1976-2012 Remake on the Beach: il grande ritorno di un classico del nuovo teatro

Alcune riflessioni sulla ripresa di Einstein on the Beach di Robert Wilson e Philip Glass al Teatro Valli di Reggio Emilia

Pubblicato il 28/05/2012 / di / ateatro n. 139

In questa corte tutti gli uomini sono uguali. Avete già sentito molte altre volte queste parole: Tutti gli uomini sono uguali. Ma le donne? Tutte le donne sono pari agli uomini? C’’è chi dice che lo sono.
Einstein on the Beach, scena 2 “Il vecchio giudice”)

Tempo di revival anni Settanta a teatro. Marina Abramovic porta in scena la sua vita (e la sua morte) in Life and Death of Marina Abramović e fa un “remix” in formato “scatola teatrale” delle sue storiche performance (Biography Remix); nel 2012 Bob Wilson riallestisce Einstein on the Beach, uno dei capolavori del teatro-immagine con la musica originale di Philip Glass inaugurato nel 1976 al festival di Avignone. In Italia fu Franco Quadri a darne una importante descrizione critica nel volume Invenzione di un teatro diverso con intervista allo stesso Wilson (nel film Absolute Wilson la storia di questa straordinaria produzione).
Come è possibile riproporre uno spettacolo “storico” senza il rischio di cadere nel riepilogo o nell’agiografico? Recuperando filologicamente le coreografie originali di Lucinda Childs, i testi di Christopher Knowles e Samuel Johnson, le partiture di Philip Glass.
Chi non ha avuto la possibilità di vedere la versione originale, finora poteva solo documentarsi con le numerose fotografie e i brevi frammenti documentari che si trovano in rete, troppo pochi per azzardare un qualsivoglia paragone. Ma l’esperienza esaltante del concerto-spettacolo riproposto anche in Italia al Teatro Valli, rende superfluo qualunque altro argomento. Emozionante e coinvolgente, Einstein on the Beach è una vera opera d’arte totale.
Cinque ore di visione e di ascolto indimenticabili introdotti da una speciale ouverture a loop in cui il personaggio femminile seduto in un banco, vestito di pantaloni da uomo, camicia bianca, bretelle e scarpe da ginnastica, recita dei numeri a caso, dove Wilson accompagnato dal progetto musicale di Glass, padre della musica minimalista, ispirato da una fotografia di Einstein bambino sulla spiaggia e da una immagine del fisico che suona il violino, svolge i suoi 4 atti con cinque “knee plays”, giunture, collegamenti tra un atto e l’altro sotto il segno della matematica. Così nella monografia dedicata a Wilson Miguel Morey e Carmen Pardo definiscono i knee plays:

Il termine Knee play designa il punto di articolazione di due elementi simili. Fu usato per la prima volta in Einstein on the Beach (e in seguito in CIVIL warS) in cui 5 brevi scene sono agite sul proscenio o su una piattaforma sopra la buca dell’orchestra, nel punto più vicino al pubblico. Hanno una funzione strutturale di unione e insieme di separazione, agendo come un preludio, interludio o postludio alle scene principali. Servono a distogliere l’attenzione dai cambi di scena.

Così Glass sulla genesi dell’opera:

Bob e io ci conoscemmo nel 1973, andai a vedere Life and Times of Joseph Stalin, una piéce silenziosa che durava 12 ore, dalle 7 del pomeriggio alle 7 del mattino del giorno dopo; ci trovammo nel suo spazio prove a Manhattan. Decidemmo di incontrarci ogni settimana per pranzo. E in un paio di mesi, cominciammo a lavorare a una pièce. Quando cominciammo a parlare di un soggetto, io suggerii Gandhi ma Bob non era interessato. Egli provò con Hitler allora fui io che non volli. Poi mi disse: “Che ne dici di Einstein?” Andò così: ero molto colpito da Einstein, era un eroe popolare negli anni Quaranta. L’opera musicale non era una narrazione sulla vita di Einstein. Ciò che legava me e Bob era che pensavamo a qualcosa su spazio e tempo in teatro. Lavorammo per primo con il tempo – 4 ore – e come suddividerlo. Poi pensammo alle immagini e poi alla scena.

Ho scoperto che Bob “pensava” con matita e carta: ogni cosa veniva fuori come disegno. Ho composto musica per questi disegni e poi Bob li ha messi in scena.

I gesti, i movimenti, le pose plastiche degli attori, le coreografie singoli e corali dei performer disposti secondo una rigida disciplina di “quadro”, rivelano una geometria nascosta, quelle “linee principali” e quella “musica del quadro” di cui parla Delacroix nel suo diario. Geometrie di corpi, di traiettorie coreografiche, di luci. Luci che creano architetture, corpi che tagliano la scena in diagonali perfette, uomini e macchinari disposti secondo linee parallele che non si intersecano mai, parole che si ripetono, parole che perdono il loro significato per diventare fonemi, lettere ripetute, sillabe solfeggiate, giochetti linguistici, aggregati di non-sense o semplici enunciati di numeri o di note.
E’ una continua esplosione di visioni e visionarietà, con scene che si susseguono alternate da brevi intermezzi vocali o corali (14 solisti e due cori di sei persone) con musica ossessivamente ripetitiva suonata da un’orchestra non convenzionale (costituita da sassofono soprano, organo elettrico, flauto, clarinetto basso, sassofono alto e due tastiere). Il tutto strutturato come un’equazione matematica, secondo le intenzioni di Glass e Wilson.

Interni ed esterni si alternano seguendo una partitura formale contemporaneamente musicale, visiva e coreutica: un treno che avanza lentamente, un tribunale con i giudici e un prigioniero alla sbarra, la facciata di un palazzo. Molti oggetti prevalgono sulla scena: treni, orologi, astronavi collegati all’idea di attraversamenti spazio-temporali.

Indimenticabile la scena della barra luminosa che impiega 18 minuti (esattamente quanto la durata del pezzo) a spostarsi da orizzontale a verticale e la scena finale con la struttura in ferrotubi da edilizia su tre piani incorniciata da tubi di plastica avvolti a spirale su cui passa una luce rossa punteggiata al neon e dentro cui alcuni performer agiscono e musicisti suonano del free jazz (su ammissione di Wilson la struttura è una citazione dalla scenografia del Living Theatre dal loro spettacolo Frankenstein, creazione collettiva presentata alla Biennale di Venezia del 1964).

Quando si parla del suo teatro-cinema non si fa riferimento solo all’esasperato ralenti tipico del lavoro di Wilson (da Deafman’s Glance in poi), ma anche alle scene che prevedono la stessa scenografia più piccola o più grande o gigantesca a seconda dei tre diversi campi di inquadratura, con relative sfumature di luce che si attenuano, diventando pulviscolari nel lontanissimo o limpidissime nel bagliore del ravvicinato sempre seguendo il ritmo della musica. Bidimensionale e tridimensionale si scambiano i ruoli grazie alla luce. Wilson è un maestro della visione: così Quadri sintetizza l’estetica di Wilson, un’estetica dedicata al tempo e all’immagine:

Wilson o la scoperta del tempo. Lo spazio non è più diviso in punti bensì in attimi e la lunghezza della scena è misurabile nello spazio dell’ora. L’immagine benché ritrovata non è percepibile, se non alla luce della quarta dimensione. E il tempo, da comprendere e di cui appropriarsi nella sua nuova accezione, si pone allo spettatore come chiave per entrare nel teatro di Wilson, attraverso uno sforzo di adesione fisica, superata la passività della contemplazione di un’immagine.
Il tempo ovvero un’entità determinante in un discorso musicale.

Anna_Maria_Monteverdi

2012-05-28T00:00:00




Tag: Biennale (11), Robert Wilson (14)


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