Elio De Capitani in viaggio nel teatro
Morte di un commesso viaggiatore al Teatro Elfo Puccini
Il 2 febbraio ho visto al Teatro Elfo Puccini di Milano l’ultima replica di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller: regista e protagonista Elio De Capitani con una magnifica squadra di attori e attrici. Mi piace inaugurare con lui questa rubrica su ateatro, dedicata agli attori: che tornano ad essere il motore del teatro, molto più agguerriti e in grado di interagire con il presente di quanto si creda. La a che apre il nome di questo sito rinuncia così alla connotazione privativa (che ha portato tanta sperimentazione a fuggire dalle parole attore, spettacolo, testo, personaggio) per diventare movimento, movimento verso e dentro. Dalla relazione vivente fra scena e platea possono nascere emozioni intense come quelle che dà il grande cinema, non solo piaceri rarefatti.
Bella da subito questa Morte di un commesso viaggiatore, ma un retropensiero mi ricordava la potenza asciutta, geometrica del faccia a faccia Frost/Nixon, Bruni/De Capitani, nello spettacolo dell’Elfo Puccini che ha preceduto questo: strepitoso. Poi, in un crescendo inarrestabile, non è esistito più nulla se non la famiglia Loman. Perché la questione a teatro non è la finzione o la verità, il patto fra attore e spettatore è chiaro, ma la creazione di un ponte fra le emozioni di chi agisce in scena e di chi guarda, quando per dirla con le neuroscienze quello che accade là, sulla scena, sembra avvenire dentro di noi. Potenza fisica delle emozioni. Non è retorica. E’ qualcosa che avviene quando il teatro racconta storie e presenta personaggi capaci di riguardare il mondo presente, il nostro mondo. E può avvenire solo tramite la maestria, il possesso del mestiere. Doveva essere così quando il teatro nell’Ottocento si trovò ad affrontare la concorrenza dell’Opera lirica, e uscì dalla crisi grazie alle fatiche del Grande attore, alla sua capacità di raccontare storie e personaggi che il melodramma non poteva affrontare.
Dalle recensioni allo spettacolo, che ho apprezzato tutte, traggo due osservazioni preziose: il riferimento di Maurizio Porro a Balzac, alla sua Comédie humaine, e la qualità che Franco Cordelli attribuisce al naturalismo di De Capitani: un’energia luminosa. E’ vero: questo spettacolo, nonostante la bellezza visiva e sonora, non rimanda alla poesia (crepuscolare e non), bensì alla potenza e alla carnalità del romanzo di ‘tradizione’ e al naturalismo. Che, a livello alto, presuppone un rapporto profondo col proprio tempo, condizione della sua stessa esistenza. Qualcosa di molto importante, dunque. In questo caso poi subentra la luminosità. La rintraccio nella fluidità meravigliosa con cui lo spettacolo nasce, cresce, esplode e si richiude. Quando il mestiere, o se si preferisce l’artigianato, è così ben posseduto, amorosamente posseduto e praticato, che l’intellettualismo non trova spazi, le emozioni non subiscono raffreddamenti. Ecco Loman intrecciare il suo difficile presente con il passato, che continua a esistere nella sua mente e a proiettarsi su un futuro che non può più essere; eccolo passare dalla consapevolezza alle menzogne necessarie alla sopravvivenza, dal dialogo reale o immaginato alla solitudine cupa: come voleva Miller (“la simultaneità della mente”), trasformando in una sua proiezione la realtà senza che questa perda la sua evidenza. Senza paura del sentimentalismo (il kitsch come “condizione umana”, dice Cordelli), De Capitani incarna con precisione chirurgica i tratti eccessivi che ha conferito al suo personaggio. La stessa precisione con cui da regista ha costruito lo spettacolo, il suo complesso meccanismo nel segno della inesorabilità tragica: con qualche allentamento della tensione in alcuni dialoghi fra Willy e Linda Loman. Allora arriva anche la risata: dove la leggerezza viene tutta dalla lunga consuetudine scenica dei due protagonisti, De Capitani e Crippa. Una signora Loman intensa ed efficace la sua, capace di far intravvedere note di ‘grandezza’ nella ‘piccolezza’, per l’ostinazione con cui protegge e nutre i fantasmi familiari, gareggiando con le “illusorie rappresentazioni” del marito, femminilmente un passo indietro.
In una videointervista (condotta da Renzo Francabandera) De Capitani dice di aver voluto assumere i ruoli di attore protagonista e di regista per “sondarsi”. Niente di riferibile alla vita privata. Al centro, come per Willy Loman, c’è il lavoro, il suo lavoro. Nessuna dimensione metateatrale però, anche se la scena in cui Biff scopre il padre in una stanza d’albergo con un’amante, a lungo allusa, l’aspettiamo come quella che si ripete nell’atelier di Madame Pace con i Sei personaggi. La vita del teatro è piena di echi e di rimandi. Il sondaggio cui De Capitani sottopone se stesso riguarda l’arte: regia e interpretazione, una drammaturgia lungamente coltivata con curiosità e acume, la passione pedagogica, l’amore per il pubblico. E porta a uno di quegli spettacoli in cui si riassume e si rilancia il lavoro di anni: in cui gli ingredienti coltivati artigianalmente fioriscono in qualcosa di magico.
De Capitani, come i suoi compagni dell’avventura quarantennale dell’Elfo, ha sempre coltivato le grandi sfide, ma ha conservato un tratto di umiltà, indispensabile per un attore. Tanto che nel libretto di sala scrive: siamo alla ricerca “di una recitazione di grande forza interiore al servizio della costruzione organica del personaggio e dell’azione scenica e di un teatro aperto”. Qualcosa di eccezionale in un paese dove molti attori si ritengono formati una volta per sempre. E lui ha una lunga storia alle spalle. Si unisce appena ventenne al neonato Teatro dell’Elfo, goethianamente attratto dall’amore per un’attrice, Cristina Crippa. Fa di tutto ma principalmente l’attore; poi, nel 1982 sceglie la regia, per approdare una ventina di anni dopo al doppio ruolo – regista, da solo o in coppia privilegiata con Ferdinando Bruni, e attore in scena –, senza dimenticare le doti imprenditoriali che hanno portato il gruppo a conquistare il moderno Elfo Puccini, con tre sale. Anche qui il ruolo di De Capitani è decisivo: pensare in grande, lavorare tenacemente, condividere.
Sono contenta di aver visto l’ultima replica milanese dello spettacolo, perché c’era l’intensità dei commiati non di routine. L’entusiasmo del pubblico e l’emozione degli attori di nuovo si rispecchiano sulle onde di mani che battono: ora sono gli spettatori a compiere un’azione. Angelo Di Genio, che ha già avuto anche un bell’applauso a scena aperta, d’istinto, dà un bacio in testa al suo regista e compagno di scena. Esprime un sentimento che deve essere anche degli altri, in particolare dei giovani attori che hanno condiviso The History Boys. Morte di un commesso viaggiatore ha debuttato a un anno esatto dalla morte di Mariangela Melato: per una precisa volontà di Elio, che l’ha diretta in Un tram che si chiama desiderio e infine in Anima buona di Sezuan e progettava con lei un’Arialda. Mi ricordo l’ultima volta che ho visto Mariangela Melato, in Nora alla prova di Ronconi, al Bonci di Cesena. Un applauso che non finiva mai, e intanto lei sembrava divorare con gli occhi lo spazio tutto, in alto e in basso, spettatori e arredi. Salutava un teatro che sapeva di non rivedere mai più. E’ questo l’aspetto biografico che nutre il teatro senza divorarlo: il senso della comunità, la memoria dell’attore che si illumina nell’esperienza.
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