piccola piattaforma ospita solo carbone, a ricordo di un fuoco vulcanico che ha bruciato e di chi è scomparso nelle viscere della terra. Infine il generale sale sulla balconata e arringa dall’alto. La striscia bianca si accorcia e si illumina di lucette nei contorni: su di essa il coro deposita degli indumenti. Rinascono in chi guarda certe immagini dei lager o degli oggetti conservati nel Museo di Ustica a Bologna: incarnazioni eloquenti di quotidianità spezzate.
Ma certo è il quarto punto quello che segna più decisamente la messinscena belga. Nasce da un’idea di Daniel Cordova, direttore tra l’altro del Théâtre Le Manège, che propone a Martinelli “un’edizione corale” di Rumore di acque per Mons 2015. Una bella sfida: dare corpo alle voci che assediano il generale, rendere “visibile” quel popolo di fantasmi. Al coro prendono parte 64 cittadini di Mons molto coinvolti, “non-attori” di ogni età, il più anziano ha superato i novant’anni. Dal buio emergono le loro teste, le loro braccia quando si sollevano, si collocano a destra e a sinistra dell’isola del generale, a volte si muovono al richiamo del canto dei Mancuso, girano in tondo come anime perse. Un coro dantesco di anime che, nella nebbia oscura di un limbo, chiedono sepoltura e il riconoscimento del nome. Alla fine, è su di noi che vengono puntati gli accecatori, ma anche in questo caso le luci (a firma di Enrico Isola) hanno una potenza interiore più che d’effetto, che lascia intatta la forza dell’oscurità sottostante. Il coro è coordinato da Michela Marangoni: un’attrice appartenente alla terza generazione delle Albe, che ha imparato da Martinelli l’arte di lavorare con non-attori e da Montanari l’arte di lavorare con la voce.
Nella seconda parte un breve saggio di Eresia della felicità, su parole di Majakovskij. Quando rientriamo dopo l’intervallo per sederci in platea, sembra accecante la luce puntata sul coro in scena, con il colore deciso delle magliette: un giallo che diventa anche di Van Gogh perché in questa terra visse. Con garbo deciso, quando occorre, il regista dà indicazioni a qualche non-attore e anche questo si fa testo. In sottofondo, costante, il canto dell’Internazionale fa nascere una commozione tinta di nostalgia: certo non di un’ideologia partitica ma di un sogno che abbiamo avuto di “futura umanità”. Una conclusione anche per Bruits d’eaux, che qui più che mai si configura come un rito di sepoltura per la dialettica stringente fra il coro dei cittadini e la forza attorica del generale di Barras, in uno spazio teatrale denso che ci fa sentire a nostra volta coro.
Altri due fatti sono importanti in questa mia giornata. L’incontro con il commissario di Mons 2015, Yves Vasseur, che racconta la storia e gli obiettivi della lunga battaglia che ha portato una cittadina del Belgio depresso a divenire capitale della cultura: molto concretamente, a partire dalla creazione di un teatro frontaliero tra Belgio e Francia, segno di un’altra Europa che c’è anche se la vediamo poco. E poi una strepitosa mostra, Clouds, presso il castello del principe di Croÿ-Roeulx, curata da Michèle Moutashar che ne ha fatto un’opera d’arte in sé. “Cielo senza nuvola, poi nuvola senza cielo”, come recita il titolo dato alla presentazione del catalogo: natura e cultura, scienza e arte, leggerezza e pesantezza, oriente e occidente, filosofia e gioco si intrecciano nei magnifici spazi verdi e in alcune parti del castello. Anche quelle nuvole illuminano la mia memoria dello spettacolo di Marco e Ermanna coi cittadini di Mons, visto alla sua terza replica, il 5 luglio 2015.
Tag: Marco Martinelli (21), Ravenna Teatro (21), Teatro delle Albe (29)
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