Festival2014_2 Prologo in purgatorio con Mimmo Borrelli
Anime pezzentelle a Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco
Per una sera le anime dei morti sono tornate a vivere le loro laceranti passioni a Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, in uno spettacolo scarno e insieme barocco, costruito intorno ai versi di Mimmo Borrelli e all’espressività di una compagnia giovanissima. Nel cuore di Napoli, sporgendosi sulle aperture e voragini che conducono alla città sotterranea, Anime pezzentelle. Anime scellate dalla faccia sporca è un viaggio verso le viscere della terra, che fa dialogare vivi e morti portando gli spettatori fin sulla soglia degli inferi.
Su due colonnine accanto all’ingresso del santuario, lungo il decumano, campeggiano due teschi di bronzo, lucidati e quasi consumati dal tocco apotropaico dei fedeli. Quel cranio è l’effigie di una “capuzzella”, oggetto di un culto che ha il suo centro in questo santuario e soprattutto nel cimitero delle Fontanelle, che accoglie i resti di decine di migliaia di persone, vittime soprattutto delle grandi epidemie di peste (1565) e colera (1836).
Al centro della devozione e dell’invenzione drammaturgica di Borrelli c’è il culto per le anime abbandonate (“pezzentelle, appunto) visto con sospetto dalla Chiesa per le sue radici pagane. Il devoto adottava un cranio, lo puliva, lo lucidava, lo adornava di lumini e lo sistemava sopra un fazzoletto ricamato, adornandogli il collo con un rosario. Iniziava a pregare, finché l’anima non gli appariva in sogno, facendosi riconoscere e chiedendo preghiere e suffragi per alleviare le proprie sofferenze. Questa devozione avrebbe alla fine aperto all’anima pezzentella le porte del paradiso: da lì avrebbe concesso le grazie richieste dai “padrini” (nel frattempo “passava” anche i numeri da giocare al Lotto: se i numeri erano quelli giusti, il devoto cambiava teschio…).
A partire da una ricerca sul campo, scandagliando la storia e l’antropologia, Mimmo Borrelli ha composto un testo di ampio respiro e ambizioni, che segna un allargamento rispetto all’universo compatto dei suoi precedenti lavori, dove prevaleva l’intreccio tra il sostrato antropologico-linguistico dell’area flegrea (da cui proviene) e il riferimento alla mitologia tragica.
Borrelli compone un’allucinata e disperata danza dei morti, un carosello di figure, dense di simboli, miti, riferimento alla storia e alla storia della città e a figure rubate alla vita e alla memoria del quartiere: Padre Crocco (Paolo Fabozzo) segretamente innamorato della perpetua (Federica Altamura), il ribelle Maso (Riccardo Ciccarelli) e la sua sposa Bernardina “reggina de lu popolo” (Isabella Lubrano), il seduttore che s’accoppia in maniera sacrilega con una prostituta in un cimitero, la madre del figlio non nato (Lucienne Perreca), l’uomo che uccide moglie e figlio e acceca la figlia (Enzo Gaito), il cancelliere beone (Andrea Caiazzo) e il suo assistente Siggettaro Ghiastemmatore (Renato De Simone)…
Sono il frutto di una stratificazione complessa di riferimenti, temi, motivi. C’è l’ombra delle sopravvivenze delle antiche tradizioni studiate da Ernesto De Martino (e recuperate al teatro da Roberto De Simone e Annibale Ruccello), nelle possessioni, convulsioni, trance, catalessi che scuotono e irrigidiscono i corpi. Si avverte l’eco dei rituali del nuovo teatro di Grotowski e Barba: la disposizione del pubblico nella parte centrale dello spettacolo, con il pubblico ai due lati della navata della chiesa, e la pista centrale percorsa da una sorta di processione spettacolo, ricorda per esempio quella di Oxyrhincus Evangeliet dell’Odin. Non mancano citazioni dalle arti visive: nella prima scena, in posa sui mobili della sacrestia, i le cinque figure ricordano le statue lignee e le figure di un presepe stravolto dalla colpa e dal delirio, singhiozzanti e gementi. Il riferimento più ambizioso è ovviamente Dante. Nel sommario distribuiti agli spettatori vengono enunciati i peccati capitali di cui si sono macchiati queste anime tormentate, superbiuse e ‘mmeriuse (invidiose), guallaruse e arraggiuse (accidiose e iraconde), perecchiuse (avare), ghiuttunare (golose) e lussuriose. Anime pezzentelle è una rivisitazione teatrale ed epica della Commedia, quasi a ritrovarne una originaria forma teatrale, dove i vivi dialogano con i morti, come nell’antico culto.
Con una avvertenza: nella teologia di Borrelli non ci sono né inferno né paradiso, solo il Purgatorio perché – come dice una battuta del testo – ogni passione degenera in ossessione, il sentimento autentico, quello che dovrebbe portarci alla felicità e alla salvezza, ci conduce invece a una disperata perversione.
Il rituale della discesa prevede tre stazioni, Nel prologo, dove cinque anime-zombi, tra cui una sorta di Caronte, esplodono la loro disperazione perché nessuno ormai prega per la loro salvezza e presentano la loro colpa. Se non arriverà un’altra giovane per prendere il posto della loro condottiera Lucia, sprofonderanno all’inferno. Dalla sacrestia si passa al santuario, che ospita il regno dei morti senza dimora, che non avendo trovato pace tornano a tormentare i vivi con la loro angoscia, ma anche con la forza delle loro passioni. Testimone di questo tormento è una giovane che muore per amore, la sedicenne Lucia: toccherà a lei, secondo la leggenda, prendere coscienza della propria morte e guidare le anime pezzentelle, sacrificandosi come Cristo per la loro salvezza.
Per l’ultima tappa, le anime conducono gli spettatori nell’ampio ipogeo: è qui che avrà luogo la parte finale del rito, il sacrificio della fanciulla, il suo urlo straziato prima del silenzio, che libererà i viventi dalla compagnia dei morti: il loro corteo, con il cadavere di Lucia, potrà finalmente discendere alla pace silente degli inferi…
Lo spettacolo (sostenuto dalla associazione Purgatorio ad Arco) è frutto soprattutto del lavoro laboratoriale di un gruppo di giovanissimi, che si gettano nell’impresa con impeto, Mimmo Borrelli si ritaglia la figura del demone che anima e governa questo sabba, prima indossando una maschera di capro e poi nell’ultima scena, nell’ipogeo, esibendo l’abito bianco e i Ray Ban di un boss di quartiere, ma con petto e pedi nudi. Anche se non siamo all’inferno, ci vuole un demone – magari distratto e strafottente – che si curi della regia.
Le foto sono di Gennaro Cimmino.
Tag: Festival2014 (8), Mimmo Borrelli (8), napoli (24)
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