Paolo Rossi, nei panni dell’ingegner Torre
Attori & Attrici ateatro
A entrare in scena a passi svelti è un uomo piccolo in camice bianco, i capelli grigi incollati sulla testa. Non Paolo Rossi ma l’ingegner Pier Luigi Torre. Lo spettacolo è Il colore è una variabile dell’infinito. Storia di Lambrette, rose e matematica. Pier Luigi Torre è il nonno della regista Roberta, che è anche autrice del testo insieme a Renata Molinari, la quale ha anche scritto le parole delle canzoni musicate da Massimiliano Pace. Un varietà teatrale e musicale che gioca sui tre nuclei individuati nel sottotitolo.
L’ingegner Torre ha inventato la Lambretta, ha (forse) trovato il modo di tingere le rose di blu, ha indirizzato le sue competenze matematiche alla realizzazione dell’idrovolante Savoia Marchetti (sono stati in due appunto, lui e Marchetti), progettando e realizzando nel 1933 la crociera aerea Roma-New York di ventiquattro velivoli. Un genio dimenticato e per questo ancora più efficace nel testimoniare la creatività e la versatilità italiane.
La sua vita non è stata rose e fiori. La morte prematura della moglie Albertina (una contessa), amata tanto da ispirare la rosa blu e da lasciare il deserto affettivo dopo di sé. La seconda guerra mondiale. L’Italia repubblicana che guarda l’ingegnere con sospetto per i suoi trascorsi successi nell’era fascista. Lo spettacolo lo coglie prossimo alla morte nella sua stanza d’ospedale, su un letto avveniristico dotato non solo di apparecchiature flebo. Sembra un aeroplano, su cui fa fatica a salire ma sul quale poi sembra trovarsi perfettamente a suo agio, a patto che le suore infermiere non lo disturbino. La sua mente non fa che misurarsi con formule matematiche, dialoga solo con l’assistente di nome Alfieri. Le memorie che si susseguono in forma di visioni non sembrano chiamate dalla sua mente, che sta da tutt’altra parte e non è interessata a ricordare. La vita passata è ricostruita dallo sguardo di un’altra generazione, quello incuriosito e amoroso della nipote: niente di direttamente autobiografico.
Il colore è una variabile dell’infinito di Roberta Torre con Paolo Rossi.
Sullo sfondo proiezioni d’epoca e poi l’ingegnere col casco che vola su aeroplani disegnati e lambrette rosse, una rete a maglie grosse che si frappone a tratti a mo’ di sipario, fili che Albertina suona come corde di uno strumento, in alto un pesce che vola e infine le stelle che brillano… Sulla parete di fondo si apre un boccascena illuminato e avanza una piattaforma con le mitiche lambrette accompagnate dalla voce del Quartetto Cetra. Avanza un’altra piattaforma per metà occupata da rose, in un canto il cestino da lavoro di Albertina con i gomitoli di lana. I colori sono chiari, con un pizzico di celeste. Nel cuore dello spettacolo i due coniugi cantano una bellissima canzone d’amore: “Cerca l’ombra del blu prima del nero…” Camilla Barbarito ricorda le grandi cantanti melodiche del Sanremo d’antan, bravissima. La guerra viene evocata dalle esplosioni – proiezioni e suoni – e da migliaia di pezzetti di carta che calano sul pavimento. Alla fine il disordine sulla scena fa tutt’uno con la confusione mentale del protagonista. Luce accecante e buio stellato.
Quella che ho visto, mi dico, non è la storia di vita di Pier Luigi Torre, ma la striscia luminosa che può lasciare una vita una volta che si allontana e trasmigra. Allora l’ingegnere sembra più vicino alla Gelsomina di Giulietta Masina in una Strada tutta teatrale che a uno scienziato di successo. Qualche volta Paolo Rossi esce dal personaggio, ragiona sulla passività politica degli italiani, propone la classica gag del piccione che si può gustare su youtube: lo fa perché glielo chiede il pubblico e perché, come attore, ritiene necessario “spezzare la trama”. Ma lo fa anche perché glielo permette l’arguzia del suo personaggio, lo fa con delicatezza. Alla fine è stanchissimo, più di quando ‘strafa’ parlando cantando improvvisando. Si è contenuto tutto il tempo nei panni dell’ingegnere, per dare spazio alla sua follia innocente. Scende dal palcoscenico ed esce dalla porta d’ingresso della sala, dice di aver bisogno di pace. A parlare ora è certamente l’attore, in “quell’istante di vero silenzio tra il finale e l’inizio degli applausi”.
Una spettatrice che mi è accanto applaude commossa mentre un altro si chiede: dov’è il comico per cui sono venuto a teatro? È uno spettacolo delicato questo, la disattenzione può ucciderlo. Ma che c’entra Paolo Rossi? Roberta Torre dice di averlo scelto perché è un visionario che crede in quello che non c’è ancora. Renata Molinari mi racconta della sua attenzione estrema ai giovani attori che stanno in scena con lui. Di sicuro non è il Paolo Rossi che conosciamo meglio.
Nella sua storia c’è il cabaret politico milanese. “L’ultimo dei comici lanciati dal mitico Derby Club” e “l’apripista della nuova leva” nei locali della movida della “Milano da bere”. Il “Lenny Bruce dei Navigli”. Irride i potenti con veemenza, sulla scena e in tv, e allude volentieri al sesso. Quanti ne vediamo di comici sempre più propensi a predicare e a far finire tutto in politica e battutacce! Per fortuna Rossi ama la musica, sente il bisogno di ancorarsi a Molière e al grande repertorio, entra in contraddizione con la sua stessa aggressività, usa da artista la sua figura fisica per esaltare goffaggine e fragilità, lascia che il suo sguardo testimoni altro. Si propone così come monologhista e “attore jazz”, si crea degli alter ego, realizza “antimusical sociali” dove il sociale non annienti il musical.
“Il talento può solo diminuire se non accudito, nutrito, curato”, scrive, problematizzando così la sua stessa mitologia di attore espulso dall’Accademia (e anche nipote d’attore). Ha un bel curriculum teatrale. Esordisce nel 1978 con l’Histoire du soldat di Dario Fo, di cui ha di recente reinventato Mistero buffo in versione pop. Lavora col teatro dell’Elfo: da Nemico di classe di Nigel Williams, che segna l’approdo alla regia di Elio De Capitani (1983), a Comedians di Trevor Griffiths con Gabriele Salvatores, nel 1985. Dunque, soprattutto da attor drammatico prima (un vigliacco violento) e soprattutto da attor comico poi (“un comico che studiava da ribelle”, avendo al fianco Claudio Bisio, Silvio Orlando, Antonio Catania, Renato Sarti, Alberto Storti). Carlo Cecchi lo vuole per recitare Ariel nella Tempesta e Strehler vede in lui “l’Arlecchino del terzo millennio”. Si muove fra i classici e la drammaturgia contemporanea, fra il teatro e la tv, dove sfonda negli anni Novanta senza per questo rinunciare agli spettacoli dal vivo, nelle sale come nei tendoni da circo. Tanti spettacoli, persino un assolo su un anno di insuccessi, uno dei più veri e belli degli ultimi anni secondo Ponte di Pino (Sulla strada, ancora, 2008).
Ci sono più tipi d’attore, dice Rossi. “L’attore c’è quello che c’è”, come Franco Citti in Accattone o il bambino in Ladri di biciclette. “L’attore maschera” come Alberto Sordi, alter ego dell’italiano medio. “L’attore musicale” (che rischia però di suonare sempre “la stessa musica”) come Carmelo Bene. “L’attore mimetico” come Gian Maria Volontè. Paolo Rossi non è solo l’attore maschera come si potrebbe credere: vuole essere “artista del teatro pop”, che è “eclettico, poliedrico, naÏf, folk e un po’ remix”, “non trascura però i gusti del pubblico”, vive “di quello che gli succede ogni giorno”, “non imita il suo tempo, lo ridisegna inventando”. E crede nel personaggio, come qualcosa che crea l’attore “da un testo, un’idea”: “se la persona [dell’attore] non crede in ciò che sta facendo, il personaggio risulterà abbozzato o falso. Se l’attore giudica il personaggio, la persona soffrirà nel lavoro”.
Le citazioni sono tratte da La commedia è finita! Conversazione delirante di Paolo Rossi con Carolina De La Calle Casanova (Elèuthera 2010, prefazione di Oliviero Ponte di Pino). Il libro si conclude con il “Manifesto per un Nuovo Teatro Popolare”, non commerciale, non sperimentale, non intellettuale, senza un pubblico specifico… tante cose. Anche nei ritratti precedenti che ho proposto su ateatro gli artisti parlano di Teatro popolare: da Elio De Capitani a Valerio Binasco a Fausto Russo Alesi. Diversamente, certo. Paolo Rossi fa leva sull’improvvisazione e sulla intercambiabilità dei ruoli, parla di “drammaturgia istantanea” (e non solo), pensa a Brecht. Ma mi pare che esista nel teatro italiano una significativa tendenza a uscire dalla vecchia contrapposizione fra ‘tradizione’ e ‘ricerca’, in nome della concretezza e del piacere di fare teatro e incontrare il pubblico.
30 giugno 2014
Tag: attori & attrici ateatro (11), Paolo Rossi (12)
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