Nord e Sud, madri e figlie: quattro scritture femminili per la scena
A Bologna Italia/Svezia 2 - 2 (almeno a teatro)
Si è concluso alla Soffitta di Bologna il progetto Italia/Svezia 2 – 2, che ho curato insieme a Vanda Monaco Westerståhl per il Dipartimento delle Arti e l’Arena del Sole (13-17 aprile).
Quattro spettacoli, due tratti da testi svedesi (La morte è un punto di Katarina Carlshamre e La tua Istanbul di Mia Törnqvist), che hanno debuttato in questa occasione, e due da testi italiani già rappresentati (Fine famiglia di Magdalena Barile e Sueño di Sara Sole Notarbartolo). Quattro scritture femminili nate in diversi contesti geografici, connesse alla nostra contemporaneità. Scelte per questo appunto, e non in quanto esemplari per qualità o per caratteristiche di genere. Sguardi di donne, certo, ma al di fuori delle ideologie, che rimandano alle parole con cui Magdalena Barile descrive il suo lavoro.
Quando scrivo penso subito al corpo. Al mio, a quello degli attori che conosco o che immagino. Corpi diversi fra loro di cui tratteggio i limiti prima che i talenti, il peso, la luce, il desiderio e l’eterna tensione ad essere qualcos’altro da quello che si è. Ogni conflitto passa da qui, finisce qui.
La tua Istanbul. In scena due donne svedesi – Klara, giovane chirurga, e un’infermiera che scrive poesie – e tre uomini turchi: il padre Yavuz, attore anarchico trasferitosi in Svezia, e i suoi due figli. Selim è un medico che ha dimenticato la lingua d’origine e ha scelto Stoccolma. Recep è un artista che frequenta la moschea e vive a Istanbul. Diversi modi di vivere il proprio rapporto fra i due paesi. Gelosie antiche, conflitti, complicità. Klara è l’inquietante elemento di disturbo: passa dall’amore per Selim a quello per Recep, è attratta anche da Yavuz, dalla loro cultura delle relazioni familiari, ma non è integrabile. La comunità maschile la espelle. Klara scompare, non sappiamo come.
La scelta registica di Jotti e Monaco è di giocare sui tempi e sulle forme di comunicazione delle sitcom: le scene si succedono veloci, dentro, fuori e sulla striscia luminosa del quadrato creato da Roberto Passuti, pure “compositore concreto” dei suoni. Suoni estratti dalla scena stessa e in rapporto stringente con la drammaturgia verbale e dei movimenti. Stacchi tra una scena e l’altra come in un set televisivo, e un intreccio di sonorità tra Turchia, Svezia e Stati Uniti. Il suono dell’armadio che Recep sta costruendo per Selim, che Selim distrugge dopo essere stato abbandonato da Klara. Niente scenografia: una mise en espace che non è tappa preparatoria dello spettacolo ma toglie quello che non è indispensabile per affidarsi agli attori. S’impone Stefano Jotti, attore con quarant’anni di teatro alle spalle con vari registi (da Dall’Aglio e Morganti a Laura Angiulli), in Italia e in Francia. Si muove sulla scena con meravigliosa disinvoltura, fra le parole di Törnqvist e quelle di Amleto, disegnando un padre sottilmente contraddittorio. Raffaello Balzano – napoletano/romano formatosi alla Link Academy di Roma e a Londra – e Giovanni Del Monte – attore napoletano impegnato anche nel teatro di figura – creano un dialogo prepotentemente fisico fra i due fratelli. Un po’ acerba la Klara della generosa Serena Lauro, pure napoletana. A sé l’infermiera di Vanda Monaco,una stralunata Gelsomina che descrive a Yavuz l’atmosfera degli ospedali di notte.
In Sueño e La morte è un punto il tema centrale è la maternità. Madri che uccidono le figlie materialmente o psicologicamente, figlie che cercano madri desiderandole e/o fuggendole, riconciliazioni affettive nel sogno o nel delirio. Uomini assenti, che esistono solo come fantasmi nella mente delle donne. Come è cambiata questa relazione nel nostro presente dove convivono esperienze diverse, in cui la maternità continua ad essere centrale pur non essendo più al centro delle vite femminili?
In Sueño lo scontro avviene fra una madre mediterranea, potente nei condizionamenti come nell’affettività, seducente e vitale, e una figlia delicata, fragile, che come Klara ma diversamente patisce il rapporto con il mondo maschile. Un bel duello d’attrici – Cristina Donadio e Valentina Curatoli – che si svolge fra inseguimenti e attese, scontri e abbracci, mentre le figure maschili sono tutte interpretate da Raffaele Balzano: fidanzato fratello e ombra di un padre che manca, soldato, controllore del treno…
Un treno fermo che prima o poi dovrà partire, per un viaggio che è il viaggio. Quello fra la vita e la morte che in sogno sembra possibile reiterare. Il corpo dell’amato che riceve baci e diventa cadavere. Il corpo di Ninetta steso sui binari in terra, il rombo del treno che arriva. Il corpo vivo di Morgana, vivo anche quando si pone in ombra da un lato, sullo sfondo. Un corpo che danza e canta, l’uso dello spagnolo che enfatizza l’erotismo: Donadio coi tratti di regina, il grande teatro napoletano e il Gomorra televisivo di cui sarà protagonista come boss di camorra. Valentina Curatoli vibra come una campanula di fronte a quel vento. Non solo lei è legata per formazione all’Emilia Romagna (dalla scuola dell’ERT ai laboratori con il Teatro delle Albe) ma lo spettacolo ha trovato all’Arena del Sole un diverso compimento rispetto al debutto napoletano negli spazi molto connotati del museo ferroviario di Pietrarsa.
Abiti bianchi, anche quelli maschili. Petali di fiori: per Notarbartolo, regista oltre che autrice di Sueño, sono bianchi e rossi e rimandano a riti arcaici di morte. Il bianco è pure il colore della Morte è un punto dove tornano i fiori. La protagonista ne posa i petali sulla striscia che delimita il quadrato di luce, creato da Passuti: da set cinematografico questa volta, più piccolo e più sottile che in La tua Istanbul, con punti di luce come buchi neri. Qui lei vive il suo spazio di gioco, tagliuzzando e incollando collages sulle scarpette nere. Qui si raggomitolerà alla fine della pièce in una fetale posizione di morte. Un monologo in cui la figura della madre e quella della figlia si confondono e l’infanticidio commesso viene non raccontato ma alluso: parole che viaggiano con la libertà di una follia pacata, che talora si bloccano in ripetizioni: “tende le manine, tende le manine, tende le manine”… In fondo una grande foto con una bambina in un giardino ci guarda fissi negli occhi. Ondeggia lievemente.
Il regista Arturo Muselli – pure attore, attivo fra Italia e Inghilterra, pure fotogiornalista – ha lavorato per alleggerire il testo creando, a partire dalle improvvisazioni mirate dell’attrice, una drammaturgia parallela di azioni quotidiane: una lunga vestizione che inizia con Any in sottoveste che si è appena lavata i capelli e si conclude con Any più che vestita, con borsetta, guanti e un turbante in testa. Come tante anziane che incontriamo: addobbate per un mondo tutto loro. Alcuni momenti buffi che fanno sorridere. Vanda Monaco interpreta il testo come se stesse donando al pubblico brandelli di una storia, di una giornata. Il volto lascia intravvedere a tratti il guizzo della follia. Attrice in più lingue – italiano e napoletano, svedese e inglese – Monaco punta a creare un effetto di verità intrecciando parole e azioni. Una tela di microemozioni che il regista inquadra come per una fotografia di Gregory Crewdson, senza ausilio di altri suoni che la voce dell’attrice. Apre con Days of fire di Nitin Sawhney e chiude con Untitled3 dei Sigur Ros.
Un registro completamente diverso quello di Fine famiglia. Comicità contagiosa per dire di una famiglia che sembra solo italiana ma proietta le sue ombre oltre Milano. Un padre poco presente e un po’ fatuo, una madre opprimente e ossessiva, una figlia in perenne contestazione e un figlio in stato di masturbazione: in fuga ma prigionieri in casa, soggiogati nell’attesa della torta materna, nella notte di Natale. Come in una casa Cupiello dove tutto è esplicitamente esploso, in farsa e non in tragedia. I quattro a un certo punto compongono un quadretto della natività, però qui al centro c’è il forno, un grande forno, dove i componenti della famiglia si mostrano come in un acquario.
Il regista Aldo Cassano, fondatore e direttore della compagnia Animanera, pure interprete del ruolo del padre, ha spinto su una lettura comica del testo, facendo passare di qui gli aspetti inquietanti. Ha valorizzato il linguaggio pungente di Magdalena Barile poggiando sulla bravura di attori scatenati, in un meccanismo a orologeria precisissimo. Le canzoncine televisive più note e sdolcinate si accordano con i ritmi recitativi, sottolineando la volontà di comunicare con un pubblico ampio, che ridendo possa sentire sulla pelle dinamiche familiari diffuse. Natascia Curci, la figlia, si è formata tra tradizione e ricerca. E’ fondatrice di Animanera, nel cui ambito è cresciuta Elisabetta Fulcheri (la madre), mentre Matteo Barbè (il figlio), che collabora dal 2010 con la compagnia, si definisce “un attore non accademico”, che finisce per “fare indifferentemente una black comedy o il mimo danzatore in un’opera lirica, un classico o una performance muta”.
Un finale festoso per il progetto. Oggi che torno a rifletterci, dopo aver visto gli spettacoli, mi sembra emergano soprattutto alcuni aspetti tesi fra differenze e fili di collegamento. Il senso della mobilità della nostra realtà che investe i testi stessi, allontanando ogni pretesa di essere ‘per sempre’: sguardi focalizzati su frammenti di realtà, un’assunzione dell’ autorialità non rigida, che “chiama” la scena, come ha detto Lorenzo Donati. E, in secondo luogo, la ricchezza di averli accostati quei testi, restituendo teatralmente l’idea di partenza: l’ Europa delle diversità appunto, variegata e per questo interessante, fatta di tante storie, di tanti personaggi. Nord e sud di un’Europa che esiste talora nei fatti – dice Stefano De Stefano –, prima e oltre l’unità politica così difficile da costruire. Che il teatro mostra qui nella sua dimensione inevitabilmente plurale, affidandosi ad attori duttili e a registi che si mettono al loro fianco, senza proporsi come maestri.
Le foto sono state scattate da Marco Caselli Nirmal in occasione del bel Laboratorio della Laurea Magistrale del Dipartimento delle Arti, dedicato quest’anno alla fotografia teatrale. Le ho scelte insieme a Linda Baldassin.
Tag: BarileMagdalena (5), pari opportunità (17)
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