Il morbo italico: paranoia nazionale, blocco cognitivo e Nuovo Teatro del Grottesco
Che cosa hanno in comune Emma Dante e Daniele Timpano, Babilonia Teatri e astorritintinelli, Fibre Parallele e ricciforte?
Questo testo è stato pubblicato in una prima versione in engramma. la tradizione classica nella memoria occidentale, n. 108, luglio agosto 2013.
Qualche tempo fa Claudio Mencacci ha scritto un breve articolo per il “Corriere della Sera”: non è apparso in prima pagina, ma nell’inserto “Salute”, nelle pagine finali del quotidiano. Il presidente della società italiana di psichiatria spiegava che non solo gli individui, ma anche le nazioni, possono impazzire. Il nostro paese, scriveva, è
sempre più contagiato da una venatura paranoica. La diffidenza, il sospetto, la rissosità che permeano e inquinano i rapporti tra le persone, le accuse che acriticamente e in modo stereotipato rivolge all’altro, la negazione della possibilità di un dialogo che non si traduca in un alterco o in un pubblico dileggio, accompagnati dalla proiezione sistematica sull’altro delle responsabilità di programmi disattesi, dimostrano quanto gli aspetti, appunto paranoicali, siano operanti nel tessuto sociale attuale. (…) Questo ‘virus della paranoia’ è già in azione, circola nella nostra vita, amplifica la diffidenza dello Stato sui comuni cittadini che a loro volta ricambiano diffidenza e sospetto. E la Storia ci ha insegnato che il passaggio, a volte indolore, dallo Stato di diritto a quello paranoico, non è improbabile.
(Claudio Mencacci, “Corriere della Sera”, 28 aprile 2013)
La “follia degli italiani” – e più in generale la “follia collettiva di una nazione” – è da qualche tempo una questione controversa nei corridoi dei convegni internazionali di psichiatria. Ma forse il “morbo italico”, di cui si trovano ampie anamnesi nei due ultimi libri di Sandra Bonsanti (>Il grande gioco del potere, Chiarelettere, Milano, 2013), e Corrado Stajano (La stanza dei fantasmi, Garzanti, Milano, 2013), era già entrato, da qualche anno, nella drammaturgia di alcuni giovani gruppi teatrali e di alcuni giovani autori: in una forma indiretta, sghemba, e tuttavia percepibile.
A lungo, agli inizi, il Nuovo Teatro si è preso tremendamente sul serio. Era in gioco la rifondazione dell’arte teatrale (se non del mondo). Bisognava inventarsi una grammatica e un linguaggio partendo da segni e oggetti (e dunque limitando ambiguità e dunque ironia). La poesia era in agguato, con le seduzioni del sublime, dell’ineffabile, dell’esoterico. Il corpo si fortificava e macerava nel training, o si martirizzava e trasfigurava nella body art. Non c’era molto da ridere.
O meglio, c’è sempre stato e c’era molto da ridere. Ma per questo bastavano gli specialisti, da Dario Fo giù giù fino agli ultimi comici da cabaret, dai cine-panettonari natalizi ai barzellettieri in stile Drive In. Era una risata a volte bonaria, consolatoria, altre più aggressiva, feroce. Ma partiva dal presupposto che una battuta, un’imitazione, una gag potessero servire a migliorare il mondo: innescavano una scintilla di felicità, e potevano magari scatenare la rivoluzione. La satira intrattiene con la realtà un rapporto spesso condito di moralismo, ma intimo, stretto, e alla fine positivo.
Poi qualcosa è cambiato, anche nel nuovo teatro. E’ difficile cogliere il punto di svolta. Forse se ne possono individuare alcuni segni premonitori che non a caso insospettirono alcuni maîtres-à-penser del Nuovo Teatro: erano indizi di frivolezza, concessioni al gusto del momento, intemperanze giovanili da raffreddare al più presto. C’era, nei primi spettacoli della Società Raffaello Sanzio (non ancora Socìetas), una vena allegramente dissacrante: bastava prendere sul serio quello che “crede la gente” (politica, filosofia, religione…) e portarlo fino alle conseguenze estreme, per svuotarlo di senso. C’è stata anche la profetica invenzione della Romagna Africana da parte delle Albe di Verhaeren (non ancora Ravenna Teatro), da un lato fondata scientificamente (la tettonica a zolle, la deriva dei continenti…), dall’altro assurda e surreale, un grimaldello per raccontare un problema reale: un’urgenza sociale, e drammaturgica, di cui nessuno (o quasi) si accorgeva: la nuova ondata immigratoria dall’Africa, di cui nessuno ancora di accorgeva, nemmeno la Lega. L’unico modo per metterla al centro dell’attenzione era spingerla oltre il limite del reale, farla esplodere come provocatoria metafora. (E forse qualche riverbero di questo atteggiamento di radicalizzazione del reale c’era anche nei primi film di Nanni Moretti, e in certi romanzi di Aldo Busi…)
Poi Romeo Castellucci si è inabissato nei misteri (serissimi…) dell’origine del tragico e del sacro, mentre nei testi di Marco Martinelli una scheggia della vena paradossale di quel teatro politico ogni tanto riemerge.
Ecco. Due parole. Grottesco. Politico.
A un certo punto, per alcuni di noi, il rapporto con la realtà ha iniziato a prendere una brutta piega. I sintomi erano chiari nella sfera politica ed economica, ma il morbo italico aveva radici più profonde: culturali, intellettuali (l’istupidimento collettivo, quello che di recente in Parlamento è stato definito “blocco cognitivo”), ma prima ancora morali. Qualcuno avrebbe potuto precisare: “antropologiche”.
Le cose non andavano bene, e peggioravano. E continuavano irrimediabilmente a peggiorare, malgrado i gridi d’allarme, le proteste, i buoni propositi, la buona volontà, le buone pratiche… A un certo punto si è intuito che non c’era più niente da fare. Senza volerci credere (l’ottimismo della ragione), pensando che non fosse possibile, che qualcosa si poteva – e si doveva – pur fare!
La cronaca inanellava episodi ridicoli e assurdi, e insieme feroci e squallidi: uno dei primi esempi di questa deriva è stato il feroce e insensato delirio omicida delle Brigate Rosse, che ha segnato la cronaca e la politica italiane dalla metà degli anni Settanta. Ma le cronache dei decenni successivi tracimano di scandali che colpiscono prima di tutto per la stupidità e l’arroganza dei protagonisti e del sistema che ha costruito e coperto questi antieroi della contemporanea commedia dell’arte italiana. “La Milano da bere”. “Tangentopoli”. “Le bombe intelligenti” e “il Fuoco Amico”. ”Il sole in tasca” di Silvio Berlusconi, con la sua parabola politica così eccessiva e ridicola nell’ascesa come nella caduta. “Le escort”. Il “Cerchio Magico” e i “furbetti del quartierino”. La corruzione dilagante, denunciata da best seller come La casta. Un sistema elettorale definito dal suo stesso ideatore “Porcellum”: irriformabile, malgrado autorevolissimi moniti e ri-moniti sempre più esasperati e sempre meno efficaci. I “professori” (un ritorno: anni prima avevano diretto con analoghe ricadute la RAI). “La Macchina del Fango”. “Le ecomafie”e la “trattativa Stato-mafia”. “L’agibilità politica” (un termine che non si sentiva più dagli anni Settanta, e di cui si era dimenticato il significato). “La terra dei fuochi”. Stamina…
Ce ne accorgevamo tutti. Ci siamo indignati, ci siamo arrabbiati. Non è servito a nulla.
Hanno continuato ad accadere cose sempre più ridicole, sempre più assurde, sempre più feroci, sempre più squallide. Mentre la retorica ufficiale continuava a dipingere un panorama sempre più lontano dalla realtà, dalla nostra esperienza. Governo di Unità Nazionale. Larghe Intese.
La spirale è diventata inarrestabile. La realtà è diventata inaccettabile, per il più semplice dei motivi: perché era diventato impossibile invertire la tendenza. Era il trend. Spandeva una scia di furore, disgusto, impotenza.
Ecco, neanche il gesto della P38 riesco più a fare bene. Non mi si piegano le dita. Tutta storta, ‘sta pistola, e moscia. Appunto. Anche se potessi, anche se volessi, non lo farei, non potrei farlo; io non saprei e non vorrei uccidere nessuno; io lo sento, sento che oggi, in questo stato, in cui siamo, è impossibile l’azione; no, non è un fatto morale, è proprio impossibile qualunque reazione alla ‘Reazione’. (pausa) Vabbè. (pausa) Niente di importante.
(Daniele Timpano, Aldo morto, in Storia cadaverica d’Italia, Titivillus, Corazzano, 2012, p. 152)
Il canale youtube di Aldo Morto
Come spesso accade, a interiorizzare, metabolizzare ed esprimere questo sentimento sono stati i teatranti. Quelli più giovani, cresciuti in questo clima. Per reagire a questa deriva, allo sbriciolamento. Il metodo era quasi obbligato: prendere sul serio la favola che ci stavano raccontando, le verità proclamate dai politici e dai loro mass media, le fanfare del neoliberismo globalizzato, solo esagerando un po’. In modo che emergesse l’assurdo e il lieto fine diventasse impossibile. Cercando in ogni caso di divertirsi, salvaguardando il principio del piacere. Trasformando la propria impotenza in gesto espressivo.
So che la soluzione, la vera soluzione finale, è quella di mangiarmele queste mie cosce, ed è solo così, mangiandomele, e sbranandole a morsi, togliendole da me per sempre, cacandole fuori dal culo una volta mangiate, queste mie cosce, mi lasceranno libera, libera di essere la donna che sono e di firmare mille autografi e di essere adorata e di sentire mille applausi che mi toccano il sedere e poi vado alle feste e cammino sui tappeti rossi e tutte le sere c’è qualcuno che mi aspetta con un taxi e poi concedo interviste e mia madre non pensa che ho un problema nella testa ma quando va al supermercato le fanno i complimenti per sua figlia, e io divento alta e non c’è più nessun problema ma soltanto dei ministri che mi portano in vacanza e che mi baciano la schiena e mi tengono sulle ginocchia come faceva il mio papà.
(Christian Ceresoli, La merda, Oberon Books, London, 2012, pp. 11-12)
Silvia Gallerano, La Merda.
L’etichetta di “grottesco” forse semplifica troppo, e accomuna visioni politiche ed esperienze estetiche molto diverse. E’ stata già usata in passato. Anzi, come scriveva Luigi Ferrante nell’introduzione a Teatro italiano grottesco (Cappelli, Bologna, 1964), ha “un valore lontano nel tempo, nella storia della poesia e dell’arte drammatica italiana e richiama le ragioni più remote e presenti del nostro teatro, dall’antica espressione oraziana dell’Italicum acetum al comico drammatico moderno”. Più specificatamente, è stata utilizzata per identificare un filone della drammaturgia italiana d’inizio Novecento, comprendendo tra gli altri i testi di Luigi Chiarini (La maschera e il volto, 1916, considerato il capostipite del genere), Luigi Pirandello, Massimo Bontempelli e Pier Maria Rosso di San Secondo, fino al primo Eduardo.
Al centro di queste “favole amare”, ha notato Ferdinando Taviani, c’era “il conflitto tra l’intimità della persona e la pressione sociale che su di lei si esercita, l’immagine dell’individuo come un martire senza gloria, incatenato al giudizio altrui, trafitto dagli sguardi degli altri”. A unire “le opere del cosiddetto ‘teatro del grottesco’ non era tanto una vicinanza di idee e di visioni, quanto un comune desiderio di prendere le distanze dalle trame ricorrenti del teatro borghese”. Cogliamo forse la scintilla che ha innescato questo nuovo teatro grottesco, quello che sta emergendo in questo nuovo inizio secolo, se alle “trame ricorrenti del teatro borghese” sostituiamo la rappresentazione sociale condivisa, diffusa e imposta dai mass media. Proseguiva Taviani:
Le trame dei ‘grotteschi’ usano (…) una prospettiva aberrante e deformante sia spingendo all’eccesso i paradossi della vita, sia inventando intrecci fantastici capaci di tradurre il paradosso in favola.
(Ferdinando Taviani, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna, 1995. p. 162).
Il termine grottesco investe anche il lavoro degli attori. Il grottesco è stata infatti la risposta alle strettoie del realismo stanislavskiano, alle secche dell’immedesimazione psicologica dell’attore nel personaggio. La reazione, iniziata genialmente da Vsevolod Mejerchol’d e proseguita con lo straniamento brechtiano, ha attraversato l’intero Novecento teatrale, che è stato addirittura definito, in una prospettiva attoriale, “il secolo del grottesco”:
Oggi un “grottesco” continuamente rimodulato si presenta come carattere essenziale del teatro, anche se (…) nessuna strategia d’attore può prescindere dalle scoperte dei grandi maestri del passato, persino a quelli della linea apparentemente antitetica e “naturalistica” che va da Stanislavskij a Grotowski.
(Antonio Attisani, “L’attore sincero nel secolo grottesco”, in AA.VV, Actoris Sudium. Album #2. Eredità di Stanislavskij e attori del secolo grottesco, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2012, p. 15)
Al di là della ricostruzione delle genealogie attoriali, va sottolineato che all’attrazione del grottesco sono sensibili soprattutto gli attori, o meglio alcuni autori-attori. Il richiamo al passato può aiutare a cogliere la spinta che ha generato molti spettacoli: un profondo disagio rispetto al degrado italico e alle sue ipocrisie, il rifiuto di un estetismo fine a se stesso; la sensibilità dell’attore, che cerca un piano di comunicazione efficace con il pubblico.
Nell’enfasi grottesca di un “teatro incivile”, l’attore trova il punto d’equilibrio tra la propria arte e sensibilità (anche politica), le attese del pubblico (e le sue risposte “di pancia”) e il contesto politico e sociale che una analisi razionale della situazione non è più in grado di capire e descrivere. Il grottesco è la smorfia del buffone di fronte a una realtà opaca, assurda, che sfugge a ogni interpretazione e dunque a ogni possibilità di cambiamento.
L’autoritratto generazionale e disperato di ricci/forte. Daniele Timpano con il rifiuto della nostra storia recente (compresi gli anni di piombo) così come l’hanno raccontata i “fratelli maggiori”. Babilonia Teatri che amplifica il rumore di fondo della “gente” per svuotarlo di senso. Il fortunato La merda di Christian Ceresoli con la critica politica e corporea del velinismo televisivo. I “brutti sporchi e cattivi” di Fibre Parallele, ispirati a un’Italia profonda e vera. Gli sgangherati personaggi di Carrozzeria Orfeo e le loro disavventure, che fanno scattare meccanismi di immediata identificazione nel pubblico. Soprattutto l’anguria di Armando Pirozzi. Poi certi schizzi degli Omini o del Teatro Sotterraneo (che non a caso si è esercitato su teoria e pratica del comico). E ancora l’irritabilità attoriale di due maestri del grottesco come Astorri e Tintinelli, con i loro riferimenti pasoliniani…
Sono esperienze divergenti, e che tuttavia reagiscono a una catastrofe condivisa. In questo, l’attualizzazione, lo smontaggio e il ribaltamento delle fiabe dei Fratelli Grimm operato da ricci/forte in Grimmless assume un valore esemplare.
Si tratta di filtrare il racconto che ci viene imposto alla luce dell’esperienza personale, individuale (forse generazionale), ma in qualche modo condivisa. La distanza tra questi due poli produce un effetto di straniamento che conduce al grottesco, attraverso un meccanismo di semplificazione e amplificazione, e ancora più oltre può approdare al tragico.
c’è una cosa che non ho mai detto a nessuno
sono morta
un mucchio di volte
continuo a morire quasi ogni giorno
la prima
quando ho deciso di imparare
ad allacciarmi le scarpe da sola
nessuno di voi due me l’ha insegnato
quarantotto ore dopo
sapevo fare il fiocco e resuscitavosono morta
quando ho scoperto che papà
non aveva mai appeso il mio disegno
in ufficio
una tormenta di ghiaccio mi ha brinato le cigliaassiderata
(Bianca e Neve, da ricci/forte, grimmless, Titivillus, Corazzano, 2012)
Grimmless in video.
“Extracomunitari”. “Precari”. “Badanti”. “Delocalizzazione”. “Bamboccioni”. “Esodati”. “Responsabili”. “Rottamatori”.
Forse, dopo che il senso delle parole è stato rubato, distorto, pervertito, è meglio ricorrere alle immagini. Ce n’è una che ricorre in questi anni.
L’archetipo è probabilmente il fortunato logo di un formaggio, il Belpaese, lanciato nel 1906 ispirandosi al best seller omonimo di Giannino Stoppani, il creatore di Gian Burrasca. Negli anni del boom, Carosello lo ha sedimentato nell’immaginario collettivo: “Perché Galbani vuol dire fiducia” era lo slogan del produttore, affidato al sorriso bonario di Johnny Dorelli.
L’Italia perse l’innocenza politica il 12 dicembre 1969 e per tre giorni Carosello venne sospeso (prima di chiudere definitivamente il 1° gennaio 1977).
Nel 1971, con Italia d’oro, Luciano Fabro mostrava uno Stivale di metallo prezioso, ma impiccato a testa in giù. Italia d’oro non è un’opera a sé, ma fa parte di
una lunga serie i cui titoli, semplicemente enunciati, formano una sorta di poema amoroso, pieno di humour e tragico allo stesso tempo:
Italia, carta stradale
L’Italia di cartoccio
It-alia
L’Italia
Italia d’oro
La nazione italica
L’Italia di pelo
Sullo stato
Cosa nostra
L’Italia di cristallo
L’Italia Savoia
Speculum Italiae
De Italia
L’Italia del caso
L’Italia del pupi
Latin Lover
L’Italia del dolore
Mare nostrum (Italia)
Optical Italia
Italia elastica
L’Italia di Prato
Italia da guerra
Italia a pennello
Italia vota
L’Italia ponte
Italia poco seria
Italianity
Italia feticcio
Italia porta
Italia all’asta
(Dieter Soutif, “Fabro torna Fabro”, in Germano Celant (a cura di), Arte povera 2011, Electa, Milano, 2011)
La provocazione è stata rilanciata trent’anni più tardi da Gaetano Pesce, in un’installazione del 2010 che a Milano occupava l’intera platea del Teatro dell’Arte nell’aprile 2011: L’Italia in croce, questa volta nel verso giusto, ma composta di brandelli di carne sanguinanti, che si liquefano su un letto di carboni ardenti.
La figura torna in alcuni recenti spettacoli, come in Made in Italy di Babilonia Teatri, dove il contorno dello Stivale è una beffarda luce al neon; e nello spettacolo più esplicitamente politico di Emma Dante.
Nella scena chiave di Cani di bancata (visto proprio al Teatro dell’Arte) campeggiava un’Italia spezzata e a testa in giù. Come spiega nelle sue note allo spettacolo la stessa autrice-regista, possibile caposcuola di questo Nuovo Teatro del Grottesco:
La mafia femmina-cagna schifa se stessa e chiede ai suoi figli di rinnegarla.
(…)
La cagna dona ai figli l’Italia capovolta e divisa, fatta di “isuliddi c’un fannu capo a nuddu”. In questa nuova cartina geografica, la Sicilia è al nord.
(…)
In un’isola del nord di un’Italia capovolta c’è una città madrìce, un luogo primario, dove un popolo silenzioso, seduto attorno a una tavola imbandita, si spartisce l’Italia e se la mangia a carne cruda.
https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=video&cd=1&cad=rja&ved=0CD0QtwIwAA&url=http%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DuqeLf56wzVs&ei=G9i-Ur-5EKW6yQPG3IHgBQ&usg=AFQjCNF7ceyt_YzJo_OEvl828x38CPAzNQ&sig2=5oGXi8Wjh2F5bOa6IkZ_4g&bvm=bv.58187178,d.bGQ
Emma Dante, Cani di bancata
(Non a caso, in queste stesse note Emma Dante prefigurava tra l’altro il nocciolo del suo film Via Castellana Bandera, esplicita metafora della situazione del paese: “Sto percorrendo in auto una stradina a senso unico e di fronte a me arriva un’auto contromano. Mi fermo, ho fretta e suono il clacson. Aspetto che il conducente indietreggi e, nonostante il mio coraggio, basta un suo sguardo accompagnato da un cenno colla testa per farmi capire che mi conviene fare retromarcia. Non penso che il conducente di quell’auto sia mafioso, anche se lo è il suo atteggiamento. È più facile incontrarlo in un’auto blu nel centro di Roma, il mafioso contemporaneo, nel giusto senso di marcia.”)
Di fronte alla patologia collettiva degli italiani, questo Nuovo Teatro del Grottesco – con tutto il suo esibito istinto autodistruttivo – ha senz’altro un valore cognitivo, perché mette a nudo e svuota i meccanismi della retorica nazionale. Permette di riconoscere e condividere il proprio disagio; offre uno sfogo a rabbia e indignazione, spesso usando meccanismi comici; apre qualche squarcio sulla nostra situazione politica, o meglio (in)civile.
Voglio il mio boia
voglio affittarlo
prenotarlo
comprarlo ora
voglio che viaggi con me
sempre
fedele al mio fianco
voglio sia scritto nero su bianco
sono il tuo boia
sono il tuo boia
voglio il sigillo del notaio
poche parole chiare
non voglio una morte lenta
voglio un colpo di pistola
uno solo
qui
in testa
in mezzo agli occhi
la chiamate vita
non la voglio
non voglio viverla
non voglio vederla
non voglio soffrirla
non mi interessa
poche parole chiare
non voglio una morte lenta
non pensate di fottermi
di aggirami
di incularmi
lo dico adesso
lo scrivo
pago
dovrete farlo
basta schiacciare il grilletto
voglio un’assicurazione sulla morte
sulla mia morte
un’assicurazione contro la morte lenta
voglio il mio boia.
Babilonia Teatri, This Is The End, My Only Friend The End)
Queste favole politicamente scorrette, senza lieto fine e senza morale, con la loro retorica del grottesco, forse approdano a quello che Aristotele chiamava catarsi. Derisione e autoderisione. Pietà e terrore. Sono un piccolo antidoto alla paranoia collettiva. Quello sberleffo è la voce del bambino che dice che il re è nudo e sgretola l’ipocrisia di una nazione. Quella puntura acida è l’aculeo che punge Rosaspina, la Bella Addormentata, per risvegliarla dal suo torpore e rompere il perfido incantesimo che ha congelato il tempo.
Nel nostro tempo l’esperienza della sincerità non può darsi che nel grottesco, sia pure in un permanente confronto con l’altro (colui che nella tradizione moderna è chiamato ‘personaggio’), il primo oggetto della decostruzione teatrale è l’io. Per questo il lavoro del teatro è rischioso, può facilmente mutarsi nella più pura autodistruzione oppure ripiegare nel narcisismo consolatorio del successo “spettacolare”.
(Antonio Attisani, cit., p. 24)
Tag: astorrietintinelli (3), Babilonia Teatri (13), CarrozzeriaOrfeo (3), CeresoliChristian (2), Emma Dante (10), fibreparallele (3), Ricci/Forte (7), timpanodaniele (8), tragedia (23)
1 Commentoa“Il morbo italico: paranoia nazionale, blocco cognitivo e Nuovo Teatro del Grottesco”
Scrivi un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.
[…] Il morbo italico: paranoia nazionale, blocco cognitivo e Nuovo Teatro del Grottesco […]