Io non volo mai, sono una che cammina

Ricordo di Franca Rame a cinquantasei anni

Pubblicato il 10/06/2013 / di / ateatro n. 144

Era il 23 marzo 1985 quando ho intervistato Franca Rame nella sua casa milanese per la mia tesi di dottorato Donne di teatro nel primo Novecento. Mi interessava la sua esperienza – pur così lontana da quel periodo storico – per la sua appartenenza a una famiglia d’arte di lunga tradizione e per il suo impegno nel femminismo: a cominciare da Tutta casa, letto e chiesa del lontano 1977.
Era la vigilia di un giorno speciale. Dario Fo compiva 59 anni, Franca stava preparando un gran lesso per il festeggiamento che si sarebbe svolto l’indomani o, forse, dopo la replica di quella sera di Quasi per caso una donna: Elisabetta al Teatro Ciak. Sono arrivata nel primo pomeriggio, subito catapultata dentro quella che, tutto sommato, era anche una giornata ordinaria. Parecchia gente in casa, lei cucinava un po’ brontolando mentre lui offriva il lesso agli ospiti pomeridiani, incurante e anzi un po’ provocatorio. Tutto avrei voluto meno assaggiare quel lesso che invece dovetti gustare sul tavolo di cucina.
C’era qualcosa da fare per il Soccorso Rosso, Franca Rame è arrivata a seguire 800 detenuti e le loro famiglie; non ricordo cosa si dovesse fare esattamente, mentre è viva la memoria di un momento intensamente teatrale. Tutti intorno al tavolino basso del salotto per verificare i tempi dello spettacolo, qualcosa non andava in alcuni punti e lei guidava la verifica, registratore alla mano: punti precisi e interventi concretissimi, questione di secondi o di parolette.
“C’era una volta un danese che non capiva una parola d’italiano”, mi racconterà, “e mentre io recitavo la Medea solfeggiava. Chiedo: ‘Ma cosa stai facendo?’, e lui: ‘Sono i tempi precisi’. Difatti io conto e se tu dovessi recitare con me ti renderesti conto che sto contando le battute, faccio i tempi, sento il mio cervello…”
Perché Franca Rame si trovava più a suo “agio in palcoscenico” che fuori, anche se mai nessuno nella sua famiglia le ha insegnato “né un tono né un gesto”, e nemmeno Dario, che in queste cose la considera “un mastino”.
Poi l’intervista, interrotta più volte, per esempio da Dario, che chiede la cassetta dei chiodi, fino all’uscita di corsa per lo spettacolo.
“Per me l’unico momento di riposo è quando vado in scena”, mi ha appena detto. Ma non è così per questa Elisabetta: “Io quando faccio Tutta casa letto e chiesa non faccio nessuna fatica, mi prendo centoventi applausi, la gente si sbellica o piange a dirotto… è finita lì. Qui devo tirare come un cane, […] ieri sera ero fradicia di sudore, con i polmoni che mi dolevano”. E poi ci sono il costume d’epoca e il trucco, cose non proprio congeniali. Questo era Franca: una vita pienissima di tante cose. Da attrice anomala certo, per la sua strabordante passione politica e per l’intensità dei suoi impegni familiari, ma da attrice.
Fu una lunga intervista (a tutt’oggi inedita) a cui lei prese gusto, essendo generosa di ricordi e di racconti, che riguardavano soprattutto la famiglia Rame, le sue disavventure sceniche di bambina a cui si chiedeva disciplina professionale, le trame di tanti drammi che hanno costituito la sua educazione sentimentale. Il teatro dei Rame, all’antica ma per tanti versi così moderno e impegnato, era partito da marionette e burattini e aveva trasferito le sue competenze in un teatro d’attori, puntando sul repertorio (capace di liberare sia il pianto sia il riso, con drammoni e farse ma anche con riduzioni da Shakespeare o dai melodrammi), sul rapporto col pubblico (costruito di paese in paese, a partire proprio dalla conoscenza del contesto e dall’attenzione al linguaggio, che fosse semplice ed emotivamente efficace) e su una consumata, dinamica struttura produttiva: i due fratelli Rame – Domenico e Tommaso – e le loro famiglie, alcuni scritturati e /o dilettanti, un teatrino smontabile di proprietà e il furgone La Balorda, l’autonomia fin nella produzione di scene e manifesti.
Il padre Domenico, oltre a essere capocomico e direttore artistico insieme al fratello Tommaso, faceva di tutto. Franca ricorda la sua intelligenza drammaturgica e imprenditoriale, le sue qualità di parlatore e l’impegno sindacale, l’allegria anche: “Uno zingaro di mentalità, un uomo straordinario”.
“Fai conto, una mattina la mia mamma si alza e trova la corriera dipinta di rosso, dice: ‘Ma come, non si sposeranno mai le nostre figlie!’. ‘Va bene, va bene, cambierò colore’. E l’indomani era verde bandiera o argento”, perché quando arrivava nei paesi tutti la dovevano vedere.
La madre, Emilia Baldini, era figlia di un ingegnere povero. Bellissima, maestra, si innamora di Domenico e lo segue. Fa quattro figli, tiene la cassa, cuce abiti di scena o aggiusta quelli acquistati (persino dalla Scala), poi comincia a recitare, sempre più: “Le prime parti le ho imparate dalla mia mamma, che me le diceva parola per parola, perché avevo quattro anni e non sapevo leggere”, ricordava Franca. Ma lei pensava che le sue figlie per sposarsi, per far dimenticare da dove venivano, dovessero essere ineccepibili, più di qualunque altra ragazza. Tanto che Franca è stata in un collegio di suore per due anni, i “più orribili” della sua vita.
La carriera non è stata facile, a differenza di quel che si potrebbe pensare, stretta fra una bellezza prorompente, che le dà una precoce celebrità nella rivista (da Rita Hayworth italiana), e l’insicurezza che le deriva dalla sua formazione professionale. “La parte che facevi l’avevi sentita da quand’eri nata, fatta dalla tua sorella più grande, finché arrivava l’età tua giusta e facevi questa parte. […] Ho fatto tutte le amorose, tutte le sedotte e abbandonate, le ho fatte tutte”.
Ma uscendo da questo teatro subentrano tanti problemi, primo fra tutti quello della dizione. Franca va a lezione per abbandonare il suo dialetto lombardo ma non basta. Si diceva: “Questa parte è troppo grossa, non saprà farla, e la parte piccola non l’accetta perché è troppo conosciuta”. Finisce per lasciare il teatro e fare l’infermiera, ma non funziona. “E’ Dario che ha scoperto che sapevo recitare […] perché io ero ridotta in una situazione che non riuscivo più a spiccicare parola, perché dicevano ‘E’ bella, ha i seni, si vede, mettiamola in scena’. Non mi si chiedeva il cervello, ultrasecondario: la funzione mia era di farmi vedere”.
Nel 1954 Franca Rame sposa Dario Fo. Con lui comincia un’altra storia, come emerge bene dall’intervista: la creazione di una dialettica artistica complessa e inossidabile. L’Archivio Franca Rame Dario Fo alla voce “Biografie” prevede tre possibilità: la vita di Franca fino al 1951, quella di Dario fino allo stesso anno e poi un’unica voce per entrambi.
Bisogna sottolineare l’importanza di questo Archivio, da lei ideato e gestito, come risulta dall’ordine dei nomi nell’intitolazione. Un archivio strepitoso, che raccoglie anche i documenti familiari conservati da Emilia Baldini. Mi rimanda immediatamente ad altri due grandi archivi che ho frequentato a lungo, pure organizzati da donne: quelli di Giorgina Craufurd Saffi e di Sibilla Aleramo. Un’attitudine a trattare le questioni della memoria, emotivamente tanto coinvolgenti e pericolosamente volte al rimpianto, in modo concreto, operativo. Tracce di fatti e persone, opere e parole, immagini…
Insistentemente nel corso dell’intervista Franca Rame ha proposto la sua autoimmagine di attrice. Fu per me una lezione notevole, che ho voluto richiamare nel titolo che ho scelto per questo mio ricordo: più valida che mai.
Franca, la grande instancabile camminatrice, capace di tradurre anche i voli più spericolati nella concretezza di un passo reale, sulle strade del mondo come sul legno dei palcoscenici.

“Ho sempre difficoltà a parlare di questo mio mestiere perché non l’ho scelto. Ho cominciato veramente a otto giorni, mia madre ha partorito e poi è andata in scena l’ottavo giorno, faceva la Genoveffa di Brabante. E l’ho sempre fatto come un mestiere, è come se tu andassi dalla figlia di un salumaio a chiedergli… Nella mia famiglia era la professione, era il lavoro”.

“Mi piace far bene il mio lavoro; però non ho ambizione per cui ho difficoltà a parlare degli attori”.

“Prima ho bisogno di sapere la parte a memoria. […] Mi chiedono: ‘Ma lei quando fa un personaggio, quando lo prepara, cosa fa?’, e io dico: ‘Lo studio’. ‘E poi?’ ‘E basta, lo faccio’. Perché c’è della gente che pensa che fare l’attore sia quella roba che tu non cammini per terra, che sei come un santificato, e la cosa mi fa ridere perché… è un mestiere”.

“Questo lavoro non l’abbiamo mai sublimato”.

“Faccio tutto… 4.000 cose”, mi dicesti. E certo anche adesso non stai con le mani in mano.

(Bologna, 9 giugno 2013)




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