Festival2014_6 Il teatro della città
Teatro partecipato: Atlas a Milano e Le parole e la città a San Lazzaro
A Danae Festival, in aprile, al Teatro La Cucina di Olinda a Milano, è approdato Atlas, progetto di spettacolo partecipato dei portoghesi Ana Boralho e João Galante. Il punto di partenza è una nota filastrocca: “Se un elefante disturba molte persone, due elefanti disturbano molto di più…”. I due artisti raccolgono circa cento persone “comuni”, che – opportunamente formate attraverso un laboratorio – una dopo l’altra entrano in scena, avanzano verso il pubblico e si presentano in proscenio sostituendo alla parola “elefante” la loro professione (“Se dieci aspiranti critici teatrali disturbano mote persone, undici aspiranti critici teatrali disturbano molto di più”), magari con una breve annotazione personale. Non sono professionisti dello spettacolo, sono persone comuni, come Bottom e i suoi compagni di scena nel Sogno di una notte di mezza estate.
Il gruppo via via più numeroso degli attori che invade la scena accompagna ogni nuovo entrato retrocedendo e poi avanzando verso il pubblico (una figura coreografica spesso utilizzata dopo Pina Bausch). Ma le piccole variazioni gestuali o le sottolineature ironiche (e autoironiche), i giochi imitativi, non bastano a ravvivare un meccanismo elementare, ripetitivo.
Restano però l’impatto visivo, il gesto politico della formazione di un Coro.
Ma nel giudicare esperienze di questo genere, non è sufficiente valutare il risultato finale in termini puramente spettacolari: parte dell’interesse sta anche nel processo di lavoro e nelle modalità di coinvolgimento di non professionisti in una attività creativa.
Un meccanismo in qualche modo analogo (anche nella dialettica tra l’individuo e una comunità più o meno effimera), ma reso più complesso sia nella fase progettuale sia in quella spettacolare, ha portato alla costruzione di Le Parole e la Città (vai al sito del progetto), lo spettacolo con cui il Teatro dell’Argine celebra i suoi vent’anni.
Il lavoro sembra la confutazione della celebre frase di Margaret Thatcher: “La vera società non esiste: Ci sono uomini e donne, e le famiglie”. Nel “teatro sociologico” di Andrea Paolucci (che ha coordinato il progetto) c’è invece solo la società. A rappresentarsi sono circa una trentina realtà dell’area urbana bolognese. Associazioni, gruppi, compagnie teatrali che operano sul territorio negli ambiti più vari: professioni, assistenza, impegno civico, campagne di sensibilizzazione, lotte sindacali, musei…
Il processo di lavoro, dopo la fase progettuale, è partito da una fase di ascolto e sollecitazione all’interno del tessuto sociale. Ciascuna delle cento realtà contattate negli incontri preparatori ha stilato il suo Abbecedario della città, con le parole (o le frasi) che ne condensano attività, impegno, obiettivi. Questa è la prima forma di autorappresentazione, la base per una microteatralizzazione di ciascun gruppo. Sul campo da calcio del Parco della Resistenza, a San Lazzaro, la cittadina bolognese dove ha sede il gruppo, una ventina di pedane di legno quadrate, 4 metri di lato: lì sopra una trentina di realtà si mettono letteralmente in scena, in brevi “atti senza parole”.
Sono schegge rubate alla quotidianità (le quattro amiche immigrate che preparano e offrono il tè, il barbone che dorme in Piazza Maggiore tra i cartoni, la ragazza che legge in biblioteca); rappresentazioni realistiche o simboliche delle loro attività (la partita di calcetto, di cricket o di calcio balilla, la donna che danza scalza su un mare di barchette di carta o i migranti su una zattera di tubi); microscene teatrali (rubate magari al Piccolo Principe o al Don Chisciotte). Gli attori (solisti, a coppie o in piccoli gruppi) non prendono mai la parola, non hanno dialoghi da recitare. Tendenzialmente cancellati come soggetti individuali, salgono in scena solo come rappresentanti del loro gruppo di appartenenza. Ma a ciascuna pedana è associato un brano audio, che si attiva nelle cuffie dello spettatore non appena si avvicina: un racconto, una lettera, un testo poeticamente evocativo, una denuncia, la scheda del progetto, in dialettica con quello che viene agito (la separazione tra ciò che si vede in scena o nello spazio urgano e ciò che si ascolta in cuffia è un meccanismo utilizzato da numerosi meccanismi teatrali).
Quello costruito in Le parole e la città (vai al sito del progetto) è un affresco composito, una “mappa della società” che accantona i singoli e le famiglie cari alla Lady di Ferro (e per certi aspetti anche la loro “normalità”) per privilegiare le zone di difficoltà, di conflitto, di dialettica e scambio (e dunque con un’evidente valenza politica). Anche in questo caso, dal punto di vista puramente spettacolare, i singoli micro-spettacoli risultano in genere elementari: semplice esposizione di sé (anche se a tratti l’irruzione del quotidiano può assumere forza poetica), o creazione di simbologie immediatamente decodificabili. La presenza, ogni sera, di una star del teatro o della musica rischia di limitarsi a richiamo per il pubblico. Allo stesso modo, la videoinstallazione che accompagna la serata (diverse decine di intellettuali scelgono cinque “parole chiave” sul tema della città e del suo futuro e le commentano) ha un rapporto solo tematico con lo spettacolo, senza dialogare con esso. Tuttavia la presentazione pubblica non segna necessariamente la conclusione di un progetto così articolato e complesso, che ha investito un’intera città in una esperienza di public art, coinvolgendo centinaia di persone, in un processo che può innescare processi avere ricadute imprevedibili.
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