Festival2014_5 Intermezzo musicale: Art or Sound
La mostra alla Fondazione Prada, Ca' Corner, Venezia
Mentre si sale la scalinata di Ca’ Corner, arriva dall’alto il ritmo balordo di un piccolo tamburo.
A suonarlo – seduto in alto, in equilibrio precario su un cornicione, con le gambe penzoloni – è il pupazzo di un bambino, o forse un nano come l’Oskar Matzerah del Tamburo di latta, creato da Maurizio Cattelan (Senza titolo, 2003).
Quando si entra nella grande sala al primo piano, è come avventurarsi nel negozio dove di notte si animano i giocattoli del Soldatino di piombo oppure, se si preferisce la variante moderna, di Una notte al museo.
In una gabbia dorata, canta un uccellino: un automa costruito nel 1780 dallo svizzero Pierre Jaquet-Droz, miracolo di meccanica e di acustica: quando si recò alla corte di Spagna, fu costretto a mostrare al Grande Inquisitore i “segreti” della sua creatura, per evitare accuse di stregonerie.
Lì accanto, l’imponente struttura di un organo di Barberia, con le sue decorazioni dorate, costruito alla fine dell’Ottocento a Berlino dalla famiglia Bacigalupo, con il suo suono meccanico e insieme toccante.
Arriva un suono morbido e cupo. E’ un organo che produce letteralmente note di fuoco: quando si pigia un tasto, all’interno della corrispondente canna di vetro si accende una fiamma: la canna s’illumina ed emette una nota. A inventarlo e costruirlo, negli anni Settanta dell’Ottocento, fu Georges Frédéric Kastner, fisico, chimico e naturalmente musicista.
Art or Sound, la mostra della Fondazione Prada, curata da Germano Celant e allestita a Venezia a Ca’ Corner della Regina, travolge per il fascino di un inanimato che pare prendere vita di fronte ai nostri occhi, per la varietà e la complessità dei suoni che fanno vibrare l’aria. Non mancano alcune invenzioni che risalgono alle prime avanguardie storiche, come l’Intonarumori del futurista Russolo.
Lo stupore di fronte alla magia dei meccanismi, ai tentativi di allargare l’orizzonte dei suoni possibili, magari alla ricerca del suono perfetto, s’intreccia, man mano che il percorso cronologico s’avvicina al presente, con due spinte apparentemente inconciliabili. Da un lato una tensione utopica, che usa le nuove sonorità per migliorare il mondo – o perlomeno l’ascoltatore, che può addirittura venire attraversato dalle vibrazioni sonore, come nella Ton-Liege (1975), la “sedia sonora” di Berhmard Leitner, o la Crossfading Suitcase di Louis Gréaud (2004), che trasmette alle due orecchie dell’ascoltatore suoni di frequenze diverse, spingendolo a sincronizzare l’attività dei due emisferi cerebrali in base a questo stimolo. Un’altra rivelatrice esperienza sensoriale la offre in una delle più straordinarie opere d’arte degli ultimi decenni, Handphone Table di Laurie Anderson (1978).
Di fronte a me, una sedia e un tavolo di legno, consunto e levigato dal tempo. Due incavi vicino al bordo del tavolo, a una ventina di centimetri di distanza.
Mi siedo, sistemo i gomiti negli incavi sul piano del tavolo, mi chino leggermente in avanti, appoggio le palme delle mani sulle orecchie.
Una rivelazione.
Un suono che non potevo udire si trasmette dal tavolo alla mia mente, attraversando il mio corpo. Sono fuori e dentro. Sono corpo e materia. Sono soggetto e oggetto. Sono al tempo stesso l’attore, lo spettatore, la scena.
L’altra tendenza che si è evidenziata nell’ultimo secolo, sulla scia di Dada e Duchamp, è l’approccio ironico e giocoso, a volte con una punta di provocazione, come la divertente The Spirit of Yamaha di Arman (1977), un gran piano (Yamaha) penetrato da due moto (Yamaha).
Il meccanismo giocoso può attivare la partecipazione dei visitatori, come nell’opera di Ay-O (Takao Iijima), Ay-O and Joe’s Soundbox (1979), una grande “finger box”, ovvero una scatola di legno dove è possibile infilare la mani o le dita, producendo suoni diversi a seconda dei fori in cui sono nascoste fonti sonore meccaniche o elettriche. La scultura può essere suonata da più persone contemporaneamente (un passaggio dall’interazione alla partecipazione), producendo inedite composizioni.
Questi due aspetti – la spinta utopica e il gioco ironico – trovano una sintesi beffarda in A Jukebox of People Trying to Change the World (2003), dove Ruth Ewan ha raccolto un archivio con oltre 2200 canzoni che trattano questioni politico-sociali, ordinate in oltre 70 categorie (tra cui femminismo, povertà, diritti civili, ecologia…).
Al tamburino di Cattelan rispondono due installazioni-sculture costruite sull’assenza del performer: A solo in the Doldrums (Based on an Unseen Dance by Sioban Davies) di Anri Sala, rullante le cui bacchette vengono azionate da suoni in bassa frequenza non udibili all’orecchio umano (colonna sonora di una danza invisibile); e due opere di Rebecca Horn, Concert for the Path of Bees (1999) e Sighs of the Wind, un violoncello e un violino che paiono suonare da soli, variazioni sul tema del perfomer assente, sostituito dalla partecipazione del pubblico.
Tag: Festival2014 (8), Il teatro è un dispositivo (28), musicaeteatro (5)
Scrivi un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.