In scena i territori della vita e della morte

Due conversazioni con Luca Ronconi a proposito del Panico di Rafael Spregelburd

Pubblicato il 13/01/2013 / di / ateatro n. 142

Una verità non immediatamente riconoscibile
Una conversazione estiva con Luca Ronconi a proposito del Panico

Come avevi promesso, la tua esplorazione dei testi di Rafael Spregelburd continua.

Sì, anche se non ho mai detto che avrei portato in scena tutta l’Epatalogia di Hieronymus Bosch. In effetti il mio progetto era di mettere in scena tre testi su sette.

Quindi stai lavorando sul Panico che andrà in scena a Milano… Ma anche qui a Santacristina il progetto di questa estate 2012 comprende un altro testo dell’Eptalogia…

Sì, stiamo lavorando su L’inappetenza, ma in questo caso la regia non la faccio io, se ne occupa Giorgio Sangati, che ha già fatto l’assistente nella Compagnia degli uomini di Bond. In ogni caso, io avevo pensato di occuparmi personalmente della regia di La modestia, Il panico e La paranoia.

Perché la tua scelta è caduta su questi tre testi?

Beh, non potendo fare tutti i sette testi, ho dovuto scegliere. Disponendo di tre sale diverse al Piccolo Teatro di Milano, mi sembravano tre testi giusti per questi tre spazi. Era previsto che La modestia si facesse il via Rovello, al Teatro Grassi, e così è stato. Il panico, che è un’opera dove non è così indispensabile uno spazio più ristretto e piccolo, e che parla anche della morte, lo faremo allo Strehler. Per quanto riguarda La paranoia, per adesso non se ne parla, ma penso di farlo al Teatro Studio. Il mio sogno era di fare i tre spettacoli in contemporanea…

…in una specie di festival Ronconi-Spregelburd…

Ma è un progetto troppo ambizioso, soprattutto con i tempi che corrono.

Uno dei motivi del tuo interesse per Il panico, dicevi, è che si tratta di un testo che parla anche della morte…

In realtà parla della vita! Ma dal momento che poi si muore, nel testo c’è anche la morte. Però, tutto sommato, la situazione non è poi tanto differente da certi spunti di altri testi dell’Eptalogia. Dietro al fatto che nel Panico convivano vita e morte, non c’è niente di filosofico: la vita e la morte sono solo due territori, esattamente come nella Modestia Buenos Aires e Vllla Opicina sono due territori, oppure come lo sono i due pianeti dove si svolge l’azione della Paranoia, oppure il video e il vissuto, sempre nella Paranoia. Sono tutti testi in cui la bilocazione delle figure è tematica (una bilocazione che per esempio nell’Inappetenza non c’è). Come in tutte le cose che scrive Spregelburd, l’incertezza dell’identità è sempre presente. Qui è chiaramente rappresentata nei due territori simultanei della vita e della morte. E’ un chiasmo, più che una bilancia, o una alternanza, tra i due poli, perché vita e morte sono presenti nelle due storie che vengono rappresentate. Una delle due vicende, quella che ruota intorno a un’eredità, potrebbe ricordare Non ti pago di Eduardo De Filippo: ma già il fatto che si tratti di una eredità, significa che continua un rapporto tra chi è morto e chi resta. L’altra vicenda si svolge su un palcoscenico dove si prova un balletto, e poi si scopre che la coreografia è ispirata al Libro dei morti egizio…

…che è proprio il libro che il personaggio che è morto, Emilio, stava leggendo.

Quindi si tratta di una struttura circolare. Non per niente nel Panico c’è un personaggio come Emilio che è morto e circola tra i vivi, ma fino a un certo punto non sa di essere morto, e poi se ne rende conto… Insomma, non è certo Spirito allegro di Noel Coward!

Uno degli aspetti interessanti della scrittura di Spregelburd, anche dal tuo punto di vista, è il gioco con le convenzioni teatrali…

La drammaturgia di Spregelburd è estremamente intelligente. Il suo non è certo un teatro “alternativo”: al contrario, riesce a costruire una forma che è a mio avviso assolutamente aggiornata, in sintonia con la nostra percezione della contemporaneità, ma utilizzando delle forme eterne.

A proposito di “alternativo”, nel Panico Spregelburd si diverte a prendere in giro al nuova danza…

Ma c’è sempre una grande leggerezza, non c’è niente di aggressivo o di acido. Ha un atteggiamento quasi cechoviano nel rapportarsi alla realtà: il suo è uno sguardo abbastanza clinico, estremamente oggettivo, anche quando affronta l’attualità. Per esempio nella Paranoia il tema di fondo è un concetto di creatività che ci impone di inventare, inventare e inventare storie, e di conseguenza provoca la bulimia dell’informazione che ci travolge. Sono temi drammaticamente attuali, ma vengono sempre trattati con leggerezza e competenza…

E, come in Cechov, anche con una certa dose di ironia…

E’ anche divertente, anche se sempre con intelligenza. La stessa Modestia – un testo forse meno divertente di altri, che infatti può irritare qualche spettatore – ti comincia a divertire quando capisci attraverso quali spiragli puoi accedere al divertimento. Se non accadesse così, se questo passaggio non fosse necessario, sarebbe solo roba precotta, barzellette già conosciute.

Nel Panico ci sono anche scene che sembrano prese pari pari dalla farsa, per esempio quando la famiglia dei protagonisti si presenta in banca per risolvere la pratica dell’eredità…

Sì, però Spregelburd in questo è molto bravo. Perché quella farsa è una apparenza dietro cui ci sono cose più serie: poi si scopre che il personaggio della funzionaria di banca – Cecilia Roviro, che fa molto ridere – è animato da un lutto. Anche Cecilia, come Lourdes, la vedova di Emilio, è una donna in lutto. Insomma, si ride di una cosa, e poi si scopre che anche quel divertimento è una vernice. L’inappetenza, su cui stiamo lavorando a Santacristina, è fondata proprio su questo meccanismo: Spregelburd lavora sulle possibilità di gioco con la percezione del pubblico. E’ un gioco senza sosta a mostrare e nascondere, anticipare e ritardare, come a dire che la percezione dell’immediatezza esiste, ma è ingannevole. In questo senso è interessantissimo il suo uso della temporalità sulla scena. A teatro siamo abituati un po’ rozzamente a una diacronia continua, ma già quando parliamo di una situazione “contemporanea”, in qualche modo diciamo un’altra cosa.

Per questo sono interessanti i meccanismi delle convenzioni che Spregelburd mette in atto e poi smonta in continuazione, perché costruisce sempre delle cornici che poi distrugge davanti allo spettatore…

In questo ha una straordinaria abilità teatrale. Senza dimenticare la qualità letteraria: non è un romanziere, però nella sua scrittura non c’è mai nemmeno un briciolo di sciatteria, c’è invece un totale controllo della letteratura teatrale.

Come nella Modestia, anche nel Panico Spregelburd si diverte a giocare con i generi, che sono un altro aspetto della convenzione: li mette in scene, li evoca, e poi li smonta in continuazione.

C’è perfino l’horror, la casa stregata… Però questi riferimenti non devono prevaricare. Offrono al pubblico un cliché conoscitivo troppo forte per essere messo in primo piano. Secondo me è meglio che per chi vede lo spettacolo questi riferimenti restino una interrogazione: “E’ anche una parodia dell’horror?”, “E’ un riferimento all’horror?”, oppure: “Sembra un horror…” Non bisogna andare oltre a questo livello, altrimenti il genere diventa una sovrapposizione troppo esplicita – come rischia di accade in altri testi, per esempio nella Paranoia.

E questo non ti garba più di tanto… Un altro aspetto interessante riguarda il modo in cui gli attori devono costruire i personaggi, con una drammaturgia di questo tipo.

Gli attori devono stare sempre anche da un’altra parte. In questo mi sembra di essere davvero molto vicino a Spregelburd: non dico suo fratello, ma certo suo parente. Perché questo essere sempre da un’altra parte, so benissimo che cos’è, quando faccio qualsiasi spettacolo: quel non sapere mai che cosa stai veramente facendo, se fai il personaggio o se non lo fai, eccetera eccetera. E’ una libertà condizionata, ma è pur sempre libertà: e questo è molto importante.

Questo essere da due parti contemporaneamente è forse la condizione costitutiva dell’essere attore…

Beh, questo è un po’ troppo! Purtroppo sulla figura dell’attore ci sono tante cappe ideologiche, da secoli, e poi cappe generazionali, e così diventa difficile dare definizioni come questa…

Ma lavorare sui testi di Spregelburd non può essere utile proprio per smontare queste cappe ideologiche?

Spregelburd lo reciti meglio se non sai bene fino in fondo chi sei.

All’attore deve dunque restare un margine di inconsapevolezza?

Sei sei un attore che regola il suo fare, il suo dire e il suo agire rispetto al pubblico solamente per ottenere un determinato effetto, con Spregelburd non fai sempre centro. Perché la ricerca dell’effetto è continuamente messa in discussione, già dal testo. Per esempio, spesso si sente dire: “Qui il pubblico non capisce”. Ma il testo è costruito apposta perché il pubblico non capisca: perché capirà dopo… C’è la volontà di rimandare la comprensione del pubblico – e quindi, con la comprensione, anche l’accettazione di quello che vede. Qualche volta questo “dopo” implica un posticipare che è ancora interno alla commedia, ma a volte può anche essere esterno, come accade per esempio nella Modestia: per capire, ci devi pensare quando sei uscito.

Quindi all’inconsapevolezza dell’attore corrisponde una inconsapevolezza da parte dello spettatore…

Secondo me è molto interessante: nei testi di Spregelburd si avverte che tutto ha la sua ragione, e che tutto ha una sua verità. Ma di quale verità di tratti, questo non è immediatamente conoscibile.

A un certo punto uno dei protagonisti del Panico dice: “In certe società organizzate intorno al capitalismo estremo ormai non dovremmo parlare dio pazzia, ma di mero adattamento”. Siamo in piena attualità…

Spregelburd è sempre molto attento all’attualità, ma è sempre altrettanto attento a riprendere lo spunto attuale per non lasciarlo a livello giornalistico, e per farlo diventare un fatto comunicativo teatrale.

(Santacristina, agosto 2012)

Luca Ronconi e la compagnia iniziano le prove del Panico al Piccolo Teatro (foto di Luigi La Selva).

Una commedia umana in forma di danza macabra
Una conversazione invernale con Luca Ronconi sempre a proposito del Panico

Sei quasi arrivato al termine delle prove. Rispetto alle tue attese, portare in scena Il panico è stata un’impresa difficile?

E’ un diavolo di commedia, che si presenta in un modo e poi man mano che la conosci cambia continuamente aspetto. Si capisce immediatamente, anche alla lettura, che è una specie di puzzle ironicamente filosofico, però ti dà l’impressione che questo sia solo un aspetto superficiale, di immagine. Poi, lavorandoci, ti accorgi che è tutto profondamente strutturato, che le battute si incatenano l’una all’altra secondo un principio preciso, e non secondo i canoni della commedia d’intrattenimento. Imbocchi una strada perché ti sembra l’unica possibile, necessaria e sufficiente, ma poi ti accorgi che la strada non è mai diritta, che è un percorso accidentato e pieno di trappole.

Anche per gli attori?

Gli attori tendono per loro natura ad affezionarsi al personaggio, e pensano che sia il personaggio a determinare le situazioni. Invece nel Panico l’autore si diverte a mettere i personaggi in determinate situazioni per vedere come reagiscono. E capita spesso che un personaggio venga spossessato delle proprie battute, che vengono dette anche da qualcun altro. E’ una commedia piena di trabocchetti…

Uno dei trabocchetti del testo è nel linguaggio, che non riesce più a comunicare. Una delle battute che viene ripetuta più spesso è “Non mi capisci… Non ci capiamo…”.

Se allestisci Il panico come una commedia futile e frivola, il testo si vendica. Già la durata – quasi tre ore – non regge i ritmi della commedia d’intrattenimento, ci sarebbe almeno un’ora e mezza di troppo. Il testo regge quella durata solo se percepisci che è un puzzle e che i pezzi si devono incastrare man mano tra loro. Non è nemmeno una commedia di conversazione: la comunicazione è diretta allo spettatore, il vero interlocutore è il pubblico: c’è un gioco tra questi attori che giocano, ma non giocano tra di loro, ognuno di loro gioca con sé stesso, con la situazione che gli propone l’autore, e insieme al pubblico.

Parlavi delle trappole del testo: nel metterlo in scena, hai lavorato molto sull’obliquo, sullo sghembo, sulla diagonale, sull’inclinato…

Guarda la scena! E’ tutto in bilico, non si regge niente… Il testo ti suggerisce che sia tutta una coreografia, non a caso alcune delle protagonista sono danzatrici. E via via l’aspetto coreografico si confonde con quello esistenziale.

Hai lavorato con cura perché al pubblico il testo, che è molto ricco e complesso, arrivi con la massima chiarezza. E’ stato addirittura ideato un apposito sistema di amplificazione, basato su sensori che rilevano la posizione degli attori sulla scena e inviano la loro voce amplificata alle casse corrispondenti…

Qui era indispensabile. Conosciamo i problemi di acustica di questo teatro: se fai un classico che tutti conoscono, questo aspetto non è così cruciale. Con un testo del genere invece l’attenzione dello spettatore deve andare alla connessione da battuta a battuta, e spesso anche alle connessioni tra un termine e un altro all’interno della stessa battuta: in effetti, i personaggi non pensano molto a quello che dicono, è come se le loro parole venissero suggerite da una specie di mente universale, da un suggeritore unico per tutti. Per questo le connessioni tra i termini e le scelte sintattiche sono molto importanti.

Perché consiglieresti a uno spettatore di venire a vedere Il panico?

Per curiosità… Per vedere una commedia che è allo stesso tempo contemporanea ed eterna, in bilico tra i due mondi. Il linguaggio è contemporaneo, l’andamento anche, è davvero uno zapping continuo. Ma poi si parla anche del Libro dei morti egizio, che non è certo un “vient de paraitre”. Mi piace immaginare che Il panico sia una specie di “comédie humaine” in forma di danza macabra. La paranoia ha molti elementi di fantascienza, qui c’è piuttosto qualcosa del film horror, un genere in sintonia con il nucleo centrale del testo…

I morti che ritornano sono l’essenza dell’horror… E rispetto al pubblico?

Sono curioso di vedere come reagirà. Non è l’argomento che fa la contemporaneità. Sono totalmente d’accordo con Spregelburd: fai teatro contemporaneo solo se riesci a innescare la possibilità di una diversa percezione da parte del pubblico.

Questo è particolarmente evidente in alcune scene in cui i vivi dialogano con il morto: da un certo punto di vista è un vecchio trucco teatrale, far parlare i personaggi con una entità invisibile. Qui in realtà fa slittare la percezione, perché il dialogo continua a far slittare le attese dello spettatore…

Ma questi non possono essere dialoghi, perché sono battute che rimbalzano in direzioni diverse.

C’è un elemento fondamentale nel modo in cui Spregelburd ha costruito la commedia, l’ironia tragica: gli spettatori sanno tantissime cose che i personaggi non sanno.

Se c’è un elemento di tragedia “alla greca” è proprio l’ineluttabilità della morte: al centro del Panico c’è proprio questo. La commedia diventa ironica proprio grazie ai morti che girano per la scena, mentre lo spasimo di alcuni dei personaggi – come Jessica – nasce l’impossibilità di richiamare in vita i morti, le persone amate che sono andate via. Se ricadiamo in una visione cristiana, o cattolica, dove è contemplata la possibilità della sopravvivenza, se non addirittura della resurrezione, questa commedia non può funzionare.

Il presupposto è dunque che la chiave della cassetta di sicurezza intorno a cui ruota il plot non si possa e non si debba trovare…

No, anche se la faccenda è messa in termini estremamente ludici, ironici… Nel ciclo dei sette peccati capitali, per Spregelburd il panico corrisponde all’accidia, che nella commedia viene addirittura raccontata con un test psichiatrico. Diverse linee di sviluppo della commedia sono proprio basare sull’accidia, nel senso medievale del termine: non la pigrizia, ma spleen, la noia, e di conseguenza il panico: quello che prende chi esce dallo spleen, dalla noia, e precipita nel panico perché non si sa più che cosa fare né cosa sta succedendo…

(Milano, gennaio 2013)

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