#IETMBergamo. Regeneration, ovvero la differenza tra nuovo e innovazione

Conversando con Silvia Bottiroli

Pubblicato il 18/03/2015 / di / ateatro n. 153

Ormai ci siamo: IETM Bergamo è alle porte. Il programma è pronto (lo si può vedere qui), le iscrizioni si alzano (siamo già a quota 200), e cominciamo davvero ad entrare nel vivo dell’evento.
Per questo abbiamo scelto di incontrare alcuni artisti e operatori, e raccogliere le loro impressioni ed opinioni.
La nostra prima ospite Silvia Bottiroli, direttrice del Festival di Santarcangelo.

Silvia Bottiroli

Silvia Bottiroli

Etre: Per questa edizione di IETM abbiamo scelto una parola chiave, Regeneration, perché abbiamo percepito nei meeting recenti una grande voglia di rinnovarsi. Siamo consapevoli che un cambiamento è necessario ma siamo altrettanto consapevoli che il cambiamento non può nascere dal niente. Ecco perché Regeneration: nel senso di ridare vita a qualcosa che già c’è. Cosa ne pensi e cosa “salvi” per ridargli vita?

Silvia Bottiroli: Non sono così in sintonia con l’idea di rigenerazione. C’è più bisogno di nuovo che d’innovazione, se intendiamo l’innovazione come il processo di cambiamento di un sistema che produce novità trasformando l’esistente. Credo che ci sia più bisogno di nuovo, di individuare un modo di lavorare altro, che ovviamente non può prescindere da aspetti che già conosciamo e di cui comunque c’è molto da salvare.
Da salvare c’è la centralità del lavoro degli artisti e dell’autonomia dell’arte.
La capacità dell’arte del confronto con il reale deriva infatti dalla sua indipendenza: le politiche artistiche invece riconoscono e danno valore all’arte e all’arte performativa solo se relazionata alla sua capacità di presentarsi come una forma di “servizio” all’interno di un tessuto sociale o politico.
Salvo perciò la possibilità per gli artisti di lavorare alle condizioni di cui hanno bisogno. In questo senso, dovremmo ripensare ai parametri su cui vogliamo lavorare: per ora i nostri parametri vengono dettati semplicemente dal contesto economico in cui viviamo, e quindi anche i parametri di sostenibilità e mobilità non sono altro che figli del tardo capitalismo in cui viviamo.
L’arte deve invece ritrovare il suo spazio dove poter riprendere la parola e affermare altri valori e modalità che sono necessari al suo personale lavoro.
Oggi ci sono molti contrasti in relazione al tema della mobilità e al sistema dell’arte: a un’artista da una parte viene richiesta una forte appartenenza nazionale, anche in virtù del fatto che viene sostenuto da finanziamenti a base nazionale (in Italia in modo particolare, vista anche la scarsa valorizzazione delle circuitazione all’estero, ma comunque vale lo stesso anche per altri paesi teatralmente più evoluti, dove gli artisti attingono a fondi nazionali), ma allo stesso tempo devono dimostrare un rapporto con il territorio specifico che li ospita, senza considerare che ciò può risultare un problema per molte compagnie e artisti le cui esigenze e pratiche produttive portano a orientarsi verso piani differenti.
Andrebbe attivata perciò una riflessione sul lavoro, che dovrebbe riconcentrarsi sul suo lessico, e sui valori che orientano le pratiche.
Altra cosa che salvo è la connessione tra il lavoro di produzione artistica e la sfera extra-artistica, quella della città, del pubblico e dei cittadini. Una connessione sviluppata non nell’ottica dell’arte come servizio d’intervento sociale, ma come la creazione di contesti entro cui queste due dimensioni possano convivere per cui, in un’ottica internazionale, possa avvenire un incontro tra la scena internazionale e il contesto locale. Un incontro che significa guardarsi, e anche non capirsi, uno spazio perciò non privo di conflitti dove poter individuare un senso.
Rispetto a delle modalità di lavoro sarebbe importante ripensare il sistema delle relazioni e immaginarsi modi di lavoro collaborativi e plurali ma fuori dalle agende politiche dei progetti europei.

Sappiamo bene come alcune collaborazioni per i progetti europei siano forzate, senza che i partner abbiano un tessuto comune

La comunità europea dà indicazioni molto chiare all’interno della strutturazione dei propri bandi, che intercettano specifici tipi di lavoro: gli operatori dovrebbero essere capaci di usare questi strumenti finanziari e politici, creando però anche spazi di lavoro con artisti liberi da un’agenda culturale che non è dettata dalle loro esigenze, spesso non orientate verso forme di partecipazione e coesione sociale.

Spesso i bandi europei hanno un’applicazione difficile ai contesti artistici esistenti.

Bandi e strumenti legislativi cambiano il sistema in maniera molto rapida, generando quasi un effetto terremoto: il cambio delle relazioni mette in discussione delle certezze e ne genera delle altre. Lo stiamo vedendo proprio in questi giorni, col nuovo FUS. Le relazioni che sorgono all’interno di questo clima spesso nascono dalla paura di perdere una posizione e non partendo da una costruzione progettuale.
La domanda che dobbiamo porci noi operatori è come un bando possa rendere trasparente il lavoro che realmente facciamo. Oggi infatti i bandi restano semplicemente strumenti normativi ma che non sono in grado di leggere l’esistente. Così generano due livelli di realtà: da un lato la realtà di quello che si fa, dall’altra la realtà che gli operatori sono costretti a raccontare sulla base di parametri che non riconosciamo

Ci siamo posti molte domande anche sul pubblico. Nel Meeting IETM in Grecia, dove a causa della crisi sono stati tolti i finanziamenti pubblici, gli operatori ci hanno detto che il fatto che nessuno li abbia difesi significa che il pubblico probabilmente non li sosteneva più, e se ne sono assunti in qualche modo la responsabilità. Peraltro, a livello europeo, la misurazione degli impatti sul pubblico è spesso al centro dei dibattiti di IETM perché spesso i parametri quantitativi richiesti non ci corrispondono, e non sanno restituire il rapporto qualitativo con lo spettatore.

Negli ultimi dieci anni e oltre si è creato un forte divario tra un livello molto basso di spettacolo come puro intrattenimento, che magari quantitativamente fa grandi numeri di pubblico ma che non contribuisce alla crescita di un pensiero critico. Poi ci sono circoli molto chiusi soprattutto dagli stessi programmatori. Si deve cercare di unire la qualità al riscontro del pubblico.
Forse c’è anche un problema legato alla troppa produzione.

Secondo te c’è una responsabilità degli operatori?

Sicuramente. Ci sono stati una serie di aspetti problematici ma anche esempi virtuosi. Credo che di questo in Italia ci siano esempi clamorosi di cose già viste e riproposte. Ci sono stati, negli anni recenti, tanti bandi diretti ai giovani che poi non hanno avuto esito, compagnie che sono state troncate poco dopo aver cominciato, esattamente nel momento in cui sono terminati i fondi che li sostenevano.
Compito dei programmatori sarebbe dunque quello di continuare la relazione con il lavoro artistico (e mantenerne la qualità), generando però un dialogo con il pubblico.
Io credo che dobbiamo farci delle domande anche sulle condizioni di lavoro.
Stiamo lavorando tutti, sia artisti che organizzatori, in condizioni che non sono ottimali e nemmeno possibili, e non mi sembra un caso che figure che in posizioni importanti inizino a levarsi voci allarmate: vedi il recente esempio di Cristiana Collu al MART di Rovereto che ha rinunciato al suo impegno perché economicamente non è stata messa in grado di lavorare.

Dal punto di vista internazionale, secondo te di che cosa noi italiani abbiamo bisogno dall’estero, e cosa possiamo portare fuori dall’Italia? Quale lavoro possiamo fare per andare avanti insieme?

Non siamo così ‘staccati’ dal resto del mondo. Io poi credo di avere una visione parziale del mondo teatrale italiano, facendo parte di una parte molto ‘piccola’, che è quella che mi interessa e quella in cui lavoro.
Il teatro italiano ha una grande capacità di farsi delle domande radicali dal punto di vista del senso, della necessità di quello che si sta facendo, derivante forse dal suo stato di crisi permanente. In altri contesti internazionali non trovo così forte questo interrogarsi.
I programmatori, gli operatori, sono sovente chiusi e in balia di politiche locali sempre più pressanti che li portano a sacrificare la dimensione internazionale, che proprio la politica non richiede in maniera forte perché vorrebbe dire aprire un confronto con la realtà e ci aprirebbe domande anche molto urgenti sull’oggi.
Il problema oggi è la mancanza di spina dorsale da parte dei programmatori, spina dorsale da intendersi come postura etica e non fragile: significa impostare le relazioni sulla laicità.
Le relazioni tra i diversi programmatori non sono, come spesso capita all’estero, cariche di contenuti volti al confronto, ma si orientano solo sul sostegno reciproco, che non fa crescere e prendere delle posizioni. Basta pensare alle relazioni tra le singole strutture, o tra le strutture e la critica vedo: se penso ai colleghi esteri, c’è molto meno questa mancanza di “laicità”.
Manca, all’interno dei programmatori e dei direttori, la visione della missione e della visione culturale della struttura che dirigono. Manca la visione artistico-culturale delle organizzazioni, e lo si vede a partire dai decreti ministeriali in avanti, dove c’è tutto e il contrario di tutto.

Sarebbe possibile creare una lobby, un advocacy comune per influenzare le politiche e fare una pressione comune perché qualcosa di nuovo accada?

La questione è complessa. Esiste una profonda difficoltà, congenita un po’ a tutti, che si individua nell’intrinseca necessità e facilità di avvicinarsi verso chi condivide con noi una visione artistica e un piano etico simile. Questo inevitabilmente blocca delle azioni di gruppo per cui si genera un’impossibilità per gli artisti di unire la propria voce a quella di chi ha un punto di vista artistico che non si sente prossimo. Sicuramente è un atteggiamento sciocco e che denota debolezza.
Per esempio in Belgio c’è in questo periodo un movimento artistico forte che però non ha grandissimi contatti con la realtà in cui vive. Come possiamo condividere con gli spettatori il lavoro che facciamo? Come creare una comunità più ampia e consapevole?
Dico sempre che a Santarcangelo, in paese, ogni tanto mi capita che mi chiedano, nel mese di maggio, se ho cominciato a lavorare al festival: allora capisco che ci sono dei problemi in termini di consapevolezza di ciò che si fa, del tempo e lavoro richiesto. E mi dico che probabilmente nessuno mi difenderà se mi taglieranno i fondi.

Disegno di Marco Smacchia

Disegno di Marco Smacchia




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