La morte si sconta vivendo: dentro l’Ilva di Taranto
L'eremita contemporaneo degli Instabili Vaganti
L’eremita contemporaneo, ultima produzione della compagnia bolognese Instabili Vaganti, che ha debuttato con successo allo STOFF Stockholm Fringe Festival nellagosto di questanno, è ispirata alla vicenda Ilva e dedicata proprio alla città di Taranto.
Una voce fuori campo, cantilenata, sospirata, quella della regista Anna Dora Dorno, ci accompagna dentro una favola moderna, dove il protagonista è loperaio di una fabbrica, eroe dei nostri giorni, eremita contemporaneo costretto nella propria solitudine.
Solo in scena, il corpo acrobatico dellattore Nicola Pianzola, incastrato dentro una scala dacciaio, viene illuminato a intermittenza da video proiezioni, ma lintera performance si svolge nelloscurità di una fabbrica, una di quelle dove si suda e si lavora, si produce, si crea, si suda e si lavora, dove la luce del sole arriva solo per qualche attimo, dalla finestra in alto, a ricordare che cè una vita anche fuori di lì.
Il lavoro fisico dellattore è metafora della condizione di alienazione delloperaio, indagata nei resoconti dei lavoratori e filtrata attraverso le parole di grandi poeti. Il suo corpo diventa inorganico, robotizzato, completamente depauperato, e alla fine resta il sudore come unico residuo di umanità.
La sveglia alle sei del mattino è la prima trappola che condanna luomo alla reiterazione: Nicola va avanti e indietro su un tappeto trasparente, un red carpet sbiadito per poveri, la passerella di una star quotidiana a cui il teatro pretende di dare un nome. In scena cè un operaio X, che parla dei compagni come numeri, perde perfino il volto e anela alla propria identità, ma ha un corpo, braccia spalle e occhi che raccontano speranze e paure. Non riesce più a riconoscere i suoi denti, le sue labbra, le gengive, le narici: il performer ruota così velocemente la testa da moltiplicare i suoi tratti fino a perdere ogni connotato.
Questa progressiva spersonalizzazione, che viene cantata come brutalizzazione, diventa un tormentone pop, un coro da stadio, lo striscione urlato di una manifestazione. Teatro e vita sempre più sincroni, si rispecchiano: nella vita luomo diventa prodotto, merce, oggetto, nel teatro loggetto diventa uomo, persona, presenza. Così lelmetto da saldatore può essere il cadavere di un compagno operaio: Nicola lo sotterra dentro la scatola metallica, e si inginocchia per pregare. Mentre compiange lamico caduto, per un attimo il suo corpo resta fuori dalla gabbia, ma subito è pronto a rientrare, dopo tanti andirivieni giunge alluscio di quella prigione e di nuovo, ingabbiato, striscia, salta, cade, ruota, fino a contorcersi come un feto nel grembo materno. Non si parla solo di morte, ma di una vita in potenza, che in atto non è più o non è ancora vita.
Appeso alle sbarre laterali della scala, Nicola corre per scappare via dallinvolucro, ma resta fermo, come attorcigliato in una tela di ragno: accanto allalienazione, la frustrazione di una fuga abortita.
Alcune parole messe in bocca al performer rischiano a tratti di ingombrare la scena, che si nutre della presenza totalizzante del corpo e della musica dal vivo, elementi di una partitura impeccabile: se saltasse una sola nota, il gesto si farebbe superfluo.
Lo spettacolo si chiude quasi per stremo: lattore ha faticato troppo, gli spettatori con lui hanno sopportato le ripetizioni, i tormentoni, gli scatti, la sua nevrosi ci ha contagiati tutti. Non resta che finire: a fare lepilogo è lelmetto nero, seduto in cima alla scala per ricordare la morte che, fuori dai teatri, ma così vicino a noi, viene sfiorata tutti i giorni.
Giada_Russo
2012-12-13T00:00:00
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