Grandi eventi, spoil system, territorio e progetti culturali

Alcune riflessioni sul Napoli Teatro Festival dopo le Buone Pratiche

Pubblicato il 21/04/2012 / di / ateatro n. 139

A quasi due mesi dalle Buone Pratiche tenutesi lo scorso febbraio a Genova, vorrei condividere alcune riflessioni che riguardano il tanto dibattuto tema sul rapporto tra gestione politica e programmazione culturale, così come sul ruolo e la gestione dei grandi eventi e su cosa rimane su un territorio all’indomani dello spoil system.
Vorrei partire e prendere spunto dal Napoli Teatro Festival Italia. Progetto al quale ho collaborato sin dalle sue origini ricoprendo il ruolo di responsabile organizzativa e di produzione fino lo scorso marzo 2011 (quando ho scelto di non seguire più il progetto Festival, mancando una proposta di collaborazione chiara e condizioni di lavoro adeguate).
Il Teatro Festival Italia è assegnato alla città di Napoli in seguito al bando nazionale indetto nel 2007 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Nel 2007 è istituita la Fondazione Campania dei Festival, Fondazione di diritto di privato, con l’obiettivo di organizzare e produrre l’evento Festival. Successivamente le prime tre edizioni guidate (dal 2008 al 2010) da Renato Quaglia, dal 2011 il festival è diretto da Luca De Fusco che subentra dopo le elezioni regionali avvenute in Campania nel 2010. L’edizione 2012 sarà dal 7 al 25 giugno e dal 25 al 30 settembre.
Il triennio 2008-2010 è stato un periodo intenso documentato da valutazioni quantitative, analisi d’impatto, quantificazioni dei flussi di pubblico nazionale e internazionale e dell’incidenza sul territorio in termini di ricadute economiche e professionali. Nel febbraio/marzo 2011 s’interrompe un ciclo di progettazione, produzione e processi di internazionalizzazione. Dopo forti pressioni da parte del nuovo governo regionale, assistiamo ad un cambio dei vertici della Fondazione Campania dei Festival (Fondazione che gestisce il Napoli Teatro Festival Italia) con i nuovi volti della politica regionale azione che si estende a CDA e direzioni di diverse Istituzioni cittadine.
La nuova gestione subentra applicando la tradizione del conflitto d’interesse a cui siamo stati abituati in questi ultimi anni dalla politica PDL nazionale. Un numero ristretto di persone ricopre cariche decisionali nelle istituzioni culturali pubbliche più attive (o più finanziate) sul territorio con la programmatica intenzione di una tabula rasa di quanto avvenuto in precedenza per costruire il proprio mausoleo e indicare la propria presenza e le linee politiche e culturali del futuro.

Non credo ci sia da stupirsi di fronte a questa dinamica già più volte osservata in varie latitudini nazionali, ma questo non significa accettare e condividere. Il caso Festival è chiaramente legato alle politiche di un territorio, ma è al tempo stesso un caso italiano nelle sue dinamiche, nei suoi sviluppi e negli obiettivi strategici delle sue origini.
Vengo al punto. I grandi progetti, così come il Napoli Teatro Festival Italia, sono dei meccanismi culturali ed economici, che, usufruendo di fondi pubblici di diversa natura possono avere la capacità, o forse meglio, devono avere come obiettivo strategico, la restituzione di risorse in termini di lavoro creativo, professionalizzazione e abitabilità dello spazio collettivo. Sono un volano economico, elaborano architetture che oltre la fondamentale attenzione al rapporto tra “il pubblico e lo spettacolo in sé”, mettono in gioco quegli elementi strategici, culturali ed economici che li rendono delle vere e proprie imprese culturali. Possono stimolare e favorire l’immaginazione e la proiezione concreta verso mondi possibili, principi fondanti di social re-generation.
L’assenza di chiare regole gestionali in Italia, però, permette a chi detiene il potere di riempire a proprio piacimento dei vuoti. Il più delle volte, la gestione di strutture con obiettivi culturali ed economici (tra l’altro finanziate significativamente con fondi pubblici) è affidata al buon senso di chi si trova a guidarne e dirigerne i processi. Così spesso i grandi contenitori, da imprese culturali (che in potenza potrebbero generare innovazione, lavoro e sviluppo per i territori) come per magia si trasformano in macchine di consenso politico, luoghi in cui risolvere e liquidare “piaceri” con la triste conseguenza che la professionalità non è un parametro di valutazione e la cultura nella sua complessità è ridotta per lo più a mero ambito di intrattenimento.
Quando pensiamo a grandi progetti di natura pubblica ancora più lampante è la sistematica attenzione al non investire sulla creazione di una leadership “tecnica” che possa operare al di là dell’alternanza politica ed in regime di trasparenza e competizione. Non s’innescano processi virtuosi, soprattutto all’interno di quelle strutture che nascono per volontà pubblica, che avrebbero gli ingredienti per portare a buon fine i progetti in un’ottica di medio-lungo termine su obiettivi artistici, economici, etici e culturali. Già innescare accessi chiari sulle collaborazioni basate su curriculum e su capacità progettuali darebbe un’altra forma alle nostre imprese culturali.
Personalmente non credo che i grandi progetti siano l’unico strumento di sviluppo e produzione culturale (diversamente metterei in discussione le mie origini e le mie convinzioni). La varietà di percorsi e scelte artistiche non possono che arricchire la ricerca ed il mercato. Ritengo che siano utili al tempo stesso strutture e progetti di ampio respiro capaci di attrarre capitali, di intervenire sui territori e agire in modo efficace sulla scena nazionale ed internazionale, così come ritengo indispensabili le nuove esperienze dalla scena contemporanea, le forme di associazionismo, le compagnie indipendenti in un mercato eterogeneo e sano. Non bisogna confondere i grandi progetti con i carrozzoni inaccessibili a cui siamo stati lungamente abituati.

Per tornare a Napoli, dopo una dinamica attività di spoil system iniziata lo scorso anno, è rimasto poco sul territorio. Per quanto riguarda il settore dello spettacolo dal vivo sono poche le arene di azione (se non gli spazi in cui è presente la gestione regionale e/o i suoi delegati). Lo scorso anno abbiamo visto spettacoli co-prodotti con costi smisurati tra strutture che condividono lo stesso direttore artistico al tempo stesso anche regista dei suddetti spettacoli (nonostante la mole di debiti insoluti dalla Fondazione verso artisti nazionali, internazionali ed ex-lavoratori). Vediamo azioni di politica regionale che salvaguardano l’esistente individuando forme legislative di protezione ad hoc (vedi per esempio la recente modifica dello statuto della Fondazione Campania dei Festival in Fondazione “in house”).
I programmi del Festival e del Teatro Stabile della Città si allontanano dagli obiettivi artistici che tali strutture dovrebbero perseguire in termini di sviluppo. Il personale è assunto in base all’evento o alla relazione politica del momento a prescindere da competenze curriculari (vedi non ultimo tra le notizie riportate dalla stampa l’assunzione presso il Festival della figlia dell’ex-ministro Di Donato, attualmente nel CDA del Teatro Stabile di Napoli – tra l’altro “travolto da Tangentopoli durante la Prima Repubblica” come pubblicato in “Repubblica Napoli” del 27 e 28 gennaio 2012 e in ilfattoquotidiano.it del 23 dicembre 2011). Il contraltare è la dispersione di capitale umano e di esperienze in precedenza costruite; la brusca interruzione di percorsi artistici e culturali, la depressione economica, il tutto corredato da un incontrollabile sperpero di denaro pubblico in una fase storica di dichiarata recessione economica.
Noi in qualità di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo dovremmo pretendere trasparenza soprattutto in quei progetti che utilizzano per più della metà del proprio capitale finanziamenti pubblici e, così come avviene in Europa, dovrebbe esserci attenzione affinché all’interno delle strutture pubbliche non ci siano relazioni familiari che si alternano o alla molteplicità di incarichi incongruenti tra loro. Sono necessari e indispensabili bandi, concorsi ad evidenza pubblica, trasparenza sui compensi, concorrenza, merito e soprattutto capacità di esprimere progetti artistici e strategici.

Noi dove siamo? E’ necessario un ruolo artistico, civile e politico di quanti operano a diverso titolo all’interno del settore dello spettacolo dal vivo e della produzione culturale in genere, consapevoli del nostro agire, avendo la capacità di essere “gruppo di pressione” e ostacolare estensioni “incontrollate” del potere attraverso il nostro rifiuto e la nostra denuncia.
Tema questo affrontato da prese di posizione che vengono dai nuovi movimenti, dalle reti e da esperienze che in questi ultimi mesi stanno conquistando spazio a gran voce sperimentando modelli sul piano nazionale e locale.
E’ chiaro che ogni territorio ha la sua storia, ma la discontinuità e la precarietà economica ha avuto la capacità di trasformarci in “opportunisti” per necessità e convenienza. Abbiamo vissuto a più riprese e tuttora viviamo una condizione in cui l’indipendenza intellettuale ha un prezzo alto che inibisce la spinta reale verso la rottura e il rinnovamento.
Siamo disposti a rinunciare ad un sistema che prevalentemente si basa sulla cooptazione e la relazione diretta? Siamo disposti ad aprire le nostre strutture all’insegna di processi meritocratici?

Oggi anche a Napoli, come in tante città d’Italia si sta costruendo una voce collettiva di dissenso nel settore dello spettacolo dal vivo e della cultura, per denunciare e proporre delle alternative ad un sistema carente nelle politiche culturali e nella gestione dei fondi pubblici (dalla costituzione dell’Assemblea Permanente ad opera di lavoratori dello spettacolo, all’occupazione della sede del Forum delle Culture e ad altre reti). Non ultimo un Comitato per un duplice ricorso al Consiglio di Stato, partito dall’Assemblea Permanente e costituitosi contro la Fondazione Campania Festival con oggetto: l’arbitraria gestione di fondi europei (Por-Fesr) e il repentino cambio di Statuto avvenuto il 30 dicembre 2011 (da Fondazione di diritto privato a Fondazione in house della Regione). Un attacco giuridico, ma chiaramente politico, su un modo monopolista e partitico di interpretare ruoli e politiche culturali.

Qual è il migliore dei mondi possibili al quale aspiriamo?

Giuliana_Ciancio

2012-04-21T00:00:00




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