Inventare festival a Nairobi
Cronaca di un laboratorio di organizzazione teatrale
L’attività teatrale con i ragazzi di strada di Nairobi, avviata e guidata da Marco Baliani nel quadro del programmi Children in Need di AMREF, oggi coordinata da Letizia Quintavalla, è molto conosciuta in Italia, in particolare per spettacoli come Pinocchio nero (Premio Ubu 2005) e Amore buono (sulla prevenzione dell’Aids), diretti da Baliani; e Malkia, regine (dal Cerchio di gesso di Brecht), messo in scena da Quintavalla con un indimenticabile gruppo di ragazze.
Al teatro si è affiancata negli anni la musica, che ha portato alla costituzione del gruppo Juakali Drummers (sbarcato anche a Umbria Jazz) e a un laboratorio di video-formazione che ha prodotto documentari trasmessi in tutto il mondo (fra gli altri da National Geographic Channel).
Arte e riabilitazione
Sono oltre centomila i bambini e gli adolescenti che sono condannati a vivere dormendo all’aperto e nutrendosi di rifiuti. Una vita fatta di emarginazione, colla da sniffare, violenza, prostituzione, solitudine, fame e malattie. Per aiutare i ragazzi di strada a cambiare vita e a reinserirsi nella società, nel 2000 AMREF ha avviato il Programma Children in Need, nel sobborgo di Dagoretti, una vasta area nella periferia sud di Nairobi. Il progetto interessa direttamente o indirettamente migliaia di giovani. Le attività vanno dall’assistenza medica e alimentare per i ragazzi che spesso arrivano al centro di AMREF malnutriti, ammalati e intontiti dalla droga, all’istruzione di base per introdurli alla scuola; dallo sviluppo di piccole attività economiche sostenibili, all’assistenza legale; dal counselling individuale a quello familiare, nella prospettiva di ricongiungere i ragazzi, quando è possibile, con le famiglie d’origine. Dal 2001, il programma di AMREF ha promosso anche una serie di attività artistiche e di comunicazione come strumenti di riabilitazione psico-fisica e sociale che hanno aiutato i ragazzi a dialogare con le comunità che li emarginano, ma anche a far conoscere al mondo la condizione dei ragazzi di strada “dall’interno”.
(dal sito di Amref)
Un nuovo corso: l’Accademia d’arte di strada e la formazione dei formatori
A queste esperienze hanno partecipato centinaia di ragazzi di strada. Oggi il progetto si è trasformato nella “Accademia d’Arte di Strada“ e il testimone passa ad alcuni di loro e a valorizzare un gruppo di attori-formatori, operatori sociali e comunitari. Il processo dedica particolare attenzione alla formazione dei formatori e ha come obiettivo (come in tutti gli altri settori in cui è impegnata questa ONG) l’emancipazione dalla dipendenza internazionale, pur avvalendosi tuttora della guida e delle collaborazioni soprattutto italiane (la direzione artistica della Scuola di Teatro di Strada è affidata a Marco Baliani, Letizia Quintavalla e Maria Maglietta) e auspicando per il futuro ampi confronti.
Il teatro di strada si rivolge e coinvolge appieno la comunità, parlando di problemi e tematiche che la riguardano con la leggerezza e la magia del teatro, in modo agile, veloce, intelligente, ironico e allo stesso tempo attuabile con pochissimi mezzi… un teatro di strada composto di brevi blitz, scene corte e veloci che sviluppano un tema, sociale, politico, umano, costruendo la cornice dello spettacolo con pochi strumenti scenici, in modo da poter essere rappresentato nei luoghi pubblici, nei mercati, nelle scuole. Il Teatro di Strada, nella sua apparente semplicità di esecuzione, che permette di fatto il coinvolgimento di tanti ragazzi e ragazze, richiede però specifici saperi, tecniche sceniche, capacità di costruzione manuale, uso del corpo e della comicità.
Un laboratorio di organizzazione teatrale
Nel mese di agosto ho collaborato a questo percorso con un laboratorio a Dagoretti, il sobborgo di Nairobi dove opera Amref. Quando sono partita, ero preoccupata per quello che andavo a fare: un workshop sull’organizzazione di eventi e sulle modalità di collaborazione internazionale nel campo delle performing arts, e una ricognizione dell’attività di spettacolo a livello locale. Ne avevamo parlato a fondo a Milano, alla Scuola “Paolo Grassi”, e via e-mail con Letizia Quintavalla, Renata Torrente di Amref, Rosemary Kamanu e Patricia Kwamboka di Children in Need e Alessandra Belledi del Teatro delle Briciole: ma un laboratorio di organizzazione teatrale sarebbe stato davvero utile? E come potevo farlo, senza conoscere a fondo il contesto? Ma poi la prospettiva di partecipare al nuovo corso di un progetto così ricco di valore e di senso mi è sembrata un’opportunità irrinunciabile.
Questo il programma di partenza.
TITOLO: Come ideare e progettare un evento nel campo delle performing arts a livello internazionale.
OBIETTIVI: creare le basi informative e metodologiche, iniziare a concepire e progettare.
ARTICOLAZIONE: un ciclo di una decina di incontri fra lezioni frontali (con video e altri supporti), e discussioni.
I principali TEMI: definizioni e diverse tipologie di evento con particolare riferimento ai festival; le principali forme di collaborazione: coproduzioni, network, distribuzione, formazione, compagnie multinazionali; elementi di progettazione; analisi del contesto; simulazione di progetti.
Le DISCUSSIONI: i bisogni, gli obiettivi, I possibili progetti, le modalità di collaborazione, verso un piano di lavoro per il futuro. Si prevedeva inoltre l’avvio di un lavoro parallelo di mappatura e analisi del sistema di spettacolo a livello nazionale e locale (città, quartiere e dintorni), delle politiche pubbliche per il settore e degli interventi privati.
Il primo impatto con il Kenya…
Per sciogliere i miei dubbi, l’attrazione per l’Africa ha fatto la sua parte (naturalmente) e l’arrivo ha dato al viaggio il sapore di una piccola avventura. Proprio quel giorno un incendio all’aeroporto di Nairobi poco prima dell’atterraggio (mentre già il display mostrava la meta) ci costringe ad atterrare a Mombasa. E’ un disastroso e incredibile incendio, quasi certamente doloso, ma senza ombre di terrorismo: anche se pensare al terrorismo è inevitabile, soprattutto per i kenioti, il ricordo dell’attentato all’Ambasciata statunitense del 1998 è ancora fresco. Se fosse successo oggi, dopo i gravi fatti del Westgate Shopping Mall, probabilmente le reazioni sull’aereo sarebbero state più nervose.
E’ opportuno ricordare che le elezioni della primavera 2013 hanno portato alla presidenza Uhuru Kenyatta figlio di Jomo Kenyatta, il padre della patria e primo presidente del paese dopo l’indipendenza nel 1963: più che una scelta “dinastica”, un segno di continuità nel cinquantesimo anniversario dell’indipendenza (per cui si prevedono manifestazioni e celebrazioni: e non mancano le prevedibili polemiche in proposito). Nel 2010 è stata approvata la nuova costituzione: in agosto avrei potuto scrivere – citando guide turistiche e pagine web – che il Kenya è uno dei paesi africani dalla democrazia più solida, stabile e tranquillo. Oggi, dopo l’attacco al mall che ha portato all’evidenza del mondo la situazione complessa dell’Africa orientale, non possiamo ignorare che questo paradiso turistico confina con la polveriera somala.
Ma in questo 7 agosto 2013, anche se i primi annunci sono vaghi, le reazioni sono molto composte. Un passeggero inglese che ha l’aria di conoscere il posto mi dice che non bisogna avere fretta, i kenioti se la prendono con calma ma sono efficienti. In effetti due jumbo sono atterrati contemporaneamente alle 7 del mattino, uno da Amsterdam, l’altro da Dubai, e ci sono circa 800 persone da registrare, visti da fare, e poi bisogna portare tutti in qualche modo a Nairobi (a 500 chilometri, e il tutto in un piccolo aeroporto. Alla fine, verso mezzogiorno, si parte con una serie di bus piuttosto malandati: ci preannunciano 5 ore di viaggio (per non spaventarci, o forse per una diversa concezione del tempo), alla fine saranno 11. Ma la strada trafficatissima costeggia un parco nazionale, si intravede un piccolo gruppo di elefanti, qualche babbuino che osserva come un vecchio annoiato, savana e bush, una zona collinare attraente, venditori di banane e noccioline alle soste e una piccola comunità internazionale chiusa nel bus come nella diligenza di Ombre rosse: l’autista simpatico mentitore, la ragazza americana sola, la giovane coppia giapponese spaesata, la famiglia inglese progressista che educa i figli adolescenti alle opportunità dell’imprevisto, un italiano misterioso che arriva dall’Afghanistan, dalla professione non identificata, infine molti che tornano a casa da chi sa dove, ricchi di bagagli, pazienti e cortesi.
L’imprevisto è stato una faticaccia (l’intero viaggio è durato 36 ore) e il primo incontro del laboratorio è saltato, ma ho imparato qualcosa sulle diverse idee del tempo, sulla pazienza e sulla gentilezza della gente (e anche ad apprezzare le banane).
…con Nairobi e con Dagoretti
Fa quasi freddo, la sera, e al mattino presto è da giacca. E’ il periodo secco e siamo all’equatore, ma è inverno e siamo a oltre i 1600 metri d’altezza. Fa buio presto e la vita ricomincia di primo mattino.
Dormo in una foresteria di Amref. La cura Elisabeth, che è anche un’ottima cuoca: la sera si mangia lì, di giorno alla mensa del centro. La cucina risente dell’influenza indiana: è nutriente e – quella di tutti i giorni – ricca di legumi e verdure. Il ristorante più famoso, che si visita come un monumento imperdibile, si chiama Carnivore: lì si possono assaggiare lo struzzo e il coccodrillo (c’è in realtà molta cura qui nella protezione degli animali, limitatamente alle specie rare, ma queste due abbondano). E’ il mio primo soggiorno in un compound, recintato e sorvegliato (anche il Centro Amref lo è).
Alla sicurezza si dedica grande attenzione. Nairobi ha fama di città a criminalità diffusa, meglio osservare qualche precauzione anche spostandosi di giorno. Tutti sconsigliano di girare la sera.
La mattina finalmente al lavoro. Il bus di Amref è guidato dal sempre sorridente Jeoffrey, ci vuole un’ora per raggiungere Dagoretti e il Centro Children in Need. La città – 3 milioni e 200.000 abitanti censiti – è grande e il traffico delle ore di punta molto intenso. I bus di linea sono numerosi e frequenti, ma non penetrano nei quartieri. La gente cammina, cammina in continuazione.
Dagoretti occupa un’area molto vasta, collinare, in una periferia molto povera, fra i centri commerciali che circondano il centro e le ville del sobborgo verde e lussureggiante di Karen (da Karen Blixen, che qui aveva la sua tenuta, quella della Mia Africa). Può essere definito uno slum per l’aspetto, i materiali utilizzati, la precarietà, ma è diverso da concentrazioni più vistosamente degradate come Kibera, un serpente di baracche ai bordi della città, che ospita da un quarto a un terzo della popolazione cittadina, con una concentrazione di 300.000 abitanti per km2 (e un wc ogni 100 abitanti): caratteristiche che ne fanno la meta di visite guidate, a 20 € circa.
Dagoretti è una specie di slum rurale. Le baracche sono baracche, ma sono meno serrate una all’altra, spesso circondate da piccoli giardini. La differenza è legata alla proprietà della terra, un nodo complesso e centrale nella storia del paese (il concetto di proprietà individuale è importato dal colonialismo), all’origine dell’attuale degrado e determinante per il futuro. A Kibera le baracche sorgono su suolo pubblico, vengono subaffittate, vendute, ma dopo un certo numero di anni vengono abbattute e altre le sostituiscono, Kibera è un luogo di transito.
A Dagoretti invece esiste una proprietà diffusa: gli agglomerati sono più distanti fra loro, separati da aree verdi coltivate, con piante di banano e avocado, orti. E’ un posto poverissimo e degradato, ma si vede che può essere un bel posto, un posto cui ci si può affezionare, su cui si può investire: e chi ci vive e lavora ci si è affezionato: fa la differenza, credo sia più difficile sentirsi bene a Kibera.
A Dagoretti (come a Kibera) ci sono baracche-casa e baracche-bottega con insegne dipinte e coloratissime (alcune indicano improbabili “hotel”). Le chiese sono molto numerose, di diverse confessioni protestanti, che spesso – quasi sempre – non ho identificato. Qui, dicono, la religione è uno dei business locali: la gente è moto religiosa e basta avere carisma e un po’ di terreno, per metter su una chiesa. Sono numerose anche le scuole: legate alle stesse chiese, più qualche scuola pubblica e i college privati, spesso lussuosi (verso Karen e verso il centro). Diversi mercati, di cui uno molto grande e affollato, segnano il limite del quartiere. Le arterie principali sono asfaltate, ma la maggior parte delle strade sono sterrate. E ovunque bambini, tantissimi bambini. E tantissimi giovani.
Una bella classe
Children in Need ha da poco una sede nuova, con aule grandi e piccole, una sala teatro, laboratori, cucina e mensa, spazi all’aperto. Quando arrivano al mattino presto, i bambini passano prima al vecchio Centro, non lontano, dove si lavano, si cambiano, fanno colazione: sovrintendono a turno gli stessi educatori. La sede vecchia si trova in un complesso di edifici e spazi centrali del quartiere, una scuola, strutture sanitarie, e un grande campo comunale per giochi ed eventi. C’è anche un piccolo laboratorio tessile con negozio annesso che raccoglie commesse e fornisce occupazione a un gruppo di donne della comunità.
Lavati e sazi, i bambini raggiungono il nuovo centro, studiano e svolgono le loro attività nel campo del teatro, della musica, del video.
E finalmente ecco la mia classe, 11 studenti. Come per gli altri percorsi, “L’Accademia Teatrale di Strada, comporta un programma di formazione rivolto al personale locale già strutturato e a quello volontario: operatori sociali e operatori comunitari”.
Fra il personale strutturato c’è Rosmary Kamanu, l’appassionata e autorevole responsabile del Centro (di formazione economica e gestionale). Patricia Kwamboka, antropologa, coordina con convinzione e competenza l’Accademia e ha già seguito le diverse tournée italiane. Luigi Bottura, di lunga frequentazione africana, è l’unico italiano, cooperante inviato del Ministero egli Affari Esteri per seguire le attività, e la loro corretta implementazione. Poi ci sono gli educatori-attori di maggiore esperienza: Nic (preparato, solare e carismatico) e Sam (anche musicista, curioso e aperto: sarà lui a rompere il ghiaccio). Peter (“il grande”) e Isabel sono due educatori dalle forti competenze sociali e molto concreti. Carol è un’assistente sociale felice di uscire un po’ dal suo specifico. Poi i più giovani, che arrivano dai percorsi teatrali degli ultimi anni: Evans, determinato e acuto nel cogliere i problemi organizzativi, e Peter (“il piccolo”), convincente portavoce della sua generazione. Infine John, che arriva da un altro centro, indipendente, a Thicka (una trentina di chilometri da Nairobi) e trasmette senso di responsabilità e il desiderio di apprendere. Un sabato andremo tutti a Thicka, per partecipare a una festa per bambini e famiglie presso il suo centro, con gare, piccoli spettacoli (incluse le divertenti scenette comiche montate a Dagoretti) e altre attrazioni.
Per tutti è chiaro che lo scopo non è tanto l’acquisizione di competenze artistiche “professionali”, quanto “la capacità di utilizzare il linguaggio artistico come una risorsa fondamentale per la salute, la riabilitazione, l’educazione e l’empowerment dei bambini di Dagoretti”.
Questo vale anche per il nostro percorso di organizzazione. I bambini sono il principio e il fine. Alcuni di loro sono stati bambini fino a poco tempo fa, è un mondo che tutti loro conoscono molto bene. E intorno ai bambini, la comunità, importante come acqua per i pesci: educatori e operatori lo conoscono a fondo, sono legati al complesso e articolato microcosmo di Dagoretti.
Intorno, altri educatori e ragazzi più giovani (e volontari) che frequentano il laboratorio condotto da Alberto Grilli sulle tecniche di teatro di strada (che si concluderà in una parata che purtroppo ho perso), e gli incontri con le educatrici di Reggio Children sul metodo di documentazione e restituzione degli input dei ragazzi. Tutti i venerdì, nella sala teatro, si ricapitola il lavoro svolto, tutti assieme e con tutti i bambini, alle nuove dimostrazioni si affiancano le scene “di repertorio”: sono sketch comici, situazioni tipiche e divertenti, con mariti ubriachi, mogli autoritarie, vecchi malfermi, ingenui o imbroglioni (con l’accompagnamento del gruppo musicale o delle percussioni – che non mancano mai – ci sarebbe già materiale per un significativo ”cabaret africano”!)
Si comincia
Ci mettiamo qualche ora a intenderci. La “materia” è ostica, non so se riesco a farmi seguire, ma quando cominciamo a interagire mi accorgo quanto sono curiosi e concreti. L’essenziale è stato colto e interpretato, il corso decolla. La scaletta si adatterà giorno per giorno, si verbalizza a turno. Ecco i punti principali, in una sintesi degli appunti e secondo il punto di vista di Patricia (che ringrazio).
E’ necessario conoscere meglio e familiarizzare con le politiche del Kenya in materia culturale (con riferimento anche alla nuova Costituzione).
Individuare e coinvolgere attivamente nei nostri progetti la pubblica amministrazione, Stato e Comune (tanto a livello della Cultura che dei Servizi Sociali) e altre organizzazioni e istituzioni che sostengono la promozione di attività culturali nel paese, sia pubbliche che private.
Identificare gli eventi e le organizzazioni culturali con cui potrebbe essere interessante collaborare o cui siamo in grado di partecipare a livello locale e internazionale.
Tipi di eventi e forme di collaborazione analizzate: 1. festival, 2. co-produzioni, 3. reti culturali, 4. distribuzione (tournée), 5. residenze, 6. progetti di formazione (formazione permanente).
Ci si sofferma sull’organizzazione di un festival. Si parla di Festival intensivi, festival metropolitani, show cases e del modello Fringe.
Si affrontano le diverse tappe dell’organizzazione di un evento, le aree operative per l’organizzazione di un festival, gli aspetti economici.
Pensavo che il “fringe” sarebbe stato un modello fra gli altri, ma grazie anche a un video efficace da Edimburgo, scatena l’interesse di tutti. Evidentemente – qui come in Italia – l’idea di una partecipazione libera è considerata positiva per emergere, democratica, socialmente efficace.
Nella fase finale del laboratorio chiedo di proporre l’iniziativa, l’evento ideale che ciascuno vorrebbe organizzare. Le domande che abbiamo messo a fuoco (ancora dagli appunti di Patrizia):
Why should we have an International event to promote our activities?
For networking with the arts sector, sponsors and donors.
To show case the talents of children living and working on the streets.
To share our experiences of using theatre for rehabilitation and development: the link between arts and social.
Create opportunities for young talent to be discovered.
Highlight children’s issues.
Fund raising for the project.What kind of an event?
Develop a festival using the fringe model targeting theatre groups, companies’ schools and children projects.Activities
Performance and cultural activities.
Workshops to share experiences.
Residencies.
Exhibitions – Video, photos etc.
Role models – successful people who were once on the street.
Tours of the city-Theme: Generation WHY.
Steps to realize our festival?
Identify organizations and institutions that may be interested.
Conduct a feasibility study.
Develop a concept for our festival.
Prepare for our festival – develop networks and linkages; resource mobilization.
Execute our event.
Evaluate.
Follow-up on linkages that have been developed to further strengthen the work of using theatre for rehabilitation.What should we do?
Prepare a production.
Documentation – develop videos and books; training manuals and scripts; photo exhibition.What would I like to do?
Arrivano tutti preparatissimi, ma l’esito mi sorprende: mi era sembrato che la curiosità e il desiderio di relazioni internazionali prevalesse, invece tutti hanno a cuore soprattutto la necessità di valorizzare l’esperienza locale (artistica e sociale) e la comunità (forse, in futuro, anche in chiave internazionale) e adattano la forma del festival alle loro visioni, con sfumature molto diverse.
Ecco le idee emerse (già progetti in alcuni casi), sempre dagli appunti di Patricia.
Ideas coming from the group
A Fringe festival focused on demystification of culture with a component on the digital age (Carol).
Organize a series of activities over a period of time – which will include: lobbying and advocacy; networking; talent development ; link to World Street Children’s Day (Sam).
Festival with a co-production with street children – use dance, music, acting, graphic arts. As a way to popularize the centre and network. Focus on the most important issue affecting the children and advocate for positive approaches to working with children. Involve other disadvantaged children, community and stakeholders. Being on the street is a not a destiny (Peter Kihika with inputs form John Karenge).
Cultural exchange program (National festival and training programme for a week): for sharing skills and experiences; offering trainings and opportunities for talent development. Targeting other organizations from other counties in Kenya. Involve children with disabilities. Ensure that there is live TV coverage to reach more people in terms of raising awareness. Favors a co-production for a final event (Evans Oluoch).
Mini-Expo in Dagoretti or in the City for 3 days – show case success stories (young people who have excelled despite the disadvantages) – Photo exhibition and documentaries; a platform for performing arts: exhibitions by institutions such as banks, micro-finance, business people and career counselors to provide information to young people. Small completion and awards. The event is not just connected to the arts. Will there be international involvement? Who will be at the expo? Donors, individuals and organizations that have supported the project in the past; prospective donors and supporters. Arts, fashion and micro-finance (Isabel).
Kenyan competitive Festival – to promote culture, street children talent identification and development, marketing for the organization, completion and rewarding of the winner. A competition to identify talent. To be used for advocacy; a celebration of achievements. How long? And which way will we consider the participation of international groups? National as a first step; with possible international involvement (Peter Kamau).
Metropolitan Fringe festival for 2 weeks: residencies for 1 week and 2nd week workshops for teachers on art education for 3 days: 2 days an urban festival in city centre to show case the productions. Targeting children in non-formal schools, street children organizations and public schools. Audience is the public. Will enhance interaction between children who are on the streets and those in schools. Exhibitions by corporate to inform people what they do; commercial activities specifically for organizations working with vulnerable children. Involvement of international partners performing on the main stage (Nick).
Fringe festival. Emphasize international involvement: promote the link between arts and the social (Patricia).
An International African festival: for one week; targeting African productions and organizations; many performances in different spaces. It may have guests from Europe. Focus on children and their problems. Involve cultural institutes and have performances and workshops (Luigi).
Ancora Patricia, più in dettaglio:
The Nairobi Fringe Festival. A 3 days festival show casing children’s theatre – particularly those that miss out being selected for the National Schools festivals; also involve productions from organizations that work with disadvantaged children in Kenya. Invite Projecto Axe from Bahia Brazil for a residency to develop co-produced performances during the festival. Invite Teatro delle Briciole for a residency.
Mi sembra un ottimo risultato. Hanno tutti portato una propria idea – e tutte diverse – ma sono anche un po’ delusa. Potrebbe volare più alto? O sono io che tendo a pensare in modo ”sradicato” e in fondo meno concreto e efficace? Il brain storming prosegue: la discussione porta a punti di convergenza fra le posizioni, e anche fra il livello locale e le prospettive di incontro internazionale. Un punto fermo e condiviso: qualunque iniziativa deve integrare il livello artistico (che è una dimensione fondamentale dell’Accademia e dell’esperienza di Children in Need) e quello sociale, la pratica con i ragazzi di strada e la necessità di migliorare le loro condizioni di vita (anche) attraverso il teatro e l’arte. Si identificano possibili collaborazioni locali e internazionali, sbocchi e obiettivi (incluso l’Expo di Milano, naturalmente, cui il Kenya ha aderito), e si affrontano i problemi economici.
Emerge la necessità di confrontare le idee con il percorso e i progetti artistici del Centro, e quindi di capirli meglio e di discuterne di nuovo tutti assieme e con Letizia Quintavalla, che è arrivata a Nairobi, e in prospettiva di confrontare le idee con le politiche e gli obiettivi di Amref e anche con le risorse che l’organizzazione potrà investire e quelle che dovranno essere reperite (e come: saranno le sedi centrali o gli operatori di di Dagoretti a occuparsene?).
Rispetto al progetto artistico rimando a futuri approfondimenti che www.atearo.org potrà ospitare.
Le ultime discussioni prefigurano un possibile piano di lavoro:
# nel 2014 si potrebbe organizzare a Dagoretti – ed eventualmente in altri quartieri e sedi – un festival locale, breve che valorizzi anche altre organizzazioni, e soprattutto un momento di dimostrazione dei metodi di lavoro e degli esiti e di discussione, invitando un numero selezionato di ospiti internazionali;
# per il 2015 si lavorerà per organizzare selezionate presenze e in futuro, chi sa, un festival internazionale;
# nel frattempo un gruppo di lavoro dovrà specializzarsi sugli aspetti organizzativi: individuare e mantenere i contatti con enti e organizzazioni con cui collaborare a livello locale (governo, teatri, università – sta aprendo un nuovo corso di performing arts – e colleges, ma anche istituti internazionali, con cui già esistono collaborazioni, organismi europei, ONU-Unesco), e internazionali, a cominciare dall’Africa (si pensi al festival di Diol Kadd in Senegal), da un consolidamento dei contatti italiani (con la guida di Fondazione Solares Teatro delle Briciole a Parma, che ha sempre sostenuto il progetto, con la Paolo Grassi) e di quelli con il Brasile (dove esistono contesti e esperienze simili). Altri paesi privilegiati saranno quelli di lingua inglese e dove esistono sedi Amref (che potranno forse supportare iniziative).
Scrive ancora Patricia:
Questo laboratorio mi ha insegnato a pensare in modo critico come promuovere le nostre attività teatrali. Mi ha stimolato a pensare a reti locali, regionali e internazionali, fondazioni, festival e compagnie teatrali e a come ci si può collegare con loro.
Io ho imparato che alcune conoscenze tecniche (che si sono formate in sistemi e ambienti precisi), possono stimolare percorsi nuovi in contesti diversi.
Lo spettacolo a Nairobi
Fra gli obiettivi della permanenza a Nairobi uno era conoscere – nella misura possibile in un tempo ristretto – l’attività di spettacolo in città. Con riserva di approfondire, ho raccolto qualche informazione, in qualche caso verificata di persona.
Il gruppo del laboratorio continuerà a lavorarci. In particolare Nic (il più informato) e Evans dovrebbero in prospettiva comporre una mappa (anche dei festival nazionali), e Rosemary coltiverà alcuni contatti.
Se possiamo parlare di “sistema” dello spettacolo, è di certo diverso da quelli italiani ed europei. Meno strutturato e con pochi spazi per il teatro di prosa propriamente detto, che non appartiene alla tradizione nazionale ed è influenzato da gusti e modalità anglosassoni. Questo non vuol dire che non esistano compagnie teatrali e produttori (anche sovranazionali, che spesso operano in diversi paesi africani, anche con un occhio al business) e gruppi con aspirazioni professionali e grandi problemi economici e di spazi.
Esiste un’attività diffusa con musica e piccoli spettacoli in diversi locali, a carattere occasionale. E’ capillare anche l’attività di spettacolo di rilevanza sociale nei quartieri (bambini, disabili, donne), appoggiata a ONG o altre organizzazioni di quartiere.
In molti college privati si studia e si rappresenta teatro, e c’è anche un festival del teatro nei college, che quest’anno però non si è fatto. Sono scuole dai costi di accesso spesso molto alti, ma – come per il corso che sta nascendo all’università – comportano la presenza di docenti qualificati, e potrebbero portare a collaborazioni in prospettiva con Children in need.
Il complesso del Teatro Nazionale, che è il teatro principale di Nairobi e che potremmo definire un centro culturale polivalente, ospita anche il conservatorio, è situato nel centro della città, vicino all’Università ed è un teatro di ospitalità. Non produce, e non presenta un cartellone strutturato. La sala, di circa 500 posti, è affittata per spettacoli e manifestazioni di tutti i tipi, che si promuovono autonomamente e singolarmente, o, a volte, per piccole rassegne e festival (come per esempio quello del teatro di figura). C’è di tutto e non mancano le proposte qualificate, organizzate da privati, spesso con la collaborazione degli istituti stranieri di cultura (o dagli stessi istituti).
Incontro il direttore assieme a Rosemary Kamanu: c’è un problema di risorse, la struttura si autofinanzia (non riceve alcun contributo pur dipendendo dallo Stato), ed è inevitabile fare attività e mantenersi affittando la sala. Ma è una fase di evoluzione e si spera che il nuovo governo cambi qualcosa: si potrebbero accogliere produzioni in residenza e altro. Il teatro è un po’ malandato e male attrezzato: apprendo da una lapide che le apparecchiature elettriche sono state donate dal governo giapponese parecchie decine di anni fa. Altre lapidi danno informazioni curiose. Per esempio: si segnala per importanza la compagnia stabile delle ferrovie, che era diretta da un lord inglese appassionato di teatro (la città in effetti è nata nel 1898 per la costruzione e come nodo della ferrovia che da Mumbasa arrivava – e arriva – in Uganda). Si ricordano alcuni grandi attori e un critico: segni che fanno pensare a una presenza maggiore del teatro di prosa nel corso del secolo scorso, nel periodo coloniale, ma anche nei primi anni dell’indipendenza.
Al Teatro Nazionale ho assistito, una domenica pomeriggio a un adattamento di Birthday suite, una commedia di Robin Hawdon, attore e autore brillante inglese fra i più popolari e rappresentati al mondo. Lo spettacolo era nel quadro del “Festival of Creative arts” (una rassegna non intensiva sostenuta dall’Alliance Française), con attori professionisti locali: una commedia degli equivoci (un involontario scambio di coppie) piuttosto divertente, disimpegnata, di ambientazione urbana, africana e borghese. Il pubblico: ceto medio, non troppo giovane. Il biglietto costava l’equivalente di 8 €.
Gli istituti di cultura stranieri sono le organizzazioni più attive nel settore culturale e dello spettacolo, soprattutto l’Alliance Française (che ha anche una propria sala, dove ha fra l’altro debuttato Malkia) e il Goethe Institut, meno il British (che privilegia altre aree di intervento) e anche l’Istituto Italiano di Cultura (che fa quello che può con pochissime risorse, probabilmente, ma anche con criteri di scelta di difficile lettura, almeno a giudicare dal sito).
Una presenza a dir poco invasiva in città è Safari, grande compagnia telefonica e non solo. Il marchio è onnipresente. Safari sponsorizza molti eventi e ha anche una sala di spettacolo, per quanto non troppo attrezzata tecnicamente, in una delle due Safari Tower. Sono capitata – per l’equivalente di 15 € – in una serata di rilevanza quasi mondana, con pubblico locale e internazionale, riunito per una rappresentazione impegnata: “When the rainbow is enuf”, dell’autrice afro americana Ntozake Shange e del suo collettivo “Per donne di colore che hanno considerato il suicidio”. Cinque attrici e musica dal vivo, personaggi molto diversi per condizione e estrazione sociale in una sequenza di monologhi sulla condizione femminile. La produzione, The Arts Canvas, ha come missione “esplorare e documentare l’intersezione di razza, cultura, storia e arte nel mondo moderno”.
Pubblico decisamente borghese: molti segni in città (i numerosissimi centri commerciali, il target degli immensi cartelloni pubblicitari, le auto e il traffico), evidenziano la presenza e l’affermazione progressiva di una nuova classe media. Un dato positivo per il futuro del paese, non so con quali effetti sul piano del gusto e dei consumi culturali.
Un centro di concezione innovativa e di aspetto europeo (quasi uno scorcio di Berlino nel quartiere industriale) è invece il Go Down Arts Centre: uno spazio industriale ridestinato (più che riadattato) all’arte contemporanea, e assieme un’istituzione riconosciuta, che ha come missione il sostegno e l’incontro di artisti di diverse discipline. Ospita studi di artisti visivi (nel giorno feriale in cui l’ho visitato erano in corso lezioni, inaugurazioni e c’era un discreto movimento, soprattutto di giovani; la qualità mi è sembrata alta), sale di spettacolo e un centro per la ricerca e la produzione di danza contemporanea. Residenze, laboratori, festival, conferenze: il centro è molto attivo e decisamente interdisciplinare.
Mi mostrano gli spazi dedicati alla danza: il gruppo residente è stato spesso in Europa, anche in Italia, a Palermo, ma in questo momento lavora soprattutto con i disabili. So che ci si aspetta molto dalla danza africana, dalla capacità di conciliare tradizione, modernità, impegno sociale, dalla potenzialità espressiva dei corpi, non riesco a vedere nessuno spettacolo, ma la motivazione e la passione sono davvero convincenti.
Dalla nuova danza alla tradizione: il BOMA centre valorizza e protegge il patrimonio culturale nazionale, anche immateriale. Un grande anfiteatro presenta quotidianamente la tradizione (musica, danza, cerimonie) delle diverse tribù. Presso il centro sono stati ricostruiti una serie di villaggi, secondo le specificità delle diverse comunità. Le tecniche costruttive delle capanne sono ingegnose, i materiali sono legno e paglia, o legno, terra e paglia, due pareti parallele creano un’intercapedine per mantenere bassa la temperatura e depositare materiali. E interessante è la disposizione dei villaggi: regole “urbanistiche” rigorose che mostrano i ruoli sociali con grande efficacia. La posizione centrale è riservata alla capanna del capo, segue quella della donna anziana (grand mother), poi la prima moglie, e a seguire la seconda, la terza, il figlio non sposato, i ragazzi, gli ospiti…. A ogni moglie corrisponde un piccolo granaio. E’ domenica: vedo che le famiglie in visita vanno a cercare e osservano con molta attenzione i villaggi della loro tribù d’origine. Le tribù in Kenya sono molto importanti e – anche se convivono pacificamente – ciascuno rivendica la propria appartenenza. Sono inoltre noti i collegamenti fra le tribù e le diverse forze politiche o singole personalità. Le origini, il villaggio contano molto: si mantengono i legami, ci si torna spesso, là ci sono gli antenati.
Nell’anfiteatro del centro assisto a una sequenza di danze delle diverse tribù, alternate dalle esibizioni di un gruppo acrobatico. Le danze sono curate, molto ben eseguite e spettacolari. Peccato che le introduzioni siano piatte, un po’ banali e registrate, e che la luce fissa diffusa e bassa non valorizzi la varietà dei colori e dei costumi e i movimenti. Incontro, anche in questo caso assieme a Rosemary, il responsabile dell’iformazione: il centro è statale, dipende dal ministero del turismo e il 30 % delle sue entrate deriva dalla vendite dei biglietti. Ci lavorano stabilmente 60 danzatori e musicisti provenienti da tutti gli angoli del paese e dalle diverse tribù, alloggiano in una foresteria.
Boma dispone di una ricca e pregiata collezione di maschere e costumi originali, che non è possibile visitare perché tutti gli elementi sono in uso negli spettacoli. In compenso alcuni pezzi andranno a comporre un’installazione o l’arredo del padiglione keniota all’Expo di Milano: a Boma è già stato affidato dal governo questo compito, e non mancheranno le esibizioni di danza. Le danze tradizionali non costituiscono un capitolo del passato o una pura curiosità antropologica: sono un patrimonio vivo per molti, anche giovani. La forte caratterizzazione turistica dell’attività di Boma nulla toglie alla sua missione, che è preservare e diffondere (anche, o soprattutto a livello locale) queste tradizioni.
Nello spettacolo che ho visto (una delle diverse possibili combinazioni), dominano le danze e i colori masai, ma tutte le tribù sono rappresentate. I costumi femminili sono coloratissimi e abbastanza castigati, diversi per le diverse tribù, anche se di solito con le spalle scoperte e in un paio di casi corrispondono all’immagine “coloniale” della donna africana, con il classico gonnellino di paglia corto. Mi sorprende il gusto per i colori e per l’abbinamento dei colori, lo stesso che caratterizza anche la produzione artigianale attuale: turchese, rosso, verde…
Fra le diverse danze, evocatrici di riti di iniziazione e di passaggio, o riti nuziali, mi è rimasta impressa una danza scatenata solo maschile (un gruppo di nove danzatori), della tribù Luhya, con tamburi lunghi più di un metro e con un diametro di 25/30 cm (decisamente fallici), battuti in un crescendo orgasmico. E quella che più ricordava i nostri balli sociali, a coppia (dei Kikuyu, che sono Bantu, e costituiscono la più numerosa comunità del Kenya). Quelli degli acrobati sono puri pezzi di bravura, a volte con l’uso del fuoco. Da segnalare anche un paio di intermezzi teatrali, scenette di villaggio: il vecchio, l’ubriaco, il figlio succube, la giovane moglie forte e salda sulle gambe: alla fine si porterà via in braccio il vecchio e il giovane assieme.
Safari e crateri
Praticamente di fronte al Boma si trova l’ingresso del parco nazionale. Se ci andate molto presto al mattino, potreste imbattervi in un famiglia di leoni, con i grattacieli della città all’orizzonte.
In kiswahili safari vuol dire viaggio. Se da Nairobi proseguite verso la Rift Valley, a 60 chlilometri dalla città, farete un viaggio a ritroso nel tempo. E’ là che tutto ha avuto inizio.
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