Festival2014_3 Il teatro, un attrezzo per parlare con i morti
Gli allegri zombi di Luca Ronconi, Robert Wilson e Timpano-Frosini
Il teatro mette da sempre in luce la frizione tra reale e immaginario: anche da lì ricava la sua energia.
Questa scintilla scocca in maniera esemplare nel Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare. La civile Atene su cui regna Teseo si contrappone al bosco incantato (e allucinogeno) dove impazzano Oberon e Titania. Il regno della legge e della razionalità confina con quello del desiderio e della fantasia fiabesca. In parallelo, nel subplot, a illuminare e irridere questa contrapposizione, entra in gioco il dispositivo del teatro, attraverso la velleitaria e ridicola messinscena della “lacrimosissima” vicenda di Piramo e Tisbe allestita da Bottom e dagli altri artigiani. Al Festival dei Due Mondi di Spoleto, il Sogno è approdato a Spoleto nella messinscena di Tim Robbins, vagamente anni Settanta, nella sua essenzialità e semplicità, negli stracci colorati, nel vitalistico slancio degli attori.
Il teatro può servire anche a evocare l’immaginario (e l’altro) più potente e perturbante, ritornando a una della sua radici più profonde, avvicinandosi inevitabilmente alla sfera del sacro e del trascendente. Ma anche in questo caso, in maniera in qualche modo ironica e quasi beffarda.
Per certi aspetti, gli ultimi spettacoli di Luca Ronconi costituiscono una tetralogia del desiderio e della morte. Recuperano uno dei suoi grandi temi, ovvero il rapporto tra il reale e l’immaginario, tra la vita e il sogno (per citare il capolavoro di Calderón che lo ha ossessionato per tutta la sua carriera), per farlo slittare e quasi reinventarlo in una nuova chiave. In questi spettacoli, è come se il confine tra la vita e il sogno fosse stato sostituito da quello tra la vita e la morte. Il teatro – con la sua sgangherata magia – può rendere permeabile quel limite. (Questa non è peraltro una novità nella drammaturgia di Ronconi: basti pensare alle seduta spiritica con cui culminava Ignorabimus).
Nel Panico uno dei personaggi è addirittura un morto che non sa di esser morto, e dunque vagava tra i vivi con effetti a volte disturbanti a volte comici. Pornografia ruotava intorno alla interminabile amplesso agonico della protagonista, beghina per un istante infoiata. La Celestina – forse il più spietato ritratto della fine del desiderio nell’epoca del bunga-bunga, e anche per questo irritante per molti spettatori – si apre con una scena di morte per narrare in flashback il romanzo di un’inutile seduzione: lo spettacolo gioca magistralmente sul cadere dall’alto per schiantarsi al suolo delle vittime, e sull’apparizione dal sottosuolo delle donne di malaffare, la Celestina e le sue puttane. La scena, con il pavimento tappezzato di porte che aprono al sottosuolo, è un diaframma verso l’inferno.
In questi spettacoli s’intrecciano, in variegate combinazioni e perversioni, la pulsione sessuale e la pulsione di morte. Ronconi esplora questo intrico con lo strumento ironico e disperato del teatro, dissezionandolo con maniacale precisione: al centro, c’è un desiderio che non conosce l’amore e dunque non si riconosce più: si accende solo per un attimo e poi si brucia subito nel cinismo dei rapporti di potere (ovvero del denaro).
La scena di Marco Rossi per Danza macabra è una camera mortuaria, rubata all’immaginario luttuoso e perverso di Félicien Rops e Eduard Klinger (o forse di Edward Gorey), su cui troneggia il nero letto coniugale, vero e proprio catafalco.
I personaggi di Strindberg sembrano usciti da uno spin off della Famiglia Addams, senza naturalmente l’ironia di Morticia e Gomez: infatti i due protagonisti si rivelano vampiri, che all’improvviso si scambiano i regolamentari avidi morsi sul collo… Lo spettacolo vive del contrasto tra due modalità recitative opposte: il minuzioso autocontrollo, l’attenzione ai dettagli di una Adriana Asti irrigidita nella parte di Alice in un agghiacciato minuetto, e la sguaiataggine laida di Giorgio Ferrara, la divisa nera e gli stivaloni da gerarca, e insieme sbracato, quasi a denudarsi in una recitazione sempre sopra le righe, sul limite della perdita di controllo.
Se Ronconi pare citare la voga dei vampiri che qualche tempo fa ha scalato tutte le classifiche dei best seller, è curioso che anche un altro maestro della regia contemporanea non abbia alcun imbarazzo ad assimilare elementi di cultura pop, per un altro paradossale inno alla morte.
Perché nell’irresistibile (e anch’esso perverso) Peter Pan riletto da Robert Wilson con la compagnia del Berliner Ensemble e le musiche e le canzoni dei CocoRosie, ogni tanto pare echeggiare l’attacco del Capitan Uncino di DJ Francesco, con la sua scarica di energia ritmica e vitale.
Per il teatro che fu di Brecht, Wilson firma una regia che inanella una serie di impeccabili e spiazzanti esercizi di straniamento, con una Campanellino (Christopher Nell) che ricorda il Joel Gray di Cabaret, i Ragazzi Perduti che infestano Neverland sono bande di quartiere, per non parlare del fumettistico Capitan Uncino (Stefan Kurt).
La finestra dalla quale i bambini affascinati dall’hooligan Peter Pan (Sabin Tambrea) volano via, abbandonando la quiete della loro stanza, pare lo schermo di un computer: da quel momento in poi è come se Wendy e i suoi fratellini fossero stati risucchiati in un colorato videogame.
Per arrivare al gran finale, che riprende e restituisce gli indizi luttuosi sparsi in tutto lo spettacolo: tutti in coro, insieme a Peter Pan, cantano il ritornello costruito intorno a una frase rivelatrice dell’eterno bambino: “Morire sarebbe davvero una gran bella avventura, più leggera di una piuma, più nera della notte deserta”. Il desiderio di restare bambini in eterno (l’infantilismo analizzato da Francesco Cataluccio nel suo Immaturità. La malattia del nostro tempo, di recente ristampato da Einaudi) è l’altra faccia della pulsione di morte.
Teatro della morte è anche il nuovo lavoro del duo Frosini-Timpano (visto a Rieti Ivasioni Creative), fin dal titolo Zombitudine: una scelta poeticamente inevitabile, dopo la “storia cadaverica d’Italia” ripercorsa da Timpano nei tre spettacoli Dux in scatola, Risorgimento Pop e Aldo Morto. I due attori s’immaginano, come in un horror di serie B, che loro e il pubblico siano gli ultimi sopravvissuti alla zombificazione dell’umanità, asserragliati in quel teatro come estrema isola di salvezza. E’ un mondo di morti, quello che ci circonda, ripetono Frosini e Timpano, accumulando prove. Ma anche il vicolo cieco del teatro, a lungo andare, rischia di mummificare i suoi abitanti. Alla fine gli zombi arrivano davvero, in Zombitudine: invadono la platea e s’accasciano tra le poltrone.
Sono i giovani attori addestrati dal seminario della compagnia, e protagonisti delle “azioni cadaveriche” che hanno animato il tessuto urbano (e magari hanno fatto anche un po’ di pubblicità alla serata). Ma alla fine, con gli attori a vagare nel loro copione sfilacciato e grottesco, mentre gli spettatori immobili al loro posto, sembra farsi strada l’amara verità: gli zombi siamo tutti noi.
Tag: Festival2014 (8), Luca Ronconi (76), Robert Wilson (14), timpanodaniele (8)
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