Ferdinando Bruni / Elio De Capitani, Frost / Nixon e altre coppie
Come cambia uno spettacolo nel corso delle repliche? Una riflessione sul lavoro dell'attore
Frost/Nixon ha debuttato all’Elfo Puccini alla fine del 2013, ha concluso (per ora) il suo viaggio a La Spezia in febbraio. Perché scriverne ora, fuori dall’attualità, dopo aver rivisto lo spettacolo all’Alighieri di Ravenna, a più di un anno dalla prima milanese? Gli spettacoli cambiano da un pubblico all’altro, di sera in sera, figuriamoci dopo mesi di repliche. Inoltre, proprio a Ravenna, è giunto un inatteso riconoscimento da Jim Reston, uno dei protagonisti della vicenda raccontata da Peter Morgan: la messinscena italiana gli è sembrata “la più teatrale, ricca di invenzioni non contenute nel testo, attenta ai personaggi secondari ed emozionante” di quelle finora realizzate in Inghilterra, Stati Uniti, Canada…
Frost/Nixon è cambiato soprattutto per i due protagonisti anche registi, dice Bruni: abbandonate le preoccupazioni registiche hanno potuto concentrarsi sul piacere di recitare e sulle relazioni sceniche. Lui, ad esempio, si è sentito libero di eliminare la parrucca: il caschetto anni settanta di Frost. De Capitani dichiara che il suo interesse si è spostato dal tema delle menzogne del potere allo scontro fra la concezione politica di Nixon, che è vecchia, alla modernità spettacolare di Frost. In realtà la sua attenzione è ancora significativamente concentrata sui momenti emotivamente più forti: dettagli, sfumature. Il pubblico, che nel gergo teatrale ottocentesco si chiamava “l’orbetto”, lo avverte più o meno consapevolmente.
Frost/Nixon racconta un grande evento televisivo: intervistato dal conduttore di talk show inglese David Frost, Richard Nixon, già dimessosi da presidente per lo scandalo Watergate, ammette pubblicamente il ruolo avuto nelle intercettazioni illegali ai danni dei Democratici e chiede scusa al popolo americano. La confessione arriva dopo un lungo match in cui il gioco fino all’ultimo è nelle mani di Nixon, della sua straordinaria oratoria e capacità di manipolazione. Frost, che nell’intervista ha investito milioni di dollari e carriera, vince all’ultima ripresa: da grande professionista ha creato uno staff di professionisti, che lavora a tempo pieno alla documentazione e discute accanitamente sulle strategie di conduzione delle interviste. Riesce così a realizzare lo scatto – tutto suo – che infine crea la differenza: la sua conoscenza del mezzo televisivo, costruita in anni di lavoro ed esaltata dall’entità della sfida. Dopo essere stata un successo nei teatri londinesi la pièce è diventata un film con cinque candidature all’Oscar: con gli stessi attori protagonisti, Michael Sheen e Frank Langella, il grande “caratterista”.
Il testo (tradotto in italiano da Lucio De Capitani) è potente per i temi e i personaggi che mette in campo, per la capacità di creare suspence, ed è contemporaneo per il montaggio serrato degli accadimenti e per la velocità dei dialoghi. Come dice Sascha Arango, sceneggiatore (al pari di Morgan) appena passato al romanzo (La verità e altre bugie), gli sceneggiatori possiedono una tecnica “che consiste nell’arrivare al punto omettendo, anziché aggiungendo dettagli. La parte più difficile del lavoro è proprio in ciò che non scrivi”. Così, anche lo spazio nella regia di Bruni e De Capitani è essenziale ed efficace, semivuoto, sedie scorrevoli e poco altro, niente proiezioni video come è stato nelle messinscene di altri paesi. La centralità del testo comporta la centralità degli attori. La psicologia non può che essere sottintesa: un risultato del lavoro che gli attori hanno fatto per diventare Frost e Nixon, appropriandosi delle battute del testo. Questo fa sì che la dimensione intima possa essere assorbita dalla vicenda pubblica, possa nutrirla dall’interno senza scalzarla.
Di De Capitani avevo apprezzato la capacità di affrontare figure reali, combinando il lavoro fisico sul personaggio con quello interiore, come nello straordinario Berlusconi del Caimano di Moretti. Il suo Nixon, irrigidito dalla parrucca che introduce un elemento efficace di somiglianza, sicuro di sé quando si fa forte delle sue abilità di avvocato, imbarazzante quando dice battute per risultare disinvolto, logorato dalla necessità di controllare i suoi impacci di parvenu, si mostra in particolare in tre momenti di ‘verità’: il discorso pubblico di dimissioni, che apre lo spettacolo, dove parla il Presidente nel mentre sta cambiando di status; la telefonata notturna al suo rivale, quando si prepara da vincitore all’ultimo match, dove conosciamo il suo astio per figure come i Kennedy, dal fascino innato e indiscusso; e infine la confessione pubblica. Nel vero scontro televisivo e nelle precedenti messinscene parlava soprattutto il primo piano del suo volto devastato. In assenza di proiezioni, quell’impatto De Capitani deve crearlo con la sola forza delle parole, guardando negli occhi il pubblico.
Non punta a umanizzare il personaggio ma a creare una dimensione tragica, legata al tema della caduta. Uscendo di scena, l’uomo più potente del pianeta, che al culmine della carriera si autodistrugge per le sue paranoie, acquista grandezza. Una grandezza che prescinde dal giudizio storico sul personaggio e non modifica la realtà dei fatti: l’espulsione di Nixon dalla politica e un giudizio severissimo del popolo americano sulla sua presidenza. Come per il Riccardo III shakespeariano e altre raffigurazioni di potenti (fino al Frank Underwood del televisivo House of Cards, interpretato da Kevin Spacey), non si tratta di avallare operati e comportamenti più o meno nefandi. Al centro ci sono figure corpose e storie appassionanti: il bisogno umano, degli adulti come dei bambini, di vedersele raccontare. Un campo aperto di sperimentazioni: come il teatro può rimodellare i suoi linguaggi nell’epoca della comunicazione di massa globalizzata e tecnicamente rivoluzionata, affiancandosi al cinema, alla televisione, al computer con la sua diversità originaria di relazione viva, in presenza, affidata principalmente all’attore. Come può conservare la sua diversità senza rinunciare ad agganciare un pubblico ampio.
Per il suo Nixon De Capitani dice di avere un debito nei confronti di Frank Langella e di Nanni Moretti. Langella gli ha “indicato la strada di non fare Nixon”, per come ha usato una timbrica affascinante e ha costruito “un omone impacciato e sicuro al tempo stesso”. “La severità del set morettiano” per Il caimano gli ha insegnato l’arte del controllo, la costruzione di partiture fissate e la possibilità di intervenire dall’interno per sfumature. Naturalmente De Capitani ha anche studiato il vero Nixon, ma al centro è sempre rimasto il testo di Morgan, scena per scena: la ricerca individuale non è ne che un complemento per rafforzare il rapporto col testo e trovare dettagli utili. La stessa cosa che dice del lavoro sui personaggi storici Anthony Hopkins, altro interprete cinematografico di Nixon. L’attore non può condizionare il suo rapporto col personaggio a un giudizio né politico né di altro tipo, cerca anzi tutti gli aspetti che possano tornare utili alla sua interpretazione, per mostrarci il mondo e le persone come sono, nella loro contraddittoria vitalità.
Se Nixon è come prigioniero dello “scafandro presidenziale”, Frost è in continuo movimento: agile, scattante, sicuro di sé, si piace, si diverte, vuole vincere alla grande e per questo lavora, rischia, accetta anche di essere sbeffeggiato. Due tipi umani opposti, due visioni del mondo. Ferdinando Bruni ha puntato completamente sul testo, sulla sua capacità di equilibrare documentazione e spettacolarità, dato che il vero Frost non era conosciuto in Italia, semmai il suo interprete cinematografico: bravissimo, dice, ma decisamente anglosassone. E’ partito dalla gioia di vivere e dal fatto che essa comporta un tratto di superficialità, di grossolanità. Ed essendo rispetto a Nixon l’intervistatore e rispetto allo staff un raccoglitore di ricerche, ha lavorato sapendo di essere in parte definito dagli altri, un portato del contesto. In lontananza l’ombra del suo Lopachin in rapporto al Gaiev di De Capitani nel Giardino dei ciliegi.
Per seguire un match pugilistico in tutti i suoi aspetti è bene guardare i secondi oltre ai due combattenti, che sono tutti concentrati l’uno sull’altro: sono i secondi che ci fanno capire cosa provano i pugili, cosa sta succedendo, ci ricorda Ron Howard, regista della versione cinematografica di Frost/Nixon. In questo spettacolo ci sono sei attori, di varia formazione e provenienza, a testimonianza della laicità dell’Elfo Puccini: lavorare qui comporta di “essere se stessi [come attori] dentro una forte dinamica di gruppo”, dice Andrea Germani. Della squadra di Nixon fanno parte l’eclettico Luca Toracca, uno dei fondatori dell’Elfo, nei panni di Swifty Lazar, impresario vecchio stile e truffaldino; e Nicola Stravalaci, formatosi all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, nei panni di Jack Brennan, un militare schivo, legato al presidente da un’ammirazione sincera. Dall’altra parte tre giovani all’attacco. Alejandro Bruni Ocaña, conteso da Bruni alla Scuola Paolo Grassi che stava frequentando per interpretare Salomé, che qui ricopre un doppio ruolo: il vivace narratore e Jim Reston, biografo di Nixon e ricercatore universitario politicizzato. Andrea Germani, diplomatosi alla Scuola del Teatro Stabile di Trieste e poi a quella del Piccolo Teatro di Milano, incarna Bob Zelnick, abile giornalista che si è occupato tra l’altro della guerra del Vietnam; Matteo de Mojana, proveniente dalla scuola del Piccolo teatro, che recita anche in inglese, pure musicista, è John Birt, il produttore amico di Frost. L’unica attrice in scena, e l’unica che incontra l’Elfo Puccini in questo spettacolo, è Claudia Coli che interpreta Caroline: l’ombra di Frost nella vita mondana e in questa difficile battaglia. Ognuno di questi personaggi ha caratteristiche di maschera, è subito riconoscibile in un testo magnifico per i suoi ritmi.
Bruni e De Capitani costituiscono una coppia professionale misteriosa, costituitasi più di quarant’anni fa. Avendo vite personali del tutto separate, condividono la direzione artistica dell’Elfo Puccini abitando un ampio studio nella sede di corso Buenos Aires (e un camerino in due nelle tournée), e collaborano teatralmente a vari livelli: in molti spettacoli Elio De Capitani è regista e Ferdinando Bruni primattore (come in Amleto, di cui De Capitani continua a citare l’eccellenza interpretativa). Hanno condiviso molte regie, raggiungendo un punto decisivo di svolta con lo storico Le lacrime amare di Petra von Kant di Fassbinder (1988). Essendo entrambi pienamente sia attori che registi, volendo fare “lo stesso teatro”, Bruni ha passioni e competenze in campo visivo e musicale ed è un bravissimo traduttore (da attore); De Capitani è un realizzatore ben radicato nella realtà, alla maniera di Paolo Grassi, e al contempo un intellettuale molto curioso. Sostengono “un’idea di interprete diverso, che si fa carico di ‘rappresentare’, non ‘essendo’, ma che proprio ‘rappresentando’ ‘è’”. Fanno di Shakespeare un perno del loro percorso e sono attenti ai linguaggi della contemporaneità. Stanno spesso in scena insieme e ultimamente si sono fronteggiati in Il vizio dell’arte di Bennet, regia di Bruni e Francesco Frongia.
Se nel precedente spettacolo dominava la figura di Nixon qui la scena è soprattutto di Bruni, che interpreta il poeta Auden mentre De Capitani è il compositore Britten. La vecchiaia enfatizza le differenze fra i due personaggi: il corrosivo Auden è sciatto e sporco, provocatorio nel linguaggio e nell’esibizione della sua omosessualità. Britten, attratto dai giovinetti e timoroso di scandali, è supercurato, attentissimo. Il meccanismo metateatrale rilancia la distanza. Stiamo assistendo alle prove del Giorno di Calibano, che racconta appunto di un incontro immaginario fra i due artisti, venticinque anni dopo la loro reale frequentazione, poco prima che muoiano. Bruni si fa carico della parte poetica e De Capitani si diverte interpretando il maggiordomo, da caratterista.
Attualmente i due sono divisi nella programmazione dell’Elfo Puccini: De Capitani è tornatato al suo Commesso viaggiatore e ha appena debuttato L’ignorante e il folle di Bruni e Frongia. E’ di trent’anni fa la prima regia firmata da entrambi: L’isola di Athol Fugard. Due detenuti, condannati ai lavori forzati stanno preparando una messinscena dell’Antigone in un carcere sudafricano: Bruni è Antigone, De Capitani è Creonte. Questi i loro visi fotografati da Maurizio Buscarino: non facce ma visi appunto, capaci di esprimere l’anima e dunque la tonalità emotiva di quel lontano spettacolo e di una giovinezza carica di talenti e di promesse.
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