Gente di Messina: siciliani?
La nuova drammaturgia siciliana da Øscena Festival al convegno La scena dell’oralità. Per una voce fuori luogo passando per Spiro Scimone e Saverio Tavano
Di recente tre eventi teatrali hanno coinvolto Messina: Øscena Festival, che ha portato il nuovo teatro siciliano in Sardegna; lo spettacolo Patres di Saverio Tavano e la conferenza teatral-universitaria organizzata da non strutturati su “oralità e scena”. Talvolta le distinzioni istituzionali, territoriali o geografiche non sono determinanti: sono più importanti progetti che sono frutto di curiosità, ascolto e collaborazione, più utili e necessari per l’economia del tempo, degli spazi e delle risorse.
Parte Prima – A Cagliari per una chiacchierata con Spiro Scimone
Il Teatro Stabile della Sardegna con Cada Die Teatro ha organizzato, dal 10 al 12 ottobre a Cagliari, la terza edizione di Øscena Festival, coinvolgendo Latitudini – rete siciliana di drammaturgia contemporanea, con il contributo della Regione Sicilia. L’edizione 2014 è stata dedicata ai “nuovi teatri dalla Sicilia”, dopo la prima che ha coinvolto la Lombardia, con il contributo della Fondazione Cariplo e la collaborazione di Être – network delle residenze teatrali lombarde. Per la prima edizione sono stati ospitati artisti che ritraggono un malessere integrato in stereotipi e luoghi di tradizione, metaforici e fisici, come la famiglia, l’isolamento e le storie di provincia. Sono state scelte sei tra le ventidue compagnie proposte: Sanpapié; Nudoecrudo Teatro; Compagnia Teatrale Dionisi; Teatro Inverso; Aia Taumastica e Animanera.
La seconda edizione di Øscena, che deve la sua definizione all’identificazione di coloro che vivono negli “anni Ø” ovvero chi appartiene a quella «generazione nata precaria, a cui è negato ogni scampolo di futuro, fra i 25 e i 40 anni», è stata dedicata alla Toscana. L’attenzione alla famiglia e all’eredità, in definitiva alla storia umana, alle vicende di vita e di morte è ciò che accomuna le cinque compagnie dell’edizione 2013: I Sacchi di Sabbia; Guascone Teatro; Gli Omini; IF Prana; Teatro Sotterraneo e Gog Magog.
Øscena festival vuole raccontare il nuovo teatro, attraverso una affinità territoriale, una comunanza nella poetica, ardua da determinare nel caso della Sicilia, dove è difficile trovare un filo rosso: i drammaturghi dell’isola esprimono sensibilità originali e tra loro poco assimilabili. Non sarà forse un caso che sia Latitudini nata nel 2011 proprio a Messina, la porta siciliana che dal continente spalanca ai gorghi del mostruoso e dell’ignoto mondo mediterraneo, più africano che europeo. Tante pertanto le realtà rappresentate da Øscena Sicilia: Luigi Lo Cascio e il generoso reading dai poeti siciliani contemporanei; il teatrino d’opera con Turi Marionetta di e con Savi Manna, della compagnia catanese Statale 114; la “prosa ballabile”, visuale e comico-grafica di Retablo con Turi Zinna; gli spietati Esiba Teatro, protagonisti di 248kg, siracusani che hanno lasciato l’isola e hanno come drammaturgo il poeta milanese Tommaso Di Dio; i palermitani Sutta Scupa con lo spettacolo di Giuseppe Massa Chi ha paura delle badanti? che ha conquistato il pubblico sardo; Babel Crew, collettivo di artisti che si esercita in varie discipline performative, a Cagliari con GiOtto, l’energico monologo di e con Giuseppe Provinzano, che assume i punti di vista dei protagonisti dei fatti accaduti a Genova nel 2001, seguendo la scansione degli eventi con partizione tragica.
Øscena festival è anche confronto e incontro tra realtà e identità, scambio di sapori e luoghi, che ospitano eccellenze territoriali, come il Teatro Massimo e il Teatro La Vetreria, incantevole spazio “liberato” e consegnato alla civiltà. Nell’edizione 2014 sono intervenuti agli incontri – oltre agli artisti citati – Mimma Gallina, operatrice culturale e consulente generale dello Stabile di Sardegna; Giancarlo Biffi, regista, attore e direttore artistico di Cada Die; Gigi Spedale, presidente di Latitudini; Dario Tomasello, docente e drammaturgo messinese e Spiro Scimone, attore e drammaturgo messinese, nell’anno in cui si festeggia il ventennale della compagnia Scimone e Sframeli (vedi a href=”https://www.ateatro.it/webzine/2014/07/22/compagnia-scimone-sframeli-1994-2014-per-una-cronologia-drammaturgica/” target=”_blank”>https://www.ateatro.it/webzine/2014/07/22/compagnia-scimone-sframeli-1994-2014-per-una-cronologia-drammaturgica/).
Che ci fai qui?
(Ride) Sono qui perché mi trovo in una rassegna importante, che costituisce un punto di partenza per cercare di far conoscere, di promuovere, la drammaturgia siciliana contemporanea. Però le distinzioni di genere a me non piacciono tanto, per cui direi piuttosto che si tratta di drammaturgia contemporanea italiana. Come d’altronde succede nel caso di molti autori siciliani, vengono rappresentati non solo in tutta Italia, ma anche all’estero. Quindi è una drammaturgia contemporanea in questa specifica situazione, in questo festival interessante per far conoscere i nuovi gruppi, ma deve essere solo un punto di partenza, come dicevo, perché poi bisogna cercare di dare continuità a tutto questo. Bisogna fare un lavoro di promozione per la drammaturgia italiana contemporanea ma anche per la formazione.E come si occupa di formazione Spiro Scimone?
La cosa più importante, non solo per Spiro Scimone, ma per tutti gli autori è scrivere dei testi, perché parlano più i testi delle parole negli incontri. Perché i testi divengono poi gli spettacoli e negli spettacoli faccio quello che ho sempre fatto da vent’anni, scrivere e interpretare insieme a Francesco Sframeli. È cercare di cominciare a trasmettere e a dare non degli insegnamenti, ma raccontare un po’ questa nostra avventura iniziata vent’anni fa e raccontare quello che è successo in questi vent’anni, perché può servire anche da stimolo ai più giovani.Il tuo rapporto con la Sicilia?
È sempre stata il punto di partenza e si legge da quello che ho scritto. Nelle prime interviste raccontavo che ho deciso di scrivere in messinese perché è la lingua della mia infanzia, rappresenta le mie radici, il legame forte con la mia terra. Ma poi tutto questo sboccia in qualcos’altro: bisogna andare oltre, quindi c’è un legame a volte conflittuale – il conflitto fa anche parte del teatro – una forte attrazione, ma anche scoprire e vedere come viviamo in una terra fantastica. Il conflitto nasce dalla consapevolezza che non si fa abbastanza per cercare di valorizzarla e in questo caso mi riferisco all’ambito culturale.La tua esperienza fuori dall’isola è stata necessaria? Bisognava andare via?
Con Francesco siamo andati via, ci siamo staccati tanti anni fa dalla nostra terra per andare fuori, sempre in Italia, ma per diverso tempo, per circa vent’anni non abbiamo vissuto in Sicilia. Ma i nostri spettacoli li abbiamo sempre realizzati e provati in Sicilia, pur vivendo in un’altra città.Per la formazione per esempio cosa manca in Sicilia? Cosa non viene quindi offerto ai giovani che intendono cambiare la realtà attraverso il linguaggio del teatro?
Cosa manca in Sicilia dal punto di vista culturale? Direi che ci manca un progetto culturale “italiano”. L’Italia è un po’ indietro rispetto ad altri Stati, ma non è indietro per mancanza di artisti; che ci sono e che non hanno nulla da invidiare agli artisti di altri Stati. Manca perché non c’è da tempo, non negli ultimi cinque o sette anni o da quando c’è la crisi ma da ancora prima, perché non si è mai fatto un progetto culturale serio. In particolare mi riferisco al teatro, l’ambito che conosco meglio. Quindi si potrebbe fare di più perché vi è del potenziale. Non è soltanto un problema siciliano, anche se al Sud è più presente che altrove.Conosci il teatro sardo e la Sardegna? Trovi che ci siano delle somiglianze tra teatro sardo e teatro siciliano o piuttosto che la poetica di un autore debba essere indipendente dall’origine geografica?
Certe distinzioni come “il teatro sardo”, “il teatro siciliano”, “il teatro napoletano” non hanno motivo d’esistere: il teatro è “il teatro”. E quando è “Teatro” con la T maiuscola, ti ritrovi nelle differenze, che ci sono e ci devono essere perché il teatro che fa la differenza è fatto di diversità. Anzi il mettere insieme le differenze esistenti è un momento di crescita per l’artista che si nutre di altro. Il teatro è bello perché la parola “altri” esiste in teatro, puoi conoscere “altre” cose, interagire con “altre” culture e con “altre” persone. Quindi quando si fa “Teatro” ci sono sicuramente dei punti in comune, perché viene fatto utilizzando il linguaggio teatrale che è universale. Non conosco bene il teatro sardo ma, coerentemente con quanto dicevo prima, i talenti interessanti ci sono dappertutto e a volte sono talenti che non si riescono a vedere perché non hanno sufficiente visibilità. Quindi dobbiamo lavorare a questo, cercare di dare spazio agli altri, come dico nel mio ultimo lavoro Giù: «dobbiamo dare spazio agli altri». Quando occupiamo uno spazio sarebbe opportuno cercare di “dare spazio” anche ad altri, perché possano dimostrare le loro capacità (A tal proposito si rievoca la scenografia di Giù in cui campeggia un enorme cesso entro cui agiscono i personaggi, per ricordare “Occupy W.C.”, installazione-mostra realizzata da Marcello Simeone, a cura di Simona Campus, nelle toilettes dei due teatri sardi che hanno ospitano il festival Øscena Sicilia).Realtà come Latitudini o Øscena Festival in che modo possono agire nella realtà italiana così poco vicina agli artisti, se credi sia possibile un cambiamento attraverso tali azioni civili?
Quando nascono queste realtà tutto questo è positivo, naturalmente bisogna anche cercare di farlo vivere nel migliore dei modi. Penso che quando si faccia arte, non solo nella fase creativa ma anche in quella organizzativa bisogna pensare, non subito ai numeri, ma alla qualità di un progetto. Perché la qualità di un progetto sicuramente porterà poi anche una quantità, ma sarà una quantità qualitativa.Ti capiterà di ricevere da qualche giovane attore la richiesta di qualche consiglio sulla carriera attoriale: cosa rispondi?
Cercate di fare tutto ciò che fate, in questo caso nel teatro, con necessità; un po’ come l’abbiamo fatto io e Francesco.
Parte seconda – Passeggiata a mare con Saverio Tavano e i ciechi che vedono ciechi che, pur vedendo, non vedono
Capita di ritrovarsi in una fresca sera d’estate, che quasi pare primavera sebbene ci si trovi in autunno, dal momento che l’estate – si sa – in Sicilia quest’anno è giunta solo in ottobre.
In un localino all’aperto si condividono esperienze e racconti di vita. Con qualcuno che non vedi da tempo ti lasci contagiare dallo scambio di relazioni e opinioni. Si torna dunque a una terra che qualche volta ripudia i suoi figli e che, qualche altra volta, semplicemente ignora passioni e carismi, per accogliere logore cerimonie di autoreferenziali provincialismi asfittici e sterili, che puntano sempre ai soliti noti ̶ a discapito dei pochi artisti di valore, che trovano altrove meritocrazia e non solo nomine che scavalchino civili bandi o concorsi.
Saverio Tavano, drammaturgo, dunque artista, è poco più che trentenne. L’attore e regista calabro-messinese ben si presta a intraprendere una passeggiata notturna, costeggiando un porto impossibile da raggiungere – a causa di transenne invalicabili – per potere scrutare da vicino il mare dello Stretto. E così cercando di respirare l’acqua salmastra, si scopre di essere parte di una popolazione affetta dal morbo di Saramago, quello dei «ciechi che vedono ciechi che, pur vedendo, non vedono». Niente di strano che si rifletta di Cecità incontrandosi per parlare di Patres, spettacolo scritto e diretto da Tavano, con Dario Natale nei panni di un padre e Gianluca Vetromilo nei panni di un figlio cieco e orfano di madre. Lo spettacolo ha ricevuto un riconoscimento al ventennale del M.E.I durante la giornata per la Cultura contro le Mafie a Faenza lo scorso settembre; è vincitore del secondo premio al Festival Teatrale di Resistenza di Gattatico 2014; si è aggiudicato il premio come miglior spettacolo alla quarta edizione del Festival Inventaria del Teatro dell’Orologio di Roma. Ha visto il debutto della versione definitiva al Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Averlo visto lo scorso 8 febbraio al Teatro dei Naviganti di Messina e riparlarne con il drammaturgo svariati mesi dopo, è un viaggio a ritroso nel tempo, lungo tragitti di memoria con i due protagonisti di Patres, per rivivere un’odissea di attese e scoperte su eredità linguistiche, affetti e ingiustizie, metamorfosi iniziatiche e tenerezze consumate su funamboliche bambole gonfiabili e vertiginosi cani-Argo lametini.
“L’arte è una vocazione come la santità”, racconta Tavano, ” il tentativo di cambiare il mondo. Brecht con il suo teatro etico ha arricchito uno stato di consapevolezza sociale, d’altro canto il teatro è un processo di conoscenza del mondo. È catartico per chi lo fa e per chi lo guarda, quindi per l’intera società. Attraverso il potere icastico della scena il teatro diviene un mezzo per la ricerca e l’uso della parola, l’uso della tragicità e dell’allegoria, in contesti linguistici come quello siciliano in particolare».
Tavano è tra gli autori che hanno aderito al Centro per la drammaturgia siciliana di Teatro Pubblico Incanto, capitanato da Tino Caspanello, in partenariato con la Maison d’Europe et d’Orient di Parigi, la Maison Antoine Vitez di Parigi e il Troisième Bureau di Grenoble. Il Calapranzi di «padre Pinter», i Sei personaggi di Pirandello, la pedagogia di Vassil’ev, l’analisi bioenergetica e il teatro danza continuano a essere i maggiori ispiratori del lavoro di Tavano: «portatori di un’etica che mostra come la scrittura consista per l’artista nel dovere di una coerenza del darsi-consegnarsi allo spettatore».
Questa la riflessione che Saverio Tavano ha voluto consegnare ai lettori di Ateatro.
L’arte è una vocazione, è il tentativo di sollevare gli animi creando un punto di domanda, senza mai dare risposta, perché la risposta appartiene intimamente a noi; non è un processo di rivoluzione di massa, ma di rivoluzione nel singolo uomo. Come in tutte le vocazioni si va incontro a delle rinunce, evitando i compromessi, sopratutto quelli artistici. Ho vissuto con grande entusiasmo anche i momenti in cui facevo spettacolo per un solo e unico spettatore, è successo, ed ho vissuto la stessa intensa emozione che ho avuto nel vedere il teatro pieno, lo spettatore non è un numero, lo spettatore è un Uomo. Credo che questo valga in tutti i lavori, non solo nell’arte; ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita, egli deve farne di questa vita, un’opera d’arte, un capolavoro. Ma per ottenere questo, credo occorra in primis non tradirsi, per ricercare se stessi nella contingenza, saper osservare senza gli occhi dell’osservatore, per non cadere nella trappola del giudizio, per non perdere l’entusiasmo e la meraviglia della scoperta, come bambini.
Essere necessario al più presto, in questo momento in cui tutto è sempre più difficile, occorre immediatamente semplicità. Lo sento dal momento in cui mi sveglio e apro gli occhi, lo sento quando guardo le facce della gente, nel silenzio dei tram, nei lunghi corridoi dei centri commerciali. Nei loro sguardi persi nel vuoto è come se ognuno senza saperlo chiedesse a se stesso: “cosa ci sta accadendo?” Il lavoro dell’attore, del regista e di tutti gli addetti deve puntare verso un senso di responsabilità sociale. È in atto una guerra invisibile, tra il singolo uomo, sorretta da un imperioso dilagare del narcisismo, che ci chiude in un’inutile autoreferenzialità, e il teatro che ha il grande compito e la capacità di smantellare questa maschera dell’Io, per ridare all’uomo il vero volto della consapevolezza, anche se spesso questo nostro teatro alimenta e si nutre proprio di questa inutile autoreferenzialità, di questo inutile narcisismo!
L’idea di Patres è nata dall’intento di parlare del rapporto tra padri e figli, intendendo la figura genitoriale come un riferimento ad ampio raggio. Questo è il tempo dell’assenza del padre, una figura che ha sempre avuto l’atavico compito di trasmettere la conoscenza. Non esistono più padri politici, padri spirituali, padri maestri; latitano o sono divenuti compagni di gioco dei loro figli.
Figli che tentano di colmare questa mancanza in una condizione di attesa, di sospensione, di impasse, ereditano il niente, ma noi non proveniamo dal niente, occorre quindi recuperare il nostro scarto col passato. Goethe affermava che “se vuoi possedere quello che i padri ti hanno dato, se vuoi possederne l’eredità devi riconquistarla” e il termine erede è radicato etimologicamente nella parola orfano e l’eredità sta in un movimento di riconquista, il vero erede è un orfano a cui nessuno garantirà nulla.
Un giovane Telemaco di Calabria attende da anni il ritorno di suo padre, paralizzato dall’attesa, davanti all’orizzonte che può solo immaginare dal buio della sua cecità, attende su una spiaggia che guarda al Tirreno. Mette le mani avanti per vedere l’orizzonte, si rivolge verso il mare, aspettando che questo padre ritorni. Ma questi Patres si sono smarriti in mare, lo stesso in cui ogni giorno si perdono i figli, sono naufragati da una nave che loro stessi hanno affondato, una “nave a perdere”, abbandonata sul fondo con tutto il suo carico. Una storia percorre in linea trasversale lo spettacolo, una delle storie che il figlio ama ascoltare, perché solo attraverso le storie la cecità svanisce. Ma la storia che l’uomo racconta, è quella personale, del suo legame con la ‘Ndrangheta, in una vicenda che rimane tutt’oggi misteriosa, che riguarda le navi dei veleni, navi cariche di rifiuti tossici e nucleari, scarti industriali, fatte affondare a largo del Mediterraneo. Sono ben 30 le navi in questione, ma la Jolly Rosso, la nave del nostro Patres, non affonda, si arena sulla spiaggia di Amantea, disseminando morte e i cui effetti continuano a violentare una terra, lasciando solo cicatrici nelle vite e nel territorio della gente calabrese, abbandonata anch’essa da un’istituzione che come padre dovrebbe protegge, tutelare, ma che non lo fa mai fino in fondo.
Garcia Lorca affermava che il teatro costituisce il barometro che misura la grandezza o il declino di un paese, e penso che questo nostro declino sia anche strettamente connesso alla drastica incuranza che è stata data alla cultura negli ultimi anni, cultura è conoscenza del passato, e senza tale conoscenza il futuro è vuoto. Per questo è indispensabile non aspettare la “manna dal cielo”, ma avere il coraggio di creare, riconquistandoci un’eredità sgangherata, e da questa sviluppare la possibilità di ricreare . …Anzi credo che questa crisi possa mettere in luce un’esigenza vera, autentica in chi si occupa d’arte, come una selezione darwiniana.
Parte terza – Per una voce fuori luogo
È la drammaturgia delle fonti orali e la sua caratterizzazione regionale – e pertanto linguistica e corporea – ad avere ispirato la maggior parte degli interventi confluiti nella seconda edizione della Graduate Conference dal titolo “La scena dell’oralità. Per una voce fuori luogo”. La parola teatrale diviene canto e quindi corpo. La prima edizione della Conference si è svolta a “L’Orientale” di Napoli, il 3 e 4 ottobre 2013, nel suggestivo Palazzo Du Mesnil. Il progetto scientifico di Angela Albanese e Maria Arpaia è teso a coinvolgere su una riflessione letteraria e teatrologica gli studi di ricercatori non strutturati, coinvolti nel comitato scientifico; unitamente a ciò, tra i keynote speakers, oltre a studiosi e docenti di prestigio, troviamo anche artisti della scena contemporanea. Lo scorso anno Gabriele Vacis, drammaturgo e regista, intervenuto nella sessione dedicata alla “teatralizzazione di vicende storiche attraverso la loro narrazione orale”, ha raccontato il progetto piemontese “Cerchiamo bellezza”, rivolto alla valorizzazione dello spirito estetico nei giovani.
Nell’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi Culturali, a Messina ha avuto inizio il 17 ottobre il secondo appuntamento della Conference dedicata all’oralità, conclusasi il giorno seguente. Per supportare l’iniziativa, priva di contributi finanziari, sono intervenuti e hanno dato in vario modo il loro sostegno studiosi che hanno raggiunto dall’Italia e dall’estero la Sicilia, artisti e istituzioni. Ad aderire per prima è stata l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, con il coinvolgimento di Filippa Ilardo, critico e operatrice teatrale, nella enoteca libreria Colapesce. Il luogo, che prende il nome da un eroe messinese dall’origine mitologica, è stato scelto perché rappresenta con uno dei suoi proprietari, Filippo Nicosia, scrittore e artefice dell’iniziativa itinerante “Pianissimo. Libri sulla strada”, un raro esempio di audace investimento nella città di Messina, dopo decenni di certezze in altre ben più solide coordinate di politica culturale. A partecipare alla presentazione dei due volumi editi da Mattia Visani per Cue Press (Totò e Vicè di Franco Scaldati, di cui Ilardo ha curato la riedizione digitale e La trilogia della Sicilia di Stefano Randisi ed Enzo Vetrano) sono stati il drammaturgo, attore, regista e scenografo Tino Caspanello, Gigi Spedale, presidente di Latitudini – tra i partner dell’evento ̶ , il docente e drammaturgo Dario Tomasello, che ha dato l’avvio al convegno con un intervento sui risvolti etologici dell’oralità; l’attore e regista Antonio Lo Presti.
L’immagine, dal titolo Accidia, scelta per rappresentare l’iniziativa e illustrare la locandina dell’evento, è stata donata dall’artista Antonio Maria Gregorio Nuccio. Maurizio Puglisi, presidente dell’Ente Teatro di Messina, ha ospitato la seconda giornata dei lavori nella Sala Sinopoli del Teatro Vittorio Emanuele. L’evento è stato patrocinato dall’Università di Messina, da ERSU Messina e da UniversiTeatrali, Centro Internazionale di Studi sulle Arti Performative.
I keynote speakers della seconda edizione della conferenza: Piermario Vescovo, docente di letteratura teatrale all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, che ha prodotto una riflessione che dall’istrione platonico raggiunge i concetti contemporanei di narrazione e imitazione; l’attore e drammaturgo Spiro Scimone, che ha inaugurato la seconda sessione dei lavori esprimendo il suo consenso per un teatro che sia “della vita”; l’artista Vincenzo Pirrotta, che ha narrato la sua esperienza di performer dell’oralità con generosi esempi attoriali e registici.
Brani da Napucalisse e A’ sciaveca di Mimmo Borrelli sono stati letti da Toni Servillo, in un reading dedicato a Napoli e ai suoi autori: oltre al già citato Borrelli, anche a Salvatore Di Giacomo, Eduardo De Filippo, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani ed Enzo Moscato. Il reading in programmazione al Vittorio Emanuele nei giorni della Conference ha rappresentato la perfetta sintesi attoriale sulla scena di quanto era stato dibattuto nelle due giornate di studio. La poesia a teatro, incarnata dal corpo di Servillo, per contagiare i sensi del pubblico, ha realizzato una concreta possibilità di performance “fuori luogo”, in una Commedia partenopea accolta nel gorgo di un ventre siciliano.
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