Una danza nomade e inerme contro ogni guerra. Il nuovo spettacolo di Michela Lucenti
In-erme di Balletto Civile
Incarnando sul terreno etico-coreutico la teoria della muta di Gilles Deleuze, Balletto Civile percorre nomadicamente la scena contemporanea riunendo in forme e luoghi sempre diversi le emergenze in divenire di una ricerca laboratoriale condotta con rigore e senso politico della danza. Tanto la compagnia quanto i suoi spettacoli si organizzano di volta in volta in strutture provvisorie che assumono significato per interazioni orizzontali, non gerarchiche, rizomatiche per stare ai concetti deleuziani. Ne risultano spesso opere letteralmente scentrate, in cui gli apporti generosi dei danzatori, e anzitutto di Michela Lucenti, più che inseguire una definizione narrativa dello spazio scenico, ne esplorano le possibilità reattive all’interno di un’esperienza del corpo e della mente che accolga l’imprevisto nella relazione, dunque la vita stessa nella partitura coreografica.
La creazione più recente del gruppo, In-erme, che ha debuttato a Rovereto nell’ambito del festival Oriente Occidente, ripropone il composito procedere per accumulo contrastivo di azioni e sviluppo a raggera di indici drammaturgici, spingendo la sovrabbondanza di segni fino al limite dell’inafferrabilità. E forse è proprio questo sconcerto che lo spettacolo vuole attivare in prima istanza negli spettatori, lo scuotimento da quella anestesia sociale che condanna a sentirsi «inermi, inetti, inutili» se si guarda alle tragedie passate e presenti del mondo dal «rassicurante divano» di casa.
Il “corpo a corpo” che la trentaquattresima edizione del festival poneva al centro della riflessione danzante nel centenario della Grande guerra è stato così tradotto in una interrogazione – a tratti ironica, a tratti dura, spesso spiazzante, talvolta didascalica – non tanto su conflitti e ingiustizie, quanto «sul cosa significhi “andarci dentro”», dare corpo e voce a vite destinate all’oblio, far sentire «un nervo, un fuoco ancora acceso». La Storia (le due guerre mondiali, i canti dei soldati, la voce di Badoglio che annuncia l’armistizio) si confonde con il presente (il Medio Oriente in fiamme, il lamento della madre di un kamikaze costruito come un’annunciazione negata), intrecciandosi per straniamenti successivi con i forti testi che l’autore Alessandro Berti, già con Lucenti nel gruppo L’impasto, scandisce al microfono seduto tra il pubblico. Un sipario bianco si chiude di tanto in tanto a separare brandelli di immaginario cinematografico, proiezioni mentali che prendono corpo in scene provocatorie e surreali.
Che cosa tiene insieme questa scorreria danzata nella rappresentazione del conflitto? L’ultimo intervento dei Cantori da Verméi – sei potenti voci maschili che cantano a cappella inserendosi con brani liturgici e popolari nell’ambiente sonoro elaborato dal vivo da Julia Kent al violoncello – fornisce una chiave di lettura fin troppo esplicita. È il canto Sono un povero disertore (motivo ottocentesco antiasburgico e antimilitarista di area veneta) che induce a ripercorrere la Storia (e lo spettacolo) nel segno del rifiuto di ogni guerra, mentre tutti i danzatori vorticano in scena ruotando i pesanti pastrani militari, laceri dervisci grigioverdi, militi ignoti di tutti i tempi.
Ma lo spettacolo – prima tappa di un ciclo che nei prossimi anni porterà Lucenti a orchestrare grandi masse di attori, danzatori, musicisti e cantanti tra Italia e Germania, all’insegna di quel teatro totale che il gruppo da anni sperimenta – è un susseguirsi di frammenti che disorientano e interrogano, che cercano di «dire quelle vite». Su tutti, la straordinaria invenzione di una danza a terra che Michela Lucenti sviluppa trascinandosi sulle mani, le gambe spezzate, la schiena inarcata, allungandosi invano verso i due microfoni ad asta ai lati della scena, cercando di mettersi in piedi in un ritmico scomporsi degli arti, tra spaccate, torsioni, veloci inversioni, tronche spirali. E quando riuscirà a prendere la parola, sarà un urlo a squarciare la scena.
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