Il Riccardo III gigantesco e cinematografico di Alessandro Gassman
Ovvero Shakespeare rivisitato da Vitaliano Trevisan
Peccherà anche di eccessiva contaminazione con il linguaggio cinematografico, come da qualche parte gli è stato rimproverato (Renato Palazzi sul Domenicale del «Sole 24 Ore» del 3 marzo scorso), ma lallestimento del Riccardo III di Shakespeare che Alessandro Gassmann ha ricavato dal prosciugamento testuale di Vitaliano Trevisan funziona benissimo proprio per la sua forza teatrale. A cominciare dalla costruzione di un Riccardo III sempre, alla lettera, fuori scala rispetto alla scena e a tutti gli altri attori, grazie anche a delle calzature speciali che aumentano la già considerevole altezza naturale dellattore e lo innalzano di una spanna almeno sopra il resto degli interpreti.
«Ho già le scarpe adatte», avrebbe detto sorridendo a Trevisan nel tratteggiare i caratteri di questa figura inquietante per la quale chiedeva allo scrittore vicentino una lingua secca ed essenziale. La scelta del gigantismo da una parte dichiara la statura scenica del personaggio, distinguendolo fin da subito nelle proporzioni anche fisiche della sua presenza, dallaltra lo costringe a inventarsi posture e movimenti elaborando una partitura della deformità di immediata efficacia cinetica e prossemica, complici limbottitura muscolosa sul ventre e il braccio destro «come un remo colpito da un fulmine» immobilizzato al fianco, costretto in una protesi-corazza. Il Plantageneto deambula claudicante, gesticola sghembo alterando lequilibrio sulle gambe, si torce per scendere gli scalini, è costretto a chinarsi per passare da una porta o per guardare qualcuno negli occhi. Si potrà trovare tutto ciò un benismo (nel senso di Carmelo Bene, ovviamente) per il popolo, ma la natura squisitamente teatrale di questa costruzione del personaggio è fuori discussione.
Larretramento su tre piani dello spazio scenico, con le proiezioni che ne animano prospettive neglette, consente poi di sfruttare i due tulle ai lati su grandi arcate gotiche per sperimentare, con cambi di luce e immagini fisse e in movimento, uscite ed entrate queste sì tecnicamente cinematografiche, ma funzionali al discorso teatrale. Se la messa in inquadratura, come insegna Ejzenstein, è una messa in scena di secondo grado, provare a riportarne gli esiti a teatro può riaprire un confronto tra linguaggi (dipende semmai dal livello di consapevolezza, non dalluso in sé della tecnologia).
Attorno a Gassmann si muovono altri nove attori, quattro dei quali interpretano doppie o triple parti. Quindici personaggi, invece dei quaranta e passa delloriginale, per due ore e mezza di spettacolo. Ma aldilà della condensazione, il merito di Trevisan sta nellaver delineato con chiarezza non tanto laffresco storico in cui le vicende si svolgono, quanto il funzionamento di un dispositivo di circonvenzione dellanimo umano, un circolo vizioso di fascinazione e sottomissione dei destini. Se lequazione tra deformità fisica e deformità morale rappresenta ancora il fulcro della leva teatrale in azione, Gassmann resta infatti distante tanto dalla immediata e diffusa lettura politica del dramma la salute morale di un governante che determina quella di un intero paese quanto dalla sua riduzione a questione privata, comera nellindimenticata versione di Bene, che della passione perversa del duca di York per il potere faceva un meccanismo di precisione per un teatro da camera barocco.
Lo spettacolo di Gassmann resta, per così dire, al proprio posto, ovvero in uno spazio popolare in cui Shakespeare riempie ancora i teatri. Certo non manca un piano di lettura metateatrale: la diversità di Riccardo III è in fondo quella dellattore, e Gassmann (come e diversamente da Bene) parodizza, istrionizza (con uneco della voce paterna), gioca a travestirsi, a fare e disfare le sorti (le parti) altrui: «Sto pensando di ampliare la tua parte, magari darti più di un ruolo». Ma il divertimento e lartigianalità del congegno teatrale prevalgono. Così, nello spettacolo prodotto dallo Stabile del Veneto, la videografia di Marco Schiavoni insiste sulle scene di Gianluca Amodio con effetti appunto cinematografici, ma creando spazi gotici grandiosi ed effetti sempre in dialogo con le presenze attorali (il fuoco nel caminetto, la compagnia di soldati in marcia dietro al re, ecc.). I costumi di Mariano Tufano (e in modo meno convincente anche le musiche di Pivio e Aldo De Scalzi) creano unindistinzione postmoderna con continui anacronismi e discrasie che giustappongono limpermeabile nero di pelle e le culotte da Ancien Régime, le vesti di corte e le divise naziste.
In questa atmosfera nevrotica, sempre piuttosto cupa, intrigante, a tratti espressionista, Gassmann non sembra provare troppa soggezione per «lincombenza di gigantesche ombre familiari» confessata nelle note di regia. Disegna con leggerezza e precisione un Riccardo III che pone di fronte allo spettatore una dimostrazione dellinsondabilità dei recessi del nostro inconscio, delle deformità «congenite», secondo il regista dellanimo umano. E lo depone proprio, alla fine, stramazzando a terra en ralenti con tutti i suoi trucchi e le sue protesi teatrali. Accanto a lui spiccano Manrico Gammarota nel ruolo di Tyrrel, boia-massaggiatore, Mauro Marino (diviso tra Re Edoardo IV, Regina Margherita, Lord Stanley), Marta Richeldi (Regina Elisabetta), Paila Pavese (Duchessa di York) e poi Giacomo Rosselli, Marco Cavicchioli, Sabrina Knaflitz, Sergio Meogrossi, Emanuele Maria Basso.
Fernando_Marchiori
2013-02-04T00:00:00
Tag: cinema e teatro (44), GassmanAlessandro (4), William Shakespeare (49)
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