#bp2013 Il teatro oltre la linea d’’ombra

Un estratto dal saggio sulla rivista "Economia della Cultura"

Pubblicato il 23/04/2013 / di / ateatro n. 143

Il Novecento ci ha consegnato l’’idea che il teatro è un bene irrinunciabile perché necessario al benessere immateriale della comunità. In quanto tale il teatro ha meritato la definizione di servizio pubblico e lo Stato ha trovato in questo la motivazione del suo sostegno. Il fine di tale sostegno è, quindi, quello di rendere il teatro accessibile a tutti impegnando appunto risorse pubbliche per favorire la democratizzazione dell’offerta.

“L’’intervento dello Stato in materia di spettacolo dal vivo ha oscillato…tra deciso disinteresse da un lato e intervento attivo dall’’altro. In questo secondo caso con giustificazioni variabili a seconda delle epoche, basate di volta in volta su istanze politiche… sociali, pedagogiche, etiche e talora estetiche”.

Così scrive Stefano Locatelli in un suo lucido articolo sul teatro come servizio pubblico (S. Locatelli, “Politiche della cultura e teatro come pubblico servizio. Intenzioni delle origini slittamento di senso”, Biblioteca Teatrale) e aggiunge:

“Nell’’Europa del secondo dopoguerra il riconoscimento …delle valenze educative, sociali e culturali del teatro è andato di pari passo con il progressivo intervento riequilibratore o sussidiario delle risorse pubbliche a favore di una speciale tipologia di lavoro che… si ritiene offra un bene immateriale che difficilmente ha la possibilità di inserirsi virtuosamente nelle logiche di mercato”

Tuttavia oggi – dopo molti segnali premonitori e alcune coraggiose riflessioni, già della fine del secolo scorso – in presenza di una crisi economica profonda e non breve, dobbiamo prendere atto che il teatro è un settore strutturalmente in deficit e che l’intervento pubblico non serve più per calmierare il costo del biglietto e consentire l’accesso a un pubblico il più ampio possibile, ma serve a sostenere un’attività (di produzione e di gestione) inevitabilmente deficitaria. Il sostegno pubblico si è spostato progressivamente dalla domanda all’’offerta.
Ma dobbiamo anche essere consapevoli che il teatro non ha più un ruolo veramente significativo nella nostra cultura e ancor meno (se vogliamo anche per ragioni storiche) nella nostra società, che lo ha vissuto spesso (in passato e ancora oggi) come intrattenimento, come una delle possibili opzioni di impegno del tempo libero
Seguendo questo filo, ha ragione Locatelli a sostenere provocatoriamente che la diminuzione/crescita del Fondo Unico dello spettacolo, nella misura in cui droga il mercato con un aumento dell’offerta che non trova un corrispondente aumento della domanda, è irrilevante per un verso e dannoso per l’’altro. Irrilevante perché non incide più sul destino del teatro ( e dello spettacolo dal vivo, più in generale), dannoso perché rinvia scelte radicali grazie a una politica di tagli uguali per tutti, posponendo continuamente al giorno dopo scelte veramente incisive e l’elaborazione di una strategia di lungo termine.
Qui le responsabilità sono equamente ripartite tra politici e operatori: i primi, per ragioni di consenso e di scarso coraggio (ma soprattutto di scarsa convinzione rispetto al ruolo culturale e formativo del teatro), i secondi per una italianissima difesa dei diritti acquisiti. Ancora una volta la condizione del teatro riflette quella di un paese fermo e ripiegato su se stesso, ostile ai giovani, impaurito da ogni cambiamento.
In questo contesto (burocratizzato, impermeabile e parcellizzato) gli artisti –- in particolare i più giovani -– si muovono secondo logiche da economia di guerra, invisibili spesso o, più frequentemente di quanto pensiamo, visibili fuori dai confini nazionali.
Molto altro si potrebbe aggiungere rispetto all’analisi dei perché e dei come siamo arrivati a questo punto, ma credo sia più utile provare ad immaginare una possibile rotta che si allontani dalla costa inospitale del presente e dalle secche del passato, per correre i rischi e le speranze del mare aperto, oltre la linea d’ombra.

Cambiare la percezione del teatro
Questo è certamente l’ostacolo più difficile da superare, perché si deve agire in profondità se si vuole cambiare la percezione diffusa che la società italiana ha del teatro. Si devono superare le radicate convinzioni sulla sua natura di intrattenimento, convinzioni aggravate dalla discriminante del censo e dalla presunta inattualità del linguaggio teatrale. Deve passare l’idea che il teatro sia un bene comune, necessario alla comunità, perché forma criticamente le coscienze, perché impone un confronto, perché si fonda su relazioni reali, perché è un potente strumento di prefigurazione della realtà … perché è differente e unico rispetto a tante altre forme di espressione artistica.
Ma per ottenere un risultato così importante che restituirebbe un ruolo al teatro e dignità a chi opera in esso, occorre lavorare su alcuni snodi che rischiano se non risolti, di riportare la nave del teatro nelle secche del sottocosta, dove c’’è sempre meno acqua (quella dei contributi pubblici) in grado di tenerla a galla.

La politica deve fare un passo indietro
Credo che i tempi siano maturi perché questo cambio di ruolo sia possibile, credo che stia maturando una nuova sensibilità almeno tra i giovani. Il teatro deve orgogliosamente affermare la sua volontà di mettersi in gioco con selezioni serie quanto a nomine, finanziamenti, assegnazione di spazi, creatività artistica e progettualità organizzativa e gestionale. Il teatro deve guidare il cambiamento e non subirlo. Basta lamentele che denunciano sudditanza e mancanza di coraggio: occorre unità e determinazione.
Il teatro deve dire forte e chiaro che rinuncia a posizioni consolidate, se vengono approvate nuove regole più trasparenti, se vengono messe in campo verifiche costanti e valutazioni obbiettive per quanto attiene alla gestione e agli aspetti economico-finanziari .
Questo vuol dire no ai tagli lineari (con le inevitabili conseguenze), sì a scelte motivate che possono essere accettate solo se sono compiute da persone autorevoli e riconosciute tali, in assoluta trasparenza.
Vuol dire anche che, accettate le nuove regole e riconosciuta l’attendibilità degli interlocutori, poi le conseguenze non possono essere messe costantemente in discussione per ragioni personali o locali. E questo è un vizio molto radicato …..
Alla politica e agli amministratori sta l’onere di aprire queste nuove rotte, al teatro il dovere di percorrerle senza indugi.

Lavorare sulla domanda piuttosto che sull’offerta
I più recenti dati SIAE ci dicono che cresce l’offerta e diminuisce la domanda. E’ un trend evidente già da tempo. Se è inutile sottolineare quanto sia negativo in termini di costi per la collettività e per gli operatori, è bene invece evidenziare l’autoreferenzialità di questo segnale, il distacco tra teatro e pubblico, la dimensione ristretta della platea di spettatori, l’isolamento del teatro rispetto al sistema culturale.
Appare non rinviabile l’esigenza di dare la priorità a politiche in grado di sostenere la domanda attraverso le agenzie educative (scuole e università), attraverso la comunicazione e l’informazione, attraverso i canali di promozione turistica.
Il mondo della scuola, dalla materna all’università, deve praticare (per conoscere) il linguaggio teatrale; i biglietti per vedere teatro debbono essere inclusi nell’’offerta formativa organicamente, così come va affrontato il tema del trasferimento (spesso più oneroso del biglietto) dalla scuola al teatro e viceversa. Questo è un investimento a medio/lungo termine, ma certamente il più proficuo e lungimirante.
La promozione del teatro deve essere sostenuta da campagne di comunicazione on-line nazionali e attraverso canali tematici televisivi, non carbonari per orari e informazione. E perché no, da un XFactor o un master chef teatrale?
Sappiamo tutti che il patrimonio riceve una forte spinta dagli eventi di spettacolo (siano festival in aree archeologiche, siano eventi nei musei) e viceversa il teatro può trovare nuovo pubblico tra quello, motivato, dei luoghi d’arte. Ma occorrono regole nuove ed economicamente sostenibili per gli operatori rispetto all’emissione dei biglietti in questi contesti, alle agevolazioni sulle locazioni, alle iniziative di comunicazione e promozione, premiando la sensibilità di direttori e sovrintendenti o incoraggiandola dove necessario.
La rete formata da teatro (spettacolo dal vivo), scuola, luoghi d’’arte, turismo può essere una rete d’oro per tutti i settori citati, ma va costruita prima di tutto sul piano istituzionale e su quello delle regole, poi su quello organizzativo e promozionale.

Semplificare. Poche regole, ma chiare
Tutto il teatro vive di sovvenzioni pubbliche, non esiste in realtà un teatro italiano privato, un teatro cioè in grado di vivere di soli biglietti e di entrate proprie.
Semplificare per l’immediato vuol dire sicuramente ridisegnare le categorie sovvenzionate, magari aggregandole in due sole aree: una della stabilità e una del giro/attività stagionali. Ciascuna area con le sue regole e soprattutto con delle chiare finalità. La confusione del “chi fa che cosa” è anche nel teatro.
Ma il futuro è in un passaggio progressivo dal sistema rigido e cristallizzato dei contributi diretti, da congelare prima e ridurre poi (secondo una progressione che vada di pari passo con la messa a punto dei nuovi strumenti), a quello tutto da disegnare dei sostegni indiretti. Sicuramente questo favorirebbe un più sano rapporto tra impresa teatrale/spettatori /pubblica amministrazione, responsabilizzando finalmente tutti.
Naturalmente, premessa indispensabile per una simile strategia politica, è la ridefinizione dei compiti, del chi fa che cosa anche a livello istituzionale, prendendo atto che alcune forme di decentramento hanno generato conflittualità, burocrazia, scarsa trasparenza, ma anche che dal centro non è possibile una seria verifica dei risultati e un monitoraggio efficiente della spesa.
Allo Stato va il compito di sostenere il teatro con strumenti fiscali e normativi: dalla fiscalità di vantaggio all’’IVA agevolata, da un nuovo regime di detrazioni e deduzioni alla detassazione degli investimenti, dal costo dei vigili del fuoco alle incertezze della normativa di sicurezza sui luoghi di pubblico spettacolo, ma anche un serio piano di razionalizzazione e messa a sistema delle filiere culturali di cui il teatro è uno snodo importante, ma non l’unico. Basta pensare per comparti: ambiente, cultura, formazione, turismo sono interconnessi e interdipendenti nei risultati.
Agli Enti Locali il compito di intervenire sui costi fissi delle strutture (utenze, rifiuti, reti e infrastrutture per la promozione e la comunicazione), di riesaminare le licenze nei luoghi di pubblico spettacolo consentendo attività coerenti ( dischi libri gadget turistici ecc.) e di rendere disponibili gli spazi inutilizzati attraverso partenariati di progetto, uscendo da qualunque forma di gestione diretta.
Anche in questi casi occorrono procedure snelle, selezioni trasparenti, verifiche puntuali, temporalità adeguate, ma rigorose nella durata.

Un teatro più giovane e più internazionale
Questa è forse la scommessa più importante sia per frenare la fuga all’estero di molti giovani artisti sia per non dissipare talenti che hanno bisogno di opportunità vere e non di essere sfruttati per sorreggere le produzioni o le gestioni.
Il punto non è nel dare contributi modello FUS,che potrebbero assicurare solo piccole cifre (la cui complessità di rendicontazione scoraggia anche un commercialista ), ma di assicurare forme di tutoraggio vere perché controllate adeguatamente, di stimolare la formazione di giovani imprese migliorando l’’accesso al credito e istituendo un fondo di garanzia per queste start up, mettendo a disposizione spazi, come già detto, favorendone l’’inserimento in reti/ strutture internazionali.
Se un artista lavora all’estero perché il suo paese sostiene la sua formazione e la sua crescita professionale è un investimento, ma se quell’artista è fuggito in cerca di opportunità che in patria non ha trovato, è una sconfitta politica e una perdita secca in termini di sviluppo
In questo ambito si inserisce infatti un tema importante: quello della internazionalizzazione del nostro teatro: partenariati, mobilità, formazione linguistica sono molto più importanti di festival e rassegne e qui il ruolo dello Stato è determinante per evitare interventi spot, per quanto lodevoli. Serve un’agenzia nazionale con questi compiti , magari estesa alle altre forme di spettacolo dal vivo, in grado di fare proposte di sistema, accordi di programma, di assicurare una presenza propositiva nelle reti internazionali, di sostenere residenze all’estero. Il teatro italiano può usare anche la lingua inglese e non per questo sarà meno italiano.

Alla fine di tutto questo mi accorgo di aver parlato di politica (culturale), di Italia (quella del futuro), di arte ( quella che cambia il mondo), cioè di teatro quale saggiamente lo definisce Arianne Mnouchkine :
“Ho bisogno di parlare alla gente! Ho bisogno di cambiare il mondo: il mondo… anche se questa ambizione appare pretenziosa, anche se non porto che la mia piccolissima goccia di acqua. Cambiare il mondo: non si può prescindere da un punto di vista politico, poiché la politica è scienza della vita. Qualcosa è marcito nel regno di Danimarca, come rassegnarsi?”.
(A. Mnouchkine, “Une prise e conscience”, in , n. 1, 1968)

Giovanna_Marinelli

2013-04-23T00:00:00




Tag: #BP2013 (71), #BP2013_Firenze (29), politicaculturale (20)


Scrivi un commento