Laboratori, leoni, precarietà, incontri e lacrimucce
Dalle ultime pagine del diario della Biennale 2012: bilancio di unesperienza.
Quest’anno c’è chi ha scelto di rinunciare a una settimana in spiaggia nel bel mezzo delle ferie di agosto per andare a Venezia a vedere, fare, parlare, scrivere di teatro. Attorno agli spazi della Biennale, dalle stanze del Ca Giustinian alle sale sparse per le calli lagunari, si è creata una vera e propria comunità teatrale, affollata di attori, registi, studiosi, organizzatori e appassionati provenienti da tutto il mondo.
Noi giovani critici, entrati a pieno titolo col nostro laboratorio allinterno di questo collettivo deccezione, ci siamo a lungo interrogati sul senso di un festival che ha voluto dedicare tempi e spazi a laboratori e residenze: se da un lato questa scelta ci ha permesso di entrare nel vivo del processo creativo, occasione del tutto privilegiata in una società abituata a godere del prodotto già confezionato, dallaltro ha rappresentato lennesima scommessa sulla formazione. Questione, insomma, che ci tocca tutti da vicino: teatranti e non.
La marxiana alienazione dellindividuo nel lavoro (inevitabile effetto per un lavoratore che produce beni senza che essi gli appartengano), oggi sembra riversarsi, paradossalmente, nella formazione: si producono e si moltiplicano soltanto aspettative, spesso disilluse. Laboratori, tirocini, stage non sono più ponti tra la teoria e la pratica, tra lo studio e il lavoro, ma momenti di ricerca permanente. E come può un giovane di oggi, impegnato nella sfrenata collezione di esperienze che possano arricchire il proprio cv, non sentirsi alienato, frustrato e insoddisfatto? Eppure ai più fortunati capita che il lavoro coincida con le proprie passioni. Lo stato di formazione permanente è forse un elemento imprescindibile in un mestiere, come quello del teatrante, in cui non si finisce mai di imparare: il laboratorio, quindi, come conditio sine qua non per diventare bravi artisti. Ma la forza di chi vive dei propri sogni può diventare alle volte un nervo scoperto: come si fa a vivere di teatro in tempi di crisi come quello attuale? Ecco che si profila la solitudine dellartista, il folle incompreso della nostra società. Abbiamo posto questa domanda a molti giovani allievi dei laboratori e a guardar bene le risposte si assomigliano: la motivazione più forte risiede, un po per tutti, nella necessità di comunicare; si tratta di un bisogno che non risponde a esigenze soltanto personali, ma riguarda la società tutta (soprattutto se nel pieno di una crisi). Un teatro come forma di resistenza dunque, a più livelli, intimo e comunitario. La Biennale di Venezia si è rivelata una opportunità unica di confronto, dove tante solitudini si sono riscoperte parte di un tutto. La creazione di una comunità artistica che condivide pensieri, aspettative e bisogni rappresenta forse una esigenza profonda in unepoca di contingenza e precarietà che, per dirla alla Bauman, è al tempo stesso «letà della comunità, del desiderio smodato di comunità, della ricerca di comunità, dellimmaginazione di comunità». Allora, questa Biennale 2012 sembra essere in linea con i tempi: formazione e comunità le parole dordine. La città lagunare è pronta a diventare la Cambridge dellarte scenica, almeno nei propositi del direttore Àlex Rigola, giunto al terzo anno del suo mandato.
Se la scorsa stagione ha avuto un taglio generazionale, con la partecipazione di alcuni tra i più celebri registi quarantenni del panorama artistico internazionale, come Castellucci, Garcìa, Ostermeier, Lauwers, questanno poco sembra accomunare il Leone doro Luca Ronconi con lo shakespeariano Donnellan e il drammaturgo americano Neil Labute, largentino Tolcachir con la connazionale, belga dadozione, Gabriela Carrizo. Ma forse è proprio alla sperimentazione, alla diversità di linguaggi e poetiche che si voleva puntare. E con risultati imprevisti. Saltano infatti le etichette: tradizione e innovazione si mescolano al punto da impedire ogni tentativo di categorizzazione.
Gli open doors conclusivi hanno rappresentato uno straordinario banco di prova non solo per attori e registi, ma anche per gli spettatori, che hanno potuto accogliere in due soli giorni proposte artistiche tanto diverse: dalla iper-contemporaneità emersa nei lavori delle residenze a un teatro di testo come quello dei laboratori ronconiani a lezione col Pirandello di Questa sera si recita a soggetto, dalla danza onirica di Peeping Tom alla drammaturgia della realtà di Claudio Tolcachir.
Aprire le porte di un laboratorio è un po come entrare in casa di qualcuno per la prima volta: scoprire la realtà dietro la finzione (del teatro e della vita). A volte questa intrusione può essere negata, come nel caso di Declan Donnellan che non ha voluto uditori per il suo laboratorio, perché ha affermato il regista sarebbe come dire a qualcuno: Ti dispiace se stasera mentre fai sesso, mi siedo in un angolo a osservare, prendo degli appunti e porto un paio di studenti?. Chi può biasimarlo, anche a costo di lasciare la curiosità un po insoddisfatta. Quando però questo spazio di grande intimità che è la sala prove viene condiviso, allora può nascere la magia dellincontro: sguardi e immagini si incrociano, mentre cominciano già a nascere idee nuove.
Come ogni ultimo giorno, anche il saluto finale della Biennale ha seminato in giro un po di amarezza, tra valigie preparate al volo, spritz di commiato e qualche lacrimuccia.
Lestate se ne va, gli incontri restano.
Giada_Russo
2012-08-24T00:00:00
Tag: BiennaleTeatro (29), critica teatrale (85)
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