Giuseppe Bertolucci, un Dramaturg all’italiana?

La traccia dell'intervento a Radio Vaticana il 19 giugno 2012

Pubblicato il 07/03/2012 / di / ateatro n. 139

C’’è un aspetto di Giuseppe Bertolucci -– figlio di un grande poeta e fratello minore di un grande regista – che mi fa piacere ricordare, oltre ai suoi meriti di regista cinematografico e di uomo di cultura.
E’ il suo lavoro con il teatro, in teatro. O meglio, il suo incontro con alcuni attori. In particolare Roberto Benigni, Sabina Guzzanti e Fabrizio Gifuni: tre attori – o meglio tre autori-attori– molto diversi tra loro.
Benigni era un ragazzaccio che arrivava dalla Toscana – e non dalla toscana delle città, ma dalla campagna, dal popolo, che faceva ridere, diceva molte parolacce e aveva delle storie da raccontare.
Sabina Guzzanti era una imitatrice straordinariamente talentuosa, un processo di immedesimazione impressionante, che proveniva da una ambiente intellettuale, colto, animata da una crescente passione politica; era arrivata al successo televisivo, con programmi di satira politica come La tv delle ragazze.
Fabrizio Gifuni era un giovane attore diplomato all’’Accademia d’’Arte Drammatica Silvio D’’Amico, che dopo aver lavorato nel teatro “serio” con alcuni ottimi registi era stato protagonista di diversi sceneggiati televisivi di successo, nei panni di alcune importanti figure della nostra storia recente.
Insomma, tre attori con storie, esperienze e ambizioni molto diverse.
A un certo punto della loro carriera, hanno incontrato Giuseppe Bertolucci, che ha iniziato a guardarli: ha cominciato a guardare come stavano in scena, quelle che potevano essere le loro qualità e le loro doti. Ma ha iniziato a guardare anche chi erano – e me lo vedo, con quella sua aria da gattone apparentemente neghittoso ma attentissimo e sensibile.
Quei tre giovani attori avevano già un po’ di materiale, e magari qualche idea. Ma mancava qualcosa, e loro lo intuivano.
E hanno trovato Giuseppe Bertolucci, uno che sapeva cogliere il talento, e sapeva guardare. E già questo è raro. Poi aveva un’altra dote, ancora più rara: sapeva come far crescere il talento. Perché doveva avere un segreto.
Quando si trovava di fronte un attore di talento, non capiva solo che era bravo, ma capiva chi era – forse meglio dell’oggetto del suo sguardo. E piano piano, attraverso il lavoro di palcoscenico, riusciva a dargli una identità. O meglio, a fargli scoprire le sue radici antropologiche e culturali e il suo punto di vista.
Ecco la magia: prendeva un attore, e riusciva a farlo diventare sé stesso. A trovare il fragile e ambiguo punto d’equilibrio tra la persona e il personaggio, tra l’attore e la maschera.
Per fare questo, non b asta competenza teatrale, la conoscenza tecnica. Servono sensibilità umana e cultura, serve una consuetudine con il mondo culturale e con la vita del teatro, con la sua materialità.
Così è riuscito nel miracolo, lavorando oltretutto su tre generi e forme molti diversi: un assolo da cabaret, una satira impertinente, due testi “alti”, in origine non teatrali, di due capisaldi della nostra letteratura novecentesca.
Grazie a Giuseppe Bertolucci , Roberto Benigni è diventato Roberto Benigni con Cioni Mario (che poi radicalmente riadattato sarebbe diventato anche un film, Berlinguer ti voglio bene). Grazie a Giuseppe Bertolucci, Sabina Guzzanti è diventata Sabina Guzzanti. E Grazie a Giuseppe Bertolucci, Fabrizio Gifuni è Fabrizio Gifuni, con due straordinari monologhi tratti da Gadda e Pasolini: tra il 2004 e il 2010 Bertolucci e Gifuni realizzano il progetto Gadda e Pasolini, antibiografia di una nazione (il DVD è edito da Minimum Fax), che comprende Na specie de cadavere lunghissimo (Premio Hystrio) e L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro (Premo Ubu 2010 come miglior spettacolo dell’anno e per il miglior attore, Premio della critica e Premio maschere d’oro del teatro).
L’altro aspetto straordinario è che queste figure non si fossilizzano nella maschera, nel cliché: quelli che vediamo in scena sono e restano esseri umani. Sono personaggi che possono e devono evolvere: lo hanno fatto e continuano a farlo, nel corso della loro carriera. Tutto questo è possibile perché nel nucleo incandescente che hanno trovato e coltivato con Giuseppe Bartolucci c’è una grande possibilità di sviluppo, una grande libertà.
Gli attori, i comici, cercano spesso degli autori: hanno un gran bisogno di battute e di sketch, per cui cercano qualcuno che glieli scriva (o li copi e li adatti). Giuseppe Bertolucci non scriveva gag o copioni, faceva un altro mestiere. Per comodità potremmo dire che faceva il Dramaturg, quella figura che ha un ruolo centrale nel teatro tedesco, come mediatore tra i diversi ruoli che concorrono allo spettacolo (il teatro che lo produce, e poi il regista, l’autore, gli attori, il pubblico), con l’obiettivo di ridare energia e dinamicità al lavoro teatrale.
Giuseppe Bertolucci faceva il Dramaturg, forse senza farci troppo caso. E in una maniera diversa dai suoi colleghi tedeschi. Perché il nostro è da sempre un teatro da sempre di attori, prima che di testi o di registi o di istituzioni teatrali. Dunque in Italia il Dramaturg si può facilmente trovare a lavorare con attori – e spesso con attori solisti.
In questo Giuseppe Bertolucci non è stato il primo, né il solo. In questa direzione, per esempio, hanno lavorato Roberto Lerici per Gigi Proietti, e soprattutto Gabriele Vacis per Marco Paolini e Laura Curino. Ecco, Giuseppe Bertolucci è, con loro, un possibile esempio di “Dramaturg all’italiana”.

un grazie di cuore a Antonella Palermo.

Giuseppe Bertolucci sul suo incontro con Roberto Benigni

Dopo i primi balbettamenti cinematografici e televisivi che mi sono comunque molto serviti (assieme al lavoro con Bernardo) per avvicinarmi in punta di piedi, credendoci e non credendoci, all’arte o al mestiere di regista, a metà degli anni Settanta, trascinato da un gruppo di amici (Lucia Poli, Donato Sannini, Bruno Mazzali e Antonio Olivo) ho partecipato all’’apertura di uno spazio, il Salone Alberico, che ha avuto, per un periodo breve ma intenso, una funzione importante in quella che allora veniva chiamata “l’avanguardia teatrale romana”.
E’ lì che ho incontrato uno straordinario elfo delle cantine e dei dopocena: Roberto Benigni. Ci siamo piaciuti subito e si è stabilita tra noi una “convivenza creativa” molto felice e molto ricca. Con Roberto mi sono sentito per la prima volta un “fratello maggiore”, anche se il rapporto tra noi è sempre stato di assoluta parità: nel senso che, mentre io aiutavo Roberto a scoprire la miniera del suo talento, contemporaneamente la presenza di Roberto, l’avere tra le mani quel meraviglioso grimaldello comico e poetico, mi ha consentito di uscire dall’incertezza e di confermare la mia vocazione alla regia.
Questo è quanto ci dobbiamo reciprocamente: la definizione delle nostre rispettive identità, la certezza di “esserci” creativamente e artisticamente. Non è poco. Poi, dopo le prime appassionanti esperienze (il monologo teatrale Cioni Mario Di Gaspare Fu Giulia e il suo prolungamento cinematografico Berlinguer ti voglio bene) le nostre strade hanno preso due direzioni esattamente opposte: Roberto ha marciato deciso a grandi passi verso la comunicazione, la popolarità, fino all’immenso successo di questi ultimi anni, mentre il mio percorso centrifugo – credo altrettanto legittimo – mi ha portato sempre più frequentemente sui sentieri appartati e desueti della sperimentazione e della marginalità. E’ curioso come una iniziale, comune “affinità elettiva” possa poi divaricarsi in opzioni così diverse, dando luogo a opere e destini così distanti, senza peraltro che la nostra amicizia abbia avuto a patirne.
Comunque, a proposito di Berlinguer ti voglio bene, senza voler dare la stura a una piena di ricordi che un intero volume non basterebbe a contenere, voglio ricordare che quel primo piccolo film aspro, romantico ed eccessivo (così “mio”) può essere giustamente considerato (assieme al contiguo Ecce Bombo di Nanni Moretti) l’atto di nascita di una generazione di nuovi comici e di un genere che è stato – per tutti gli anni Ottanta e oltre – l’asse portante della nostra disastrata industria cinematografica. E’ paradossale che nel Dna del grande cinema commerciale italiano ci sia l’impronta di un marginale come me. Ma è la dimostrazione che gli spazi della trasgressione, della sperimentazione, della contaminazione sono spesso, al cinema ma non solo, l’anticamera dei grandi fenomeni popolari; e che dunque la salvaguardia di quegli spazi (sempre più difficile nell’era della standardizzazione televisiva) non è solo una questione di difesa del pluralismo creativo, ma dovrebbe essere una delle prime preoccupazioni di una industria cinematografica. Se esistesse.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2012-03-07T00:00:00




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