Non dire Quirinale se non l’hai nel sacco
Perché il guitto Grillo vince in ogni caso
(in anteprima alcuni frammenti da Per una drammaturgia transmediale della crisi italiana. Ovvero perché i clown vincono le elezioni, di prossima pubblicazione su “Culture Teatrali” e www.ateatro.org)
Il clamoroso verdetto elettorale delle politiche 2013 avrebbe dovuto suscitare molte domande, non solo sull’incerto futuro del paese. Per cominciare, come è possibile che un comico sia stato considerato da un elettore su quattro il leader politico più credibile del pacchetto? Come può un esagitato cabarettista impersonare uno statista? Perché i suoi rivali, politici di lungo corso che controllavano i media, non sono riusciti ad arginare un movimento nato da pochi mesi, senza sponsor e finanziamenti? (
)
Il confine tra spettacolo e giornalismo, tra barzelletta e informazione – già reso permeabile dalla televisione – è diventato impalpabile, dando luogo a inedite contaminazioni. (
) Un secondo confine che si è fatto sempre più labile è quello che separava la politica dallo spettacolo. (
) Con il passare degli anni, i politici sono tracimati, prima nei talk show politici e poi nelle trasmissioni di intrattenimento, per cantare, ballare, cucinare, nel tentativo di apparire più vicini (o simpatici) ai loro potenziali elettori. Non lo fanno certo per “dettare l’agenda politica” e per imporre al dibattito pubblico i temi cruciali, in vista delle decisioni da prendere, che potrebbero anche risultare impopolari. E’ assai più importante, e anzi indispensabile per la sopravvivenza politica, occupare la scena mediatica. Questo consente tra l’altro di sfuggire alla responsabilità della accountability, in una girandola di trovate notiziabili. Il rovescio della medaglia è che la “politica dello scandalo” finisce per caratterizzare la politica contemporanea: i politici finiscono sotto scacco perché sono corrotti, per le loro imprese sessuali, perché non pagano i contributi alle colf, per aver copiato vent’anni prima la tesi di laurea
Questi dettagli riflettono tendenze più ampie. La prima è la spettacolarizzazione della società, teorizzata da Guy Debord nel 1967. (
) La seconda tendenza, ovvia conseguenza della prima, è la spettacolarizzazione della politica, oggetto ormai di infinite analisi, a partire da quelle di Neil Postman nel suo profetico Divertirsi da morire, vecchie ormai di trent’anni.
Se la politica diventa spettacolo, non sorprende che lo spettacolo ricambi il favore. La riprova è il peso crescente della satira politica negli ultimi decenni. Come abbiamo visto con il caso Grillo, alla fine degli anni Ottanta il controllo politico sulla televisione era ancora stretto, ma a disposizione degli spiriti liberi – attori e spettatori – restavano i territori del teatro. Lì poteva sfogarsi il fool, l’unico personaggio che può permettersi di dire la scomoda verità al potere, cogliendo e dando voce ai sentimenti del paese, alla sua “pancia”. Prima che esplodesse Tangentopoli, per sentire denunciare sprechi e ruberie bisognava andare al cabaret. (
)
L’abbiamo imparato, ormai. I confini tra alto e basso sono svaporati, nelle arti e dunque anche in teatro. Il confine tra tragedia e commedia, tra denuncia e barzelletta, è sempre più labile. I generi si ibridano. Viviamo nell’era dell’ironia. Ma il sommovimento di questi anni è assai più vasto. Lo sconfinamento tra generi e ambiti non riguarda solo le arti e lo show business. Con le avanguardie, l’arte è entrata nella vita quotidiana e la vita quotidiana è diventata un’estetica. Tempo libero e tempo del lavoro si contaminano. L’identità personale è la costruzione di un progetto sempre in divenire, un intreccio di culture, consumi e pratiche. La sfera pubblica e quella privata si confondono, anche grazie all’avvento dei social network. I clown accrescono la produttività aziendale. Se ascoltano Mozart, le mucche producono più latte. L’informazione è diventata infotainment, la pedagogia edutainment.
In una società sempre più “liquida”, dominata dall’invadente pervasività del denaro e dell’informazione (ibridate nel mercato finanziario globale, con le sue rapidissime transazioni digitali), diventa impossibile mantenere barriere di classe e culturali, e tenere separati ambiti, competenze, specialismi: a livello individuale (vedi la “omologazione” pasoliniana e appunto la “identità liquida” di Bauman), ma anche a livello istituzionale.
La divisione dei poteri, che per Montesquieu era condizione necessaria di ogni democrazia, resta formalmente in vigore, ma appare obsoleta, superata e spesso travolta nei fatti. Contaminazioni, sconfinamenti, commistioni, complicità tra poteri che dovrebbero restare indipendenti e separati si verificano in tanti paesi. Nei vecchi regimi di stampo autoritario (come in Cina), ma anche nelle democrazia recenti e incompiute (vedi Russia), dove paiono un retaggio dell’ancien régime, una tara inevitabile ma effimera. Però sono presenti anche nelle democrazie evolute: basta pensare al potere delle lobby. Tuttavia i conflitti d’interesse vengono regolamentati, o – se sono troppo scandalosi – ipocritamente occultati: infatti spesso il principio (o l’ipocrisia) riescono a equilibrare il rapporto tra democrazia e oligarchie economiche (ed economico-mafiose, perché anche la distinzione tra economia legale e illegale tende a svanire).
Se la divisione dei poteri è destinata a diventare obsoleta, l’Italia offre da tempo uno straordinario laboratorio politico, anche sul piano simbolico.
Nel 1994, quando decise di “scendere in campo”, Silvio Berlusconi diventò l’emblema della subordinazione della politica all’economia e alla ricchezza. Non mancarono seguaci e imitatori di successo, dalla Thailandia allo Stato di New York. Il berlusconismo segnò anche il crollo della distinzione tra politica e media, da sempre quasi formale in un paese dove l’informazione è da sempre subordinata all’economia (industriali e banche sono da sempre grandi azionisti dei giornali) e alla politica (a cominciare dalla Rai).
Nel 2011, quando il nostro “Perón della mutua” venne destituito dal direttivo dell’Unione Europea, fu invece la finanza globalizzata a commissariare l’economia e dunque la politica, attraverso il fiduciario Mario Monti.
La campagna elettorale 2013 ha segnato un ulteriore collasso: con Grillo, lo spettacolo si è mangiato finanza, economia e politica. L’irrazionalità emozionale del guitto ha sconfitto la razionalità delle leggi ineluttabili dell’economia. Gli italiani si sono così ritrovati spettatori e insieme registi di una straordinaria drammaturgia politica, dove hanno giocato tre elementi: la comunicazione politica contemporanea, il teatro italiano (e la sua relazione con il potere e con i potenti) e naturalmente il sistema politico italiano e la moralità pubblica del paese. (
)
La campagna elettorale del 2013 è stata anche una lotta tra i diversi media: un medium arcaico, forse obsoleto (il teatro), un medium moderno ma forse superato (i giornali), un medium moderno e in apparenza egemone (la televisione), un medium postmoderno in ascesa (la rete). Ricordando che “è l’interazione tra media mainstream e Internet ciò che caratterizza la politica mediatica nell’era digitale” (Manuel Castells, Comunicazione e Potere). Ecco perché Grillo, pur rifiutando le interviste a giornali e televisioni italiane, ha potuto dettare l’agenda della campagna elettorale attraverso le sue apparizioni web. Il comico genovese ha accoppiato la fisicità e la presenza del gesto teatrale alla virtualità della rete, evitando con cura (e vietando ai suoi seguaci, pena l’espulsione immediata) di rilasciare interviste ai giornali e di comparire in tv. Dal punto di vista militare, una manovra a tenaglia. Dal punto di vista teatrale, un capocomico che non vuole farsi impallare da comprimari e caratteristi. (
)
Grillo forse è un solo clown, e non un autentico leader politico. Ma di sicuro ha saputo intercettare una mutazione profonda dello scenario politico. Il suo successo elettorale è il primo effetto su larga scala dell’avvento del web 2.0 in una democrazia occidentale: ancora una volta, l’Italia si è dimostrata un laboratorio politico d’avanguardia.
L’impatto politico del web 2.0 è forte ovunque, ma in situazioni di crisi può avere un effetto dirompente. A partire dal 2009 i Partiti Pirata si sono presentati nell’Europa del Nord (anche se con obiettivi più ristretti), con risultati di qualche rilievo in Svezia e Germania. Negli Stati Uniti i Tea Party hanno condizionato le ultime presidenziali, e solo l’abilità dei maghi del web democratici ha permesso a Obama di occupare la Casa Bianca. Nell’inverno 2010-11 le “primavere arabe” hanno abbattuto i Raís maghrebini usando massicciamente Twitter e Facebook. (
)
In Italia la crisi del sistema politico si è rivelata più acuta che altrove. E’ vero che, come nota Castells, “la maggioranza dei cittadini del mondo non si fida dei propri governi o dei propri parlamenti, e un gruppo ancora più folto di cittadini disprezza i politici e i partiti politici, e pensa che il proprio governo non rappresenti la volontà del popolo. Per capire l’accelerazione italiana bisogna aggiungere un elemento: “La percezione della corruzione è il più significativo elemento di predizione della sfiducia politica”. (
)
Il web 2.0 ha fatto irruzione nella dinamica politica con modalità proprie, inedite. E’ mutato il ruolo dell’opinione pubblica, che non fa più riferimento alla sfera pubblica borghese delineata da Habermas. (
) Non è un caso che la rabbia, l’indignazione siano i motori di movimenti politici che hanno proprio l’obiettivo, prima di offrire una proposta, di irritare l’ordine costituito, disarticolandolo. In questo Grillo è stato senz’altro un maestro, con le provocazioni e gli insulti, le battute ironiche vengono prese sul serio e le proposte politiche respinte come barzellette. (
) La classica politica della rappresentanza era fondata sul “Mi piace” del voto, e sulla sostanziale passività dell’elettore-spettatore di fronte al teatro (o al teatrino) della politica, al quale veniva opposto in circostanze eccezionali il “teatro della piazza”. Chi è abituato ai meccanismi del web 2.0 non può accontentarsi di questa forma di partecipazione intermittente. Accusare Grillo di fare “antipolitica” significa travisare il suo progetto: ha trasformato gli spettatori passivi del teatrino della politica in pubblico connesso e partecipante, e al limite in attore, in linea con l’evoluzione del panorama mediatico. (..)
Il M5S ha offerto alla società civile l’occasione per trasformare la proposta e la protesta in progetto politico. (
) Il suo impatto del M5S (o del web 2.0) sta imponendo profondi cambiamenti di ruolo ai protagonisti della scena politica, con qualche rischio. In un contesto “teso tra forme di intimità e pratiche di esibizione” (Giovanni Boccia Artieri, Stati di connessione), è difficile trovare un equilibrio. Incombe anche quella che Andrew Keen definisce “dittatura del dilettante”. (
) Nonostante i limiti del M5S (e le colpe storiche delle forze altre politiche), le elezioni politiche del 2013 hanno offerto una straordinaria opportunità per modernizzare la società italiana. Scopriremo se la nostra classe dirigente riuscirà a trarne le giuste conclusioni, o se questa tornata elettorale è stata l’ennesima “occasione mancata” della nostra storia, che alle spinte modernizzatrici democratiche ha sempre preferito scorciatoie autoritarie e regressive.
Oliviero_Ponte_di_Pino
2013-04-20T00:00:00
Tag: GrilloBeppe (8)
Scrivi un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.