La politica dei corpi tra danza e teatro

Una nota (che potete non leggere) dopo aver visto a Taranto gli spettacoli di Start Up

Pubblicato il 13/10/2013 / di / ateatro n. 145

C’era una dicotomia di genere, negli spettacoli visti al Crest di Taranto per Start Up, che però rifletteva una differenza forse ancora più profonda. Da un lato spettacoli di danza (o di teatrodanza), dall’altra spettacoli che ricadevano nell’ambito della prosa. L’intreccio e la contaminazione tra i generi è senza dubbio una delle caratteristiche delle arti contemporanee, e la scelta multidisciplinare dei “Teatri abitati” pugliese è la conseguenza di una tendenza di più ampia portata, e che ha logica motivazione anche dal punto vi sta della creazione di un nuovo pubblico.
Tuttavia, vedendo gli spettacoli selezionati a Crest, questa differenza di genere sembrava riflettere una divergenza più profonda.
Da un lato gli spettacoli di danza sembravano costruiti a partire da un corpo ideale, astratto, come distaccato da precise connotazioni spaziotemporali, e al tempo stesso tendere verso questa astrazione del corpo. Certo, i loro movimenti erano animati spesso da una interiorità ricca di emozioni e sentimenti, e a volte espressiva. Tuttavia quelle coreografie davano impressione di parlare lo stesso linguaggio, regolato da un’unica grammatica dei gesti. Quei corpi erano come accomunati da una lingua comune, una koiné globalizzata parlata e compresa più o meno ovunque. Corpi in qualche misura interscambiabili – in una discorso gestuale dove la langue tende a pesare molto più della parole.
Al contrario, negli spettacoli più esplicitamente teatrali i corpi degli attori tendevano a farsi carico di una complessa stratificazione storica, sessuale, generazionale, a volte addirittura mitica, archetipica. A volte sembrava quasi che il corpo e la voce dell’attore volessero farsi carico di una intera collettività, come capita a Tindaro Granata, che in Antropolaroid si immedesima nei rappresentanti di una intera stirpe, nell’arco di tre o quattro generazioni. O come capita a Mimmo Borrelli, nella sua rivisitazione in chiave anche rituale della sua MadreL l’unico interprete è uomo, donna, madre e figli, animale e forse addirittura divinità (una divinità del degrado e della bassura).
Paradossalmente, proprio la forma del monologo (a volte rinserrato nella retorica del teatro di narrazione), porta l’attore a farsi molteplicità: non tanto per farsi portavoce di una collettività che probabilmente non esiste più, frantumata dai moderni processi sociali. Piuttosto, quasi a offrirsi nel travestimento continuo – che è anche azzeramento e negazione della propria identità – come vittima sacrificale, a bruciarsi nel rito dello spettacolo per far risorgere un sentimento e forse un ethos collettivo.

Non è un caso che, sul versante della danza, l’eccezione sia arrivata da Variazione Taranto di Virgilio Sieni, che nel suo lavoro non usa corpi di danzatori, ma “persone qualunque”: in questo caso quattro donne, “non giovani, non danzatrici, non attrici” che lasciano trasparire – a partire dalla suggestioni di un topos figurativo come la Visitazione, debitamente stilizzato – le loro specificità e la loro storia personale e sociale. Non è un caso nelle coreografie di Sieni riverberino spesso rimandi alle arti figurative (dal Rinascimento al surrealismo). Quelli dei suoi spettacoli (magari poi ricuciti dalla narratività frammentata del sogno o dei rituale) non sono mai gesti astratti, ma affondano nel vissuto, nella storia, nella geografia, nell’età, nel sesso, a volte addirittura nella professione e perfino nelle disabilità dei danzatori e dei “non danzatori” trasfigurati nella danza da Sieni.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2013-10-13T00:00:00




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