Speciale archivi. Una necessità che diventa ossessione: la memoria viva del teatro
In vista dell'incontro La memoria dell'effimero, Milano, 24 gennaio 2015
In vista dell’incontro del 24 gennaio La memoria dell’effimero, pubblichiamo una riflessione introduttiva.
Per i teatranti, la memoria è necessità che diventa ossessione.
In primo luogo, il teatro è ripetizione, una sequenza di gesti e parole dettati dalla memoria. L’attore agisce riattivando il ricordo di azioni progettate in anticipo. Prima di re-citare, un attore deve “fare la memoria”.
In secondo luogo, qualunque teatrante si inserisce in una tradizione, che nell’immediato risale ai suoi maestri, e più all’indietro a una storia iniziata almeno 2500 anni fa, con testi che continuano a essere riportati in scena. Non è una paternità astratta: “Tuffandosi nella memoria delle sue tradizioni, scavando, scrostando, il teatro porta alla luce un linguaggio” (Georges Banu, Memorie del teatro, Il Melangolo, Genova, 2005, p. 51). Il teatro è memoria in atto, un passato che si attualizza nel “qui e ora” dell’evento.
Questa persistenza – la “lunga durata” del dispositivo spettacolare – viene contraddetta dalla natura effimera e immateriale dell’evento teatrale. Molti attori e registi avvertono la dolorosa urgenza di lasciare un segno che non si riduca all’elenco degli spettacoli ai quali hanno preso parte. E’ la terza ragione di questa ossessione per la memoria. Uno spettacolo non si riduce a un testo, a un’immagine e nemmeno a una partitura: non è un oggetto materiale, ma puro accadere, evento, incontro. Ecco dunque la necessità di costruire e lasciare tracce.
Quelle prodotte dall’attore sono però tracce ambigue. La sua è una memoria paradossale. Quello che scrive Ferdinando Taviani a proposito delle prime memorie dei primi Comici dell’Arte non vale solo per loro:
“Il rapporto fra la persona dell’attore e la sua figura teatrale (…) non è né di distanza né di trasparenza né tanto meno di identificazione. In realtà si direbbe che l’attore si nasconde attraverso l’autobiografismo. O meglio, dissimula la sua presenza, la traveste. L’autobiografismo, in questo modo, non è rappresentazione della propria persona, ma il risultato del modellarsi della finzione teatrale sulla persona al fine di nasconderla, così come la maschera non riproduce i tratti del volto, ma vi si adatta, li segue per nasconderli o deformarli.”
(Ferdinando Taviani-Mirella Schino, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII secolo, la casa Usher, Firenze, quarta edizione, 2007, p. 432)
La centralità di una memoria che si deforma investe anche lo spettatore, per il quale lo spettacolo esiste solo retrospettivamente. Tutto quel che accade in scena è “fatto della stessa materia dei sogni”. Effimero, reversibile. Agisce nell’animo del testimone solo quando l’evento si è concluso, quando non accade più. Lavora nel ricordo. Come nota Luca Ronconi, “il vero spettacolo, il vero rapporto con il pubblico si forma nella memoria dello spettatore. Non ha una reale oggettività e dunque è suscettibile di ogni forma di alterazione” (ateatro,it, marzo 2014). E’ una memoria labile, soggettiva, anche perché l’attenzione dello spettatore è intermittente (anche quando non è lo “spettatore addormentato” teorizzato da Ennio Flaiano).
Nella storia del teatro del XX secolo, la memoria ha assunto un ruolo se possibile ancora più cruciale, quasi raddoppiando queste stratificazioni. Per quanto riguarda il lavoro dell’attore, il meccanismo della “riviviscenza” stanislavskiana coinvolge un altro vettore della memoria, il vissuto personale dell’attore. Sul piano registico, le rivoluzioni teatrali del Novecento hanno trovato ispirazione in un ritorno alle origini: la Commedia dell’Arte, il teatro balinese, il rito…
Non è accaduto solo e tanto negli spettacoli effettivamente realizzati, ma anche e soprattutto nei libri in cui si immaginava un teatro possibile. Come esemplificano Gordon Craig e Antonin Artaud, “la memoria del teatro, sia che di tratti della memoria affettiva o di quella delle origini, cerca sempre il sentimento della ‘prima volta’, dell’avvenimento diretto” (Georges Banu, Memorie del teatro, cit., p. 79).
Georges Banu identifica tre piani della memoria teatrale:
“Il primo concerne una biografia vissuta, il secondo un passato immaginato, il terzo le origini ritrovate. In questo movimento, il punto di partenza è l’individuo con la sua esperienza, per estendersi poi al campo del teatro, questo campo di rovine che permettono alla memoria di operare in ragione stessa del suo stato. Il terzo tempo segnerà il ritorno all’uomo, non tanto in quanto individuo, ma in quanto essere che porta in sé il ricordo delle sue prime origini.”
(op. cit., p. 17)
Il labirintico rapporto del teatro con la memoria ha ricadute importanti sia per chi fa teatro sia per chi lo studia. Ha scritto Eugenio Barba, nella Premessa alla sua corrispondenza con Jerzy Grotowski:
“La storia sotterranea del teatro non si lascia intrappolare nelle ragioni storiche chiare a posteriori. Vede casualità apparenti, circostanze sconnesse, incontri fortuiti. E soprattutto scopre – dietro la grandezza dei risultati e l’efficacia delle scelte – altre forze ed altre dimensioni: l’impulso alla rivolta, l’incapacità di addomesticarsi allo spirito del tempo, la sete di trascendere la propria società e la propria persona. E la forza dell’innamoramento e dell’amore.”
(Eugenio Barba, Terra di cenere e diamanti, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 11)
La relazione tra il teatro della storia e il teatro della memoria viene ulteriormente distorta dalle asincronie del teatro rispetto alle altre arti, e dalle divergenti velocità dell’evoluzione del teatro: “Nella maggior pare dei casi si assise al sorgere d’una nuova drammaturgia in un contesto teatrale inadatto ad accoglierla o viceversa a un rinnovamento dell’arte scenica che corre più veloce degli scrittori che scrivono per il teatro” (Ferdinando Taviani, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 14).
Un altro livello di complessità emerge non appena si esamini le modalità in cui la pratica immateriale del teatro si sedimenta e si oggettiva, per finire negli archivi teatrali.
A un primo stadio si sedimentano i materiali utilizzati nella produzione e realizzazione degli spettacoli: per esempio, il copione (e di fatto la letteratura drammatica), i bozzetti di scene e costumi, i video delle prove, gli oggetti di scena, i costumi… Ma anche i contratti e quanto riguarda gli aspetti amministrativi e gestionali.
C’è poi il materiale promozionale prodotto da teatri, compagnie, festival: programmi, locandine, manifesti, programmi di sala, e ora videoclip e trailer…
Sul versante della ricezione, c’è la mole di materiali creati dai testimoni: interviste e recensioni in vari formati, racconti e testimonianze orali e scritte (e ora anche audio e video). Una attenzione particolare la meritano i dibattiti e le polemiche tra i creatori e gli osservatori: un tempo attraverso incontri, epistolari, interventi giornalistici, televisivi e radiofonici, e adesso anche in rete.
C’è poi l’attività di ricostruzione storica che, partendo da questa documentazione, opera un’altra forma di riattivazione dell’evento spettacolare: sotto questo aspetto, anche l’attività dello storico è affine a quella dell’attore.
Ulteriori tracce o suggestioni possono arrivare da oggetti più o meno effimeri: i biglietti d’ingresso degli spettacoli conservati gelosamente, ma anche oggetti-feticcio appartenuti ad attori o registi, con la loro aura, seppure a volte deludente.
Georges Banu ricorda la delusione provata quando vide per la prima volta una fotografia di uno degli spettacoli chiave del Novecento, Jedermann di Max Reinhardt: “Smorfie e cartapesta, costumi da festa scolastica – scoprivo i disastri della conservazione a teatro”. Non sempre è facile riattivare la memoria, a volte non bastano nemmeno competenza e curiosità…
Una prospettiva che attraversa queste stratificazioni illumina la funzione pedagogica, che può eventualmente prevedere la produzione di appositi supporti, che si aggiungono alle tracce già elencate.
Una riflessione a parte merita la realizzazione di film e video di spettacoli teatrali, praticata fin dalla nascita del cinema. In alcuni casi può avere la funzione di riattivare la memoria di chi produce gli spettacoli: per esempio, le riprese di una sessione di prova, per aiutare gli attori a “fissare” una improvvisazione; o le riprese a telecamera fissa per consentire eventuali riallestimenti. Dal punto di vista dello spettatore, il filmato dello spettacolo si propone piuttosto come sostituto della memoria, come opera. La proliferazione di filmati amatoriali e la moltiplicazione dei canali di diffusione pone oggi problema di qualità, paternità, legittimità.
Tutto intorno al mondo del teatro s’irradia una memoria “esterna” che si sedimenta nei quadri, nelle opere letterarie, nelle canzoni, nei film.
Romanzi come L’educazione teatrale di Wilhelm Meister di Goethe o Fratelli d’Italia di Albero Arbasino o Pinkerton di Franco Cordelli illuminano nel profondo il senso del teatro in un preciso contesto storico e culturale. Reciprocamente, la consapevolezza dei meccanismi della drammaturgia può illuminare “il teatro nel romanzo” novecentesco, “in grado di interagire con la scena in forme di audacia traspositiva senza precedenti” (Claudio Meldolesi, Per una storia del teatro nel romanzo in Europa, in La letteratura in scena. Gadda e il teatro, a cura di Alba Andreini e Roberto Tessari, Bulzoni, Roma, 2001, pp. 12-13).
Già questa frettolosa panoramica suggerisce che le recenti trasformazioni della mediasfera abbiano cambiato e stiano cambiando nel profondo la memoria del teatro, arricchendo di nuove complessità e opportunità le tradizionali tematiche della conservazione, della catalogazione e della diffusione.
Le possibilità offerte dalla multimedialità (o meglio, dalla facilità ed economicità della sua produzione e dalla sua efficacia comunicativa) hanno enormemente ampliato le possibilità di documentazione e di promozione dell’evento teatrale. Cambiano radicalmente le finalità, le modalità e le priorità produttive, e di conseguenza la tipologia dei materiali conservati. L’aumento della produzione multimediale connessa al teatro segue probabilmente una dinamica più generale. In compenso, la labilità dei supporti elettronici apre un intero universo di problemi di conservazione.
Un secondo mutamento riguarda l’impatto delle tecnologie elettroniche, a cominciare dalla disponibilità di database sempre più potenti e facili da usare, tanto nella fase di schedatura/catalogazione che in quella di ricerca/consultazione. A questo salto evolutivo si accompagna la diffusione della rete, che apre nuove possibilità di integrazione di cataloghi e banche dai, sia tra di loro sia con i motori di ricerca.
Un’altra mutazione viene innestata dalla frequentazione dei social networks. Per cominciare, queste “drammaturgie dell’interazione” rendono orizzontale la comunicazione, perché tendono a dissolvere la barriera che separava l’emittente e il destinatario, l’attore e lo spettatore (e anche il giornalista/critico dai lettori, a cominciare dagli attori e dai registi che eventualmente stroncava): così le interazioni nelle in chat e nei social networks tendono ad azzerare le differenze, mettendo tutti gli interlocutori sullo stesso piano. In secondo luogo, la memoria tendenzialmente infinita dei social networks tende a creare un eterno presente, scolpito sui wall come le incisioni sulle lapidi. Questo doppio movimento rischia di contraddire (o perlomeno di attutire) la differenza originaria del teatro come arte della memoria.
Tornando a ragionare sul lungo periodo, i computer rappresentano la realizzazione di un sogno antico, quello dei “teatri della memoria” che fiorirono nel Rinascimento. A costruire il più celebre “theatro” mnemotecnico, fu Giulio Camillo Delminio. Viglio Zwichem, dopo aver fatto visita a Delminio a Padova, nel 1532, lo descrisse in una lettera a Erasmo:
“L’opera è in legno, segnata con molte immagini e gremita di ogni parte di piccole cassette; e vi sono diversi ordini e gradi. Egli ha assegnato il suo posto a ogni figura e a ogni singolo ornamento, e mi ha mostrato una tal quantità di carte che, sebbene io abbia sempre sentito che Cicerone è la più ricca fonte dell’eloquenza, difficilmente avrei pensato prima che un autore potesse contenere tanta roba o che dai suoi scritti si potessero mettere insieme tanti volumi. (…) Egli chiama questo suo teatro con molti nomi, dicendo ora che è una mente e un’anima artificiale, ora che è un’anima provvista di finestre. Pretende che tutte le cose che la mente umana può concepire e che non possono vedere con l’occhio corporeo, possono tuttavia, dopo essere state raccolte con attenta meditazione, essere espresse mediante certi simboli corporei in modo tale che l’osservatore può, all’istante, percepire con l’occhio tutto ciò che altrimenti è celato nelle profondità della mente umana. E appunto a causa di questa percezione corporea lo chiama un teatro.”
(cit. in Giulio Camillo Delminio, L’idea del theatro [1550], Severgnini, s.i.l., 1985, p. 8)
In questo senso il computer – a cominciare dalle “finestre” più frequentate, i motori – di ricerca
non è altro che un moderno teatro della memoria, che interagisce sia con il dispositivo teatrale che con le dinamiche della memoria. Il qui e ora planetario della rete sta modificando i nostri “a priori” spaziotemporali. Cambia inevitabilmente anche il rapporto di ciascuno di noi con la memoria individuale e collettiva, con l’intreccio dei saperi, con i fili delle esperienze. Il teatro, arte della memoria, e gli archivi che la custodiscono, sono parte di questa mutazione.
Sappiamo che la nostra memoria non è un magazzino, un repertorio statico da cui estrarre di volta in volta le informazioni necessarie. La nostra memoria è dinamica, e si riorganizza continuamente sulla base delle nostre esperienze e dei ricordi che accumuliamo quotidianamente. Quello che sta accadendo nel teatro e nelle sue modalità di produzione, comunicazione, ma anche nel modo in cui tiene traccia di sé, suggerisce una radicale riorganizzazione della sua memoria.
Tag: archivi teatrali (61), BanuGeorges (3), Claudio Meldolesi (15)
Scrivi un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.