#BP2013 @ValoreCultura Gerontocrati ingessati e giovani irregolari

La necessità del ricambio

Pubblicato il 30/10/2013 / di / ateatro n. #BP2013_ValoreCultura , 145

Quando, nel 2011, Thomas Ostermeier ritirò il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, volle dedicare il riconoscimento ai “lavoratori e lavoratrici del Teatro Valle Occupato”. Molti si indignarono. Da qui vorrei partire, prendendo spunto dall’occupazione, per fare un ragionamento attorno al sistema. Perché l’occupazione del Valle non è un gesto velleitario né rivoluzionario: è un sintomo di grave, diffuso, malessere. È un’azione certo illegale, che ha avuto però il merito di destare dal torpore il sonnacchioso mondo del teatro italiano. Ha suscitato acredine, e reazioni scomposte, ma questo caso è eclatante: le nuove generazioni sono fuori, sono un mondo parcheggiato nella eterna formazione, nella frustrazione della marginalità.
Dunque, una considerazione in tre tappe.
La prima: il resto del mondo.
L’80% del teatro italiano è irregolare. È un altro mondo, fuori dal mondo, costretto a muoversi fuori dal sistema, irregolare per impossibilità di rispettare le norme.
La realtà del Valle – come altre iniziative in tutta Italia – dimostra che la giostra è rotta, che il giochino del teatro, come era stato creato sessanta anni fa, non si muove più.
Possiamo fare ancora finta di nulla, attendere sereni le nuove nomine politiche per le poltrone, auspicando che vada tutto bene (come ad esempio è successo a Palermo).
Possiamo mettere pezze ancora a lungo per tamponare le parti malate.
Ma l’assenza di lavoro e di prospettive sta diventando un serio problema generazionale e culturale.

La seconda: il lavoro.
I giovani e meno giovani artisti sono stremati: stentano, effettivamente, a fare teatro.
Lo fanno occupando. O lavorando – sempre più – a titolo gratuito, addirittura pagando per lavorare, rimettendoci di tasca propria. Anche se – ecco il risvolto della medaglia – forse mai come oggi, il teatro italiano ha goduto di tanto talento registico e attorale (e il successo internazionale lo dimostra). Sono artisti che sanno di non avere previdenza, tutela, contributi, stipendi, sono costretti ad accettare contratti capestro, a lavorare in condizioni davvero disagiate.
Che altro fare? Dovrebbero smettere? No, non è questo. Sembra, anzi, che ci sia una rinnovata voglia di fare teatro, un nuovo orgoglio, una visione sempre più politica e sociale del teatro, considerato l’ultimo baluardo della democrazia reale. A fronte di un Trust, di un gruppo che controlla e vizia il mercato, rendendolo da ipoteticamente “libero” a concordato, a fronte di quel monopolio di poche strutture (che agiscono con scambi, autoproduzioni, supervalutazioni, spese folli) c’è un mondo di piccole e piccolissime imprese, di ditte individuali, di veri e propri “stagionali” della cultura e dello spettacolo.
E c’è tanta gente che fatica, ogni giorno, per rispettare le regole imposte dall’estro del momento, dalla fantasia del politico o del dirigente di turno.
E però quelle stesse persone, quegli uomini e quelle donne di cultura, sono carne da macello: sistematicamente escluse da un sistema impermeabile.

Terza tappa: il sistema gerontofilo e ingessato.
Non c’è ricambio né generazionale né artistico nel teatro pubblico, a tutti i livelli (dalla stabilità pubblica a quella privata, a quella di innovazione – i teatri stabili di innovazione sono imprese familiari – al teatro ragazzi). Nel teatro, come nella politica, o in tanti altri settori di questo Paese, ci troviamo di fronte a una generazione di “padri” che non vuole rinunciare, non vuole guardare al naturale tramonto e non accenna ad abbandonare la scena, rinnegando ogni passaggio di testimone. E dunque cosa ha fatto la generazione precedente? Perché non ha dato spazio, perché non ha ascoltato la nuova, se non per misere e minime concessioni? Se ci fosse stato un sano passaggio di testimone tra generazioni, ci sarebbe stato il caso Valle?

Lo scorso anno, a maggio, dopo aver ascoltato una trasmissione su Radio3 dedicata alla gerontofilia italiana, avevo fatto un po’ di conti, guardando alla situazione del teatro pubblico. Ne era venuto fuori un quadro sconfortante, che posso riprendere: poco è cambiato, nonostante le «febbre da rottamazione». L’età, la questione brutalmente anagrafica, non mente:
basta fare una carrellata, da Sud a Nord, per vedere come le redini dei maggiori teatri siano saldamente in mano ad over 50.
Non solo l’età, ma la durata dei mandati rende questi direttori davvero “inamovibili”, ormai anche un Papa si è dimesso, ma in Italia ci sono direttori in carica da venticinque, trenta anni
Si sa: ci sono nonni giovanissimi e giovani vecchissimi. Ma pensi che felice terremoto sarebbe, che bel brivido, se quei grandi teatri venissero dati a trentaquarantenni, come avviene in tutta Europa, come fu per Ostermeier a Berlino.
Perché no?
Magari questa nuova generazione franerebbe dopo poco – è un rischio possibile di fronte a tanti e tali apparati cui non hanno mai avuto accesso. Ma forse, c’è da sperare che un’ondata di nuovi pensieri, di energie diverse, di prospettive altre possa rinfrescare non solo la facciata, ma la sostanza, la missione, l’estetica e l’etica di quelle strutture. Quel modello di teatro, è stato inventato da due trentenni. Era il 1947: allora c’era bisogno di ridare fiducia, speranza, spessore a un Paese devastato. Proprio come oggi.
In gioco non c’è solo la spinta creativa, estetica, ma una più basica, concreta, banale, voglia di esistere, di pensare da qui al futuro. Forse varrebbe la pena cominciare a restituire dignità e rispetto a chi il teatro lo fa, sera dopo sera. Per ridare anche un po’ di dignità alla cultura italiana.

Andrea_Porcheddu

2013-10-22T00:00:00




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