Teatro della persona, teatri delle persone
Una riflessione sul teatro sociale e di comunità
Questa è la prima versione di un testo sul teatro sociale, messo a punto in occasione del Master di teatro sociale e di comunità tenuto alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” nel gennaio-febbraio 2012. Vuole offrire una prima base di discussione, in vista ulteriori approfondimenti. Osservazioni, critiche e suggerimenti sono graditi.
Un’arte sociale e di comunità
Una premessa superflua: tutto il teatro è da sempre «teatro sociale» e «teatro di comunità».
Il teatro è un’arte sociale, a differenza per esempio della pittura e della scrittura: un quadro o una poesia esistono indipendentemente da chi li guarda o legge, in quanto oggetti e opere. Al contrario, uno spettacolo senza pubblico non può esistere, non ha senso.
Nelle parole di Claudio Meldolesi, «l’azione teatrale proviene dalla mente… ma con modalità collettive anziché individualizzatrici, controllabili anziché dominatrici, coinvolgenti anziché introverse, portatrici di arricchimento affettivo e artistico».
Il teatro mette in azione e in relazione tre comunità:
– quella di chi crea e realizza lo spettacolo (che non è mai un’opera di creazione individuale ma coinvolge una pluralità di soggetti «creatori»);
– quella di chi assiste allo spettacolo (il pubblico), che si fonde in una comunità più ampia con chi agisce sulla scena;
– quella della società che ospita lo spettacolo, la polis nel suo complesso.
Il teatro sociale e di comunità è dunque un’esperienza che rientra nell’ambito del teatro, e ne accentua alcuni aspetti. E’ anche «teatro della persona» (nella prospettiva di Claudio Meldolesi); e «teatro antropologico» (per riprendere l’approccio di Piergiorgio Giacché):
«Potremmo avanzare l’ipotesi che, all’origine tanto dell’antropologia quanto del teatro moderni, ci siano un Io e un Altro e la relazione degli sguardi che li lega. E, in entrambe i casi, la direzione primaria dello sguardo, e con essa quindi la direzione primaria fra osservante e osservato, è raddoppiata da una direzione opposta che inverte i ruoli, trasformando l’osservante in osservato, e viceversa. A teatro (…) lo spettatore rappresenta l’osservante primario, pur essendo nello stesso tempo l’osservato: anche l’attore infatti guarda lo spettatore, e lo guarda con quello stesso miscuglio di curiosità, diffidenza e sorpresa che è intrinsecamente alla base di ogni relazione con l’altro e della fascinazione che la sostanzia.» (Marco De Marinis, Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea, la casa Usher, Firenze, 2011, p. 11)
E’ una esperienza legata «storicamente e culturalmente con la vicenda del nuovo teatro in alcuni dei suoi tratti fondamentali» (Cristina Valenti, Normalmente stranieri, in «Teatri delle diversità», a. XIV, n. 2 dicembre 2008). Quello che dice Eugenio Barba, raccontando la nascita del teatro di gruppo e dell’arcipelago del «terzo teatro», potrebbe applicarsi anche al teatro sociale:
«Nasce un teatro come espressione di piccoli gruppi di persone che forse presentano necessità e contraddizioni che riguardano un numero limitato di individui. Essi, però, esistono, si manifestano e agiscono fra di noi.
Sono gruppi che non si sognano come veicoli di grandi parole, di grandi messaggi, di grandi dibattiti, ma che cercano la strada perché il singolo entri in contatto con il singolo, il diverso con il diverso.
Non contenuti nuovi, ma rapporti nuovi, spesso difficilmente decifrabili, vengono a prendere il posto lasciato vuoto dagli abituali contenuti del teatro. Non è un “altro teatro” che nasce. Altre situazioni cominciano a essere chiamate teatro.» (Eugenio Barba, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, Ubulibri, Milano, 1985, 1996, p. 181)
Tecniche dell’Io, del Tu e del Noi
L’incontro con il pubblico presuppone da sempre il lavoro preparatorio dei creatori dello spettacolo: «Venite a vedere (e partecipare a) quello che abbiamo preparato per voi» è il patto presupposto da ogni evento teatrale. Quello che accade «prima» dell’evento spettacolare è il processo delle prove o, se si preferisce, la drammaturgia, intesa come «tutto ciò che accade prima dell’inizio dello spettacolo».
Nel corso dell’itinerario creativo di avvicinamento allo spettacolo – e anche prima, soprattutto nell’educazione, preparazione e training degli attori, e nel processo della scrittura drammaturgica vera e propria – vengono utilizzate diverse tecniche. Queste tecniche attoriali e di scrittura si sono moltiplicate, affinate, approfondite, in quello che è stato anche un tentativo di dare scientificità al lavoro teatrale. Il percorso è iniziato ai primi del Novecento, con il padre della regia contemporanea Konstantin Stanislavskij. Poi è proseguito con le ricerche di Vsevolod Mejerchol’d (la biomeccanica), Etienne Decroux (il mimo), Ingmar Lindth (l’improvvisazione), Jerzy Grotowski (il training del Teatr Laboratorium e il parateatro), gli esercizi del Living Theatre, dell’Odin Teatret o di Tadashi Suzuki, solo per citare le esperienze più note.
Ciascun creatore ha messo a punto una gamma di esercizi, giochi, metodi, training, pratiche, discipline, percorsi, situazioni (ma anche sperimentazioni e ricerche). Queste tecniche (cui è difficile dare definizioni precise, visto che ciascun creatore affina le proprie, facendole evolvere nel corso della propria carriera teatrale) operano a diversi livelli.
In primo luogo, si sono sviluppate quelle che potremmo definire «Tecniche dell’Io», che lavorano tra l’altro su:
– il corpo (il gesto, la danza);
– la voce (la dizione, il canto);
– l’attenzione e l’energia (la «presenza scenica»);
– il rapporto con gli oggetti;
– la percezione del tempo e dello spazio;
– la memoria e l’identità personale (le emozioni e i ricordi, il personaggio, la maschera).
Un secondo gruppo di tecniche riguarda l’incontro e la relazione interpersonale (il rapporto Io-Tu), con pratiche che per esempio lavorano su:
– l’incontro e la scoperta dell’Altro;
– le varie forme di dialogo e di interazione tra più individui, sia a livello fisico-corporeo, come la Contact Improvisation, sia a livello spaziale e prossemico, sia a livello verbale.
Un terzo gruppo di tecniche lavora sulle dinamiche del gruppo e sui meccanismi di aggregazione, fino a costruire una comunità (il rapporto Io-Molti e la creazione di un Noi), per esempio con il lavoro su:
– il ruolo (ovvero l’insieme dello norme e delle aspettative che un sistema sociale tende a prescrivere all’individuo);
– l’identità collettiva (il coro; il rito);
– la creazione di un gruppo-compagnia con la propria identità e il proprio linguaggio (la comunità).
Molte di queste tecniche ed esercizi lavorano in parallelo sul rapporto realtà-finzione, anche nella accezione del rapporto tra persona (reale) e personaggio (fittizio).
Tutto il mondo è teatro
La tradizione teatrale è fondata una serie di concetti chiave che hanno accompagnato l’intera storia della cultura (non solo Occidentale): personaggio, parti e ruoli, maschera, scena-retroscena-proscenio, attore-spettatore, tragedia-commedia, coro… Questi termini ricorrono anche fuori dal contesto strettamente spettacolare, come metafore che ci aiutano a comprendere numerosi altri fenomeni dell’esistenza.
E’ dunque possibile utilizzare il teatro come strumento d’analisi, per meglio comprendere le interazioni tra esseri umani e il loro rapporto con la realtà: la scoperta della natura teatrale dei rapporti sociali e della relazione con la realtà esplode con la forza di una rivelazione nel teatro di Shakespeare («Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti», Come vi piace, atto II, scena VII) e nel gran teatro barocco del Siglo de Oro (La vita è sogno di Calderón de la Barca).
Più di recente, in parallelo all’evoluzione novecentesca delle arti dello spettacolo dal vivo, è emersa la consapevolezza che molte situazioni della nostra vita quotidiana possono essere analizzate in termini di evento teatrale. E’ l’approccio – o il trucco – utilizzato da un sociologo come Erving Goffman:
«Nello sviluppare lo schema concettuale adoperato in questo studio, è stato fatto uso di un linguaggio teatrale. Ho parlato di attori e di pubblico, di routines e di parti, di rappresentazioni che riescono e rappresentazioni che si afflosciano, di “imbeccate”, di ambientazione scenica e di retroscena, di esigenze, capacità e di strategie drammaturgiche. Adesso bisogna ammettere che il tentativo di spingere una semplice analogia fino a questo punto è stato in parte frutto di uno stratagemma retorico». (Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, ed. or. 1956, tr. it. 1969)
Da qui a trasferire alcune esperienze e conoscenze maturate in ambito teatrale per accrescere la nostra consapevolezza e intervenire sulle nostre modalità di interazione con noi stessi, gli altri e il mondo che ci circonda, il passo è breve. Così una serie di tecniche nate e sviluppate in ambito teatrale sono state adottate in altri ambiti, con obiettivi diversi.
Questo lavoro, che attinge a tecniche teatrali per applicarle in ambiti non strettamente teatrali (parateatro), non ha più per obiettivo primario la realizzazione dello spettacolo (che anzi può addirittura non essere nemmeno realizzato). Nei paesi anglosassoni si parla di applied theatre, ovvero di teatro applicato. Il teatro, lo spettacolo non è più un fine, ma diventa un mezzo.
Un teatro senza spettatore
Il teatro sociale e di comunità non punta all’intrattenimento, al divertimento, all’evasione, e nemmeno all’arricchimento culturale, e non si esaurisce nell’evento spettacolare. Al limite, potrebbe anche essere un “teatro senza spettatore”, che si rivolge prima di tutto a chi lo fa. Ha come obiettivi, almeno nella fase iniziale “senza spettatore”:
– superare rigidità e inibizioni;
– accrescere la consapevolezza di sé stessi e la propria capacità di azione;
– facilitare le relazioni interpersonali e di gruppo;
– sviluppare la capacità d’espressione e la creatività individuale e collettiva (fisico-gestuale o sonoro-verbale);
– favorire l’integrazione del singolo nel gruppo, e del gruppo nel corpo sociale.
Terapie del corpo e della mente
A partire dagli inizi del Novecento, le affinità e gli scambi tra il teatro e le psicoterapie – soprattutto le terapie di gruppo – sono stati costanti e fecondi.
L’invenzione della psicoanalisi da parte di Sigmund Freud (che fonda la propria teoria psicologica e sociale su un mito teatrale come quello di Edipo) è pressoché contemporanea alle ricerche di Stanislavskij, che parla di «lavoro dell’attore su sé stesso». Le affinità tra il concetto psicoanalitico di «ritorno del rimosso» e quello stanislavskiano di «riviviscenza» non vanno enfatizzate, ma sono evidenti, come è evidente la consapevolezza della complessità della natura umana presupposta sia da Freud sia da Stanislavskij. Con queste premesse, non sorprende che la psicoterapia (e soprattutto la terapia di gruppo) si sia rapidamente appropriata di terminologie e tecniche teatrali, per adattarle ai propri obiettivi.
All’inizio degli anni Venti, Jacob Levi Moreno (fondatore a Vienna nel 1921 dello Stegreiftheater, ovvero teatro di improvvisazione) mette a punto la tecnica dello psicodramma, con l’obiettivo di sviluppare la spontaneità dei soggetti. Lo psicodramma nella sua forma classica prevede una scena in cui si svolge l’azione, un protagonista e una équipe psicodrammatica i cui componenti, detti «Io ausiliari»,
«hanno la funzione di recitare quelle parti di cui il paziente può aver bisogno per presentare adeguatamente la propria situazione (…) dando corpo o a persone reali dell’ambiente del paziente come il padre, la madre o il figlio, o a figure simboliche come Dio, il Giudice, o Satana caratteristici del mondo del paziente.» (Jacob Moreno, Gruppenpsychotherapie und Psychodrama. Einleitung in die Theorie und Praxis, Thieme, Stuttgart, 1959, p. 82)
Nello psicodramma, il soggetto si trova a ripetere in forma teatrale (e dunque a rivivere) un avvenimento del passato particolarmente traumatico, interpretando (attraverso l’improvvisazione) possibili varianti, per prepararsi ad affrontare situazioni analoghe in futuro. Un uditorio fa da eco al protagonista, manifestando le proprie emozioni di fronte alle vicende rappresentate. Moreno riprende da Freud il concetto di acting out, ovvero un agire che inconsciamente diminuisce le tensioni interne, scaricando impulsi tenuti a freno e contenuti rimossi.
Anche altre forme di terapia, più o meno ispirate all’insegnamento di Moreno, fanno consapevole ricorso a tecniche e situazioni tipicamente teatrali.
La delimitazione di una scena teatrale consente di selezionare e isolare, nell’infinita gamma dei comportamenti umani, alcune variabili, rendendo più controllabile l’evento (come accade negli esperimenti scientifici). Si tratta di evidenziare di volta in volta alcuni aspetti ritenuti cruciali, per concentrare l’attenzione e l’azione su di essi. La creazione di una cornice protettiva come quella della finzione permette di sperimentare diverse forme di comportamento, ma anche emozioni, ruoli, relazioni, pensieri, a prescindere dalle conseguenze che possono avere. Si tratta, in altri termini, di «delimitare il campo dello scontro». E’ una necessità condivisa da teatranti come Eugenio Barba, che parla del
«bisogno di trasformare il teatro in una ben delimitata situazione che permetta di andare aldilà dei rapporti e delle percezioni che debbono caratterizzare la vita di ogni giorno (…) Questa ricerca cosciente di colui che sceglie il teatro non per esserne “spettatore”, ma come situazione per raggiungere un diverso stato di esperienza, questo è già superare i limiti definiti da una convenzione vecchia di pochi secoli: il Teatro.» (Eugenio Barba, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, cit., p. 185)
La drammaterapia usa i processi drammatici, narrativi, immaginativi tipici del teatro per sviluppare la creatività e le capacità di relazionarsi con il mondo e con gli altri. Un percorso di drammaterapia e ogni singolo incontro si strutturano tipicamente in tre fasi:
– fondazione: la creazione di un clima di gruppo basato sulla fiducia, l’intimità e la collaborazione; e l’attivazione delle risorse espressive dei partecipanti attraverso esercizi fisici, giochi di conoscenza e di fiducia, improvvisazione corporea, immaginativa e narrativa;
– creazione: un momento di ricerca creativa in cui è possibile affrontare alcuni elementi problematici personali attraverso la creazione di scene, attivando il processo creativo drammatico attraverso giochi di ruolo immaginativi, sociali e/o familiari;
– condivisione: i partecipanti rielaborano il percorso condividendo i vissuti soggettivi attraverso lo scambio verbale o in termini simbolici e immaginativi, con un gesto o con un segno, o semplicemente con il puro esserci.
Il Playback Theatre è una forma di improvvisazione teatrale nata intorno alla metà degli anni Settanta negli USA e poi diffusa anche in Europa, in cui il soggetto narra un momento della propria storia personale, sceglie nel gruppo gli attori destinati a impersonare i vari personaggi e vede la sua storia ricreata in forma teatrale.
Anche la Gestalt Therapy, messa a punto da Fritz Perls (che in gioventù, a Berlino, era stato anche attore in spettacoli diretti da Max Reinhardt), utilizza diverse tecniche teatrali, con particolare attenzione alla comunicazione non verbale. Una delle tecniche utilizzate per esplorare i rapporto dell’individuo con sé stesso e con gli altri è quella della «sedia vuota»: il soggetto si rivolge a una sedia vuota, come se vi fosse seduta una persona e può anche ricreare conversazioni tra due o più persone per lui significative.
Rispetto alla Gestalt Therapy, che enfatizza l’esperienza e la consapevolezza, le terapie cognitive privilegiano piuttosto credenze e interpretazioni, e possono usare in questa chiave situazioni teatrali.
Esemplare nel rapporto tra teatro e disagio psichico resta l’incontro di Giuliano Scabia con i pazienti dell’ospedale psichiatrico di Trieste diretto da Franco Basaglia, che porterà all’esperienza di Marco Cavallo: una grande scultura teatrale di cartapesta intorno alla quale il 25 febbraio 1973 Scabia organizzò, in una festa-spettacolo, la fuoriuscita dei ricoverati dall’ospedale, nella città. Con questo «cavallo di Troia alla rovescia», la pratica teatrale è diventata strumento di liberazione individuale e collettiva.
La drammanalisi opera nella direzione opposta, introducendo competenze e tecniche psicologiche in ambito teatrale: si propone di «rendere più efficace il processo formativo dell’attore» facendo «riferimento, innanzitutto, alla teoria psicoanalitica dell’azione teatrale come sublimazione delle pulsioni esibizionistica e voyeuristica» (Gianni Tibaldi, Per una introduzione alla «drammanalisi», in «Teatri delle diversità», n. 51, anno 14, n. 51, ottobre 2009).
L’approccio psicoterapeutico privilegia di solito l’aspetto verbale, anche attraverso improvvisazioni, e molti protocolli terapeutici vietano esplicitamente il contatto fisico tra terapeuta e paziente. Altre tecniche e metodi lavorano invece sulla corporeità, a partire dall’invenzione della biomeccanica, il «sistema di allenamento globale dell’attore» ideato da Vsevolod Mejerchol’d tra il 1913 e il 1917, e sviluppato successivamente.
Mejerchol’d divideva il lavoro dell’attore in tre fasi:
– intenzione: la percezione intellettuale del compito ricevuto;
– esecuzione fisica: la realizzazione plastica dell’idea dell’attore;
– reazione psichica: l’emersione della vita emozionale dell’attore.
Centrale nell’approccio biomeccanico è dunque il rapporto tra l’aspetto fisico e quello emotivo, o meglio l’effetto reciproco di postura e gesto da un lato ed emozioni dall’altro.
In teatro, come nel lavoro sulle disabilità fisiche e mentali, sono state messe a punto diverse tecniche del corpo, che attingono alle fonti più varie: alcune sono state sviluppate in ambito terapeutico (per esempio la tecnica Alexander), altre attingono all’ambito sportivo (tecniche di allenamento e ginnastiche riabilitative), o spirituale-filosofico (come lo yoga o il tai chi, o l’euritmia di Rudolf Steiner).
Sulla scia della biomeccanica (e del metodo ideato da Rudolf Laban), e attingendo anche a questo repertorio di esercizi, sono emerse varie forme di training fisico-gestuale, che sono poi entrate nel bagaglio di alcuni operatori di teatro sociale.
Agit prop e animazione
Le esperienze di teatro sociale e di comunità hanno inevitabilmente un impatto sulla polis. Dopo l’esplosione del teatro politico degli anni Venti e Trenta (con il cosiddetto «agit prop»), anche i movimenti di liberazione degli anni Sessanta hanno scelto di utilizzare il teatro come strumento di consapevolezza, espressione e propaganda: basti pensare a una compagnia come il Teatro Campesino, che ha dato voce e corpo alle rivendicazioni degli immigrati messicani in California; al Bread & Puppet, con gli spettacoli-sfilata contro la guerra del Vietnam; o al Playhouse of the Ridiculous e a tutti i gruppi che hanno dato visibilità ai movimenti di liberazione sessuale (e soprattutto omosessuale) degli anni Sessanta.
In questo contesto, all’inizio degli anni Settanta il brasiliano Augusto Boal, rilanciando la Pedagogia degli Oppressi (1970) di Paulo Freire, ha sviluppato e teorizzato il Teatro dell’Oppresso, un metodo che usa il teatro come linguaggio, come mezzo di conoscenza e di trasformazione della realtà interiore, relazionale e sociale, rendendo attivo il pubblico. Il punto di partenza è sempre la persona che si mette in gioco, raccontando un episodio della propria storia, che viene fatta propria dal gruppo e viene successivamente presentata al pubblico titolo_paragrafo forma di domanda.
Una delle tecniche tipiche del Teatro dell’Oppresso è il teatro-forum:
«Nel teatro-forum il lavoro parte sempre da racconti d’oppressione. Gli attori pongono una domanda al pubblico e cercano, insieme agli spettatori, di trovare eventuali soluzioni al problema posto. Quindi nel teatro-forum ci sono sempre due tempi. Un primo tempo in cui si mette in scena la storia di qualcuno che lotta, invano, per ottenere qualcosa. Un secondo tempo in cui si permette al pubblico d’interrompere lo spettacolo in qualsiasi momento, di salire in scena e prendere il posto di un personaggio per mostrare quello che avrebbe dovuto fare per migliorare la situazione. C’è poi un personaggio mediatore – quello del jolly – che controlla che non si vada fuori tema, che si rimanga nell’ambito della domanda posta. Il jolly ha anche la funzione di dare fiducia agli spettatori, di aiutarli a lasciare la poltrona e a salire sulla scena.» (Philippe De Moulain, «Esperienze belghe in ambiente carcerario», in Robert Wilson o il teatro del tempo, Ubulibri, Milano, 1999, p. 145)
Un’esperienza affine è quella dell’animazione teatrale, che si sviluppa tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, in particolare nel lavoro con bambini e ragazzi, con funzione pedagogica e di socializzazione (sulla scia del Programma per un teatro proletario dei bambini scritto tra il 1924 e il 1928 a Walter Benjamin e della “scuola attiva” teorizzata da Célestin Freinet). Grazie all’impegno di personalità come Remo Rostagno, Mafra Gagliardi, Franco Passatore, si passa in quel periodo da un «teatro per ragazzi» a un «teatro con i ragazzi», o meglio ancora «dei ragazzi». La pratica teatrale diventa strumento pedagogico (con qualche anticipo sul cosiddetto edutainment, ovvero “educare divertendo”).
La dimensione pedagogica ha avuto un notevole sviluppo, soprattutto negli ultimi anni, anche nella forma di «teatro d’impresa»: tecniche teatrali vengono adattate e integrate in percorsi di formazione, nella riqualificazione e nella motivazione di lavoratori e manager. Le tecniche sono simili a quelle dell’animazione e del Teatro dell’Oppresso (o addirittura riprese da queste forme), ma gli obiettivi sono diversi, tanto da suscitare reazioni e dibattiti:
«Sappiamo che ci sono alcuni gruppi che si dedicano a lavorare in favore delle imprese, obbedendo ai loro comandi, cercando di adattare i loro lavoratori a corrispondere meglio al proprio ruolo, così che i lavoratori possano diventare più fruttuosi, più lucrativi. Anche se loro usano, in forme frammentarie, alcuni degli esercizi, giochi e tecniche che noi abbiamo creato, in aggiunta ai loro abituali role-play, loro cercano di consolidare una situazione di oppressione – esattamente l’opposto della nostra filosofia.» (Augusto Boal, Under Pressure, Anno 3°, Volume 11, agosto 2002; citato in Dibattito Boal-Plotkin: lavorare con gli oppressori, http://www.giollicoop.it/index.php/es/il-metodo/45-il-tdo-metodo-o-tecnica/59-dibattito-boal-plotkin)
Su un versante più «leggero» le pratiche dell’animazione, private di ogni tensione politico-sociale e di ogni ambizione pedagogica o riabilitativa, sono approdate nei villaggi turistici e poi in televisione: il primo Fiorello è figlio – o meglio nipote – di quella stagione. Gli obiettivi sono gli stessi (socializzazione, espressione, creatività), ma in un contesto completamente diverso.
Più di recente, hanno iniziato a diffondersi esperienze come quella della Living History, che ricostruisce in forma teatrale eventi del passato significativi per la memoria collettiva.
Riattivare
In generale, le pratiche di teatro sociale e di comunità hanno l’obiettivo di «animare» (o meglio di «riattivare», per usare la terminologia di Claudio Meldolesi) in situazioni di difficoltà e disagio, e in generale di intervenire in una condizione di rigidità e chiusura individuale e/o collettiva. Situazioni di difficoltà nel rapporto con sé stessi, con il mondo e con gli altri spingono a irrigidire la struttura psichica e le relazioni interpersonali (secondo il paradigma di C. R. Rogers). L’individuo sano ha un sé dinamico, in grado di adattarsi e di evolvere; se invece l’adattamento del sé all’ambiente non simbolizza in maniera corretta l’esperienza (e soprattutto le esperienze stressanti), l’individuo si sente minacciato e tende a irrigidire l’organizzazione caratteriale. Un fenomeno analogo accade con i gruppi e le collettività che si sentono minacciate.
Uno degli obiettivi di queste «animazioni» è proprio quello di ammorbidire queste rigidità: tendono dunque anche a dissolvere i confini tra le tre comunità coinvolte nell’evento teatrale, e in generale la distanza tra attore e spettatore, e tra persona e personaggio.
Il compito di «riattivare» viene assunto dalla figura dell’operatore (che può essere definito animatore, guida, mediatore, jolly…), che recupera molte delle funzioni del regista e del drammaturgo (o del dramaturg), e le amplia.
Claudio Meldolesi utilizza il verbo «riattivare» in relazione all’attività del dramaturg, lo «specialista altro, impegnato a prospettare svolte impreviste nei passaggi oscuri di scena e di scrittura» (Claudio Meldolesi e Renata M. Molinari, Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote, Ubulibri, Milano, 2007, p. 98). La funzione del dramaturg ha diverse affinità con quelle di chi opera opera nell’ambito del teatro sociale:
«L’agire del dramaturg dall’oscurità è collegabile alla maestria degli attori nominati “nulla” o ” neri” in Giappone, attivi a volto coperto durante gli spettacoli per rimuovere ogni tipo d’impedimento materiale ai recitanti.» (Claudio Meldolesi e Renata M. Molinari, Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote, cit., p. 25)
Alle competenze teatrali, l’operatore può (o dovrebbe) accostare quelle dello psicoterapeuta, del fisioterapista, del sociologo e dell’antropologo, oltre che quelle dell’educatore (o del rieducatore)… A seconda dei casi, l’operatore lavora da solo, in coppia, o fa parte di un gruppo più articolato (che può coincidere con una compagnia o gruppo teatrale).
Il percorso non è privo di ostacoli. Riferendosi in particolare all’esperienza del «teatro-carcere» (ma la riflessione ha portata più ampia), a proposito della «interazione scenica, (della) prassi costruttiva per cui un attore produce con i compagni un risultato intersoggettivo», Claudio Meldolesi nota che
«da quesito processo il recluso è normalmente stimolato a “ricollegarsi”; e se pure ne trarrà stimoli negativi – all’esibizionismo e alla falsificazione di sé – il lavoro in comune lo spingerà di volta in volta a porsi ulteriori mete (…) l’attore recluso ha bisogno di cura e di tempo per inventare: la sua invenzione deve essere globale, collettiva oltre che individuale, esistenziale oltre che di gusto, e psichica oltre che espressiva.»
Un analogo percorso può interessare lo spettatore, che può avvicinarsi a uno spettacolo per curiosità morbosa o con un senso di superiorità nei confronti del diverso, per poi approdare a un diverso atteggiamento.
L’incontro di due fragilità
Il percorso di lavoro coinvolge inizialmente due poli, e in genere due gruppi: i destinatari dell’intervento (e dunque in genere persone che vivono una situazione di disagio) e gli operatori che hanno il compito di riattivarli. Chi arriva dal teatro porta con sé una diversità che affonda le proprie radici nell’essenza stessa del teatro, nella sua natura più profonda.
Nelle esperienze di teatro sociale, al pubblico osservante si sostituisce nella prima fase un gruppo di persone che viene «riattivato», e che dunque non si limita più a osservare passivamente ma viene chiamato ad agire. Il percorso comune degli operatori e del gruppo è l’incontro tra due differenze: l’alterità degli operatori, ovvero dei teatranti professionisti; l’alterità dei componenti del gruppo in cui intervengono i mediatori.
«Ci sono delle pratiche o degli spazi in cui si mettono in gioco l’alterità, la diversità sociale, psicologica o simbolica, in cui si affronta il lavoro permanente e rischioso del confronto con l’alterità a tutti i livelli. (…) Il punto fondamentale di queste esperienze non è la specificità della popolazione con cui si lavora ma l’incontro di due fragilità, la nostra e quella delle persone con cui si entra in contatto.» (Marc Klein, «I teatri dell’altro», in Robert Wilson o il teatro del tempo, cit., p. 136)
E’ un incontro di sguardi reciproci, che mette in gioco una pulsione che è al cuore di ogni vocazione teatrale:
«Nel caso del teatro, questa reciprocità degli sguardi è ancora più forte perché possiamo parlare di un doppio desiderio di alterità: la fascinazione dello spettatore, il suo desiderio di incontrare l’altro, l’attore, lo “straniero che danza”; e ancor prima, il desiderio dell’altro che spinge le persone a farsi attori.» (Marco De Marinis, Teatro dell’altro, cit., p. 12)
Il ruolo degli operatori non è neutro o innocente, né nei rapporti con gli utenti né nei rapporti con eventuali committenti.
«La droga circola sempre nelle prigioni, perché quando la gente la consuma rimane più calma. Per questo l’amministrazione carceraria chiude un occhio su questa faccenda. Allora – mi sono detto – forse funziono più o meno come una droga. La risposta mi è venuta dal detenuti. Secondo loro l’importante era il fatto che fossi stato riconosciuto all’interno della prigione. Per una volta ho avuto l’impressione di essere qualcuno, di non essermi limitato a pensare, ma di aver avuto la possibilità di agire.» (Philippe De Moulain, «Esperienze belghe in ambiente carcerario», in Robert Wilson o il teatro del tempo, cit., p. 149)
Il riconoscimento del ruolo degli operatori è un passaggio cruciale: obbliga tutte le parti coinvolte a «mettersi alla prova» nel rapporto reciproco, ridefinendo costantemente aspettative, obiettivi e atteggiamento. Il percorso può essere ricco di sorprese e di sviluppi imprevedibili. Il teatro di Robert Wilson nasce anche dai suoi incontri con un adolescente sordomuto e con un ragazzo autistico, Christopher Knowles.
«Robyn Brentano ricorda che “all’inizio gli schemi gestuali di Christopher Knowles sarebbero stati giudicati bizzarri dal senso comune, ma per chi come noi da anni esplorava il movimento non lo erano affatto. Per quanto ne so, all’epoca nella maggioranza delle scuole comportamenti di quel tipo venivano puniti e penso che un fatto che l’ha molto aiutato ad aprirsi sia stato vedere altre persone che si comportavano come lui. Penso che all’improvviso si sia trovato di fronte quello specchio che non aveva mai avuto. (Naturalmente Christopher è stato incoraggiato a fare tutti quello che fanno i “Byrds”, cioè esprimersi liberamente.) Credo che la chiave del successo di Bob (Wilson) nel lavoro con Christopher sia stato che ha tolto di mezzo l’etichetta di “autistico”, si è liberato di tutti i pregiudizi e l’ha considerato un individuo. Invece di cercare di modificare il comportamento del ragazzo, come avevano fatto i medici, Wilson ha cercato di entrare nel suo mondo, imparando non solo i suoi schemi gestuali, ma anche i suoi codici e linguaggi segreti. (In seguito ha cercato di riprodurre, o almeno riflettere, la sua realtà interiore e i suoi modi comunicativi in spettacoli come A Letter for Queen Victoria e The $ Value of Man.) Fin dal primo momento Wilson è rimasto affascinato dalla particolare logica della mente del ragazzo. Per lui le sensazioni di Chris erano uniche, e non difettose. Forse Wilson, l’adolescente sognatore che amava starsene da solo e che la balbuzie sospingeva in qualche modo ai margini del mondo, ha potuto identificarsi in Chris, cosa che gli altri non avevano saputo fare. Con il passare del tempo, il rispetto e la curiosità che dimostrava nei suoi confronti sono stati ricambiati dal suo giovane protetto e ciascuno dei due si è ritrovato a essere il maestro dell’altro.» («Christopher Knowles», in Laurence Shyer, Robert Wilson and his Collaborators, Theatre Communications Group, New York, 1989, pp. 72-73)
Il teatro del disagio
Il «teatro del disagio» ha una storia millenaria. Uno dei primi esempi ci arriva dall’antica Grecia. Durante guerra del Peloponneso, Atene tentò di conquistare Siracusa ma la sua flotta venne duramente sconfitta. I prigionieri ateniesi vennero inviati come schiavi a lavorare nelle miniere, dove perirono quasi tutti per le durissime condizioni di vita.
«Alcuni poi si salvarono anche grazie ad Euripide. Infatti, a quanto pare, fra quelli al di fuori della Grecia, i Siciliani erano particolarmente sensibili alla sua musa, e poiché coloro che arrivavano portavano ogni volta piccoli brani e saggi, imparandoli a memoria se li trasmettevano con amore gli uni agli altri. Dicono che allora appunto parecchi dei superstiti, tornati in patria, salutarono Euripide con affetto, e alcuni raccontarono che erano stati liberati dalla schiavitù dopo avere insegnato tutto ciò che ricordavano a memoria delle sue poesie, altri che, mentre vagavano dopo la battaglia, avevano ricevuto cibo ed acqua dopo aver cantato qualcuna delle sue melodie.» (Plutarco, Nicia 29,3)
Agli ateniesi che ricordavano i versi di Euripide, si dice, venne richiesto di recitarli per i loro concittadini prigionieri, costretti ai lavori forzanti nelle Latomie.
Più vicino a noi, Primo Levi racconta la forza che potevano dare i versi di Dante nel campo di concentramento a lui e agli altri internati.
Il teatro delle diversità
In circostanze per fortuna molto meno drammatiche, a partire dagli anni Trenta e soprattutto dagli anni Settanta in poi, si sono diffuse nelle moderne socialdemocrazie molte attività teatrali e parateatrali rivolte a diverse aree del disagio. Soprattutto a partire dagli anni Ottanta, queste esperienze – iniziate già nei decenni precedenti – hanno visto una ulteriore espansione e si sono radicate in diversi ambiti. In generale, a essere interessate dal teatro sociale e di comunità sono le aree del disagio. Per esempio:
– «istituzioni totali», come ospedali psichiatrici, carceri, case di riposo, ricoveri per malattie generative;
– gruppi di anziani o di adolescenti, in vario modo problematici;
– comunità di recupero per alcolizzati, tossicomani, prostitute, impegnati in vari percorsi di recupero;
– comunità che cercano la propria identità oppure rischiano di perderla (il quartiere di una città, un borgo contadino…);
– in generale gruppi di individui emarginati e discriminati (immigrati, minoranze etniche, religiose, sessuali…).
Questo movimento ha portato alla teorizzazione di un «teatro delle differenze» o «delle diversità». Alla consapevolezza della diversità si accompagna pressoché inevitabilmente una sensazione di superiorità/inferiorità. Il lavoro dovrebbe dunque portare a riconoscere le differenze reciproche liberandosi da questa sensazione: prima nell’incontro «chiuso», e poi in eventuali dimostrazioni pubbliche. In questa prospettiva, la pratica teatrale segue diverse fasi, con diversi obiettivi:
– in primo luogo, l’acquisizione della consapevolezza di sé, e la possibilità di esprimerla: in altri termini, l’opportunità di conoscere sé stessi (il proprio corpo, le proprie emozioni, la propria storia, la propria identità); questo percorso di conoscenza di sé è al tempo stesso un percorso di formazione, che poi permette di raccontarsi a sé stessi e agli altri;
– in secondo luogo, la condivisione di questa consapevolezza con altre persone accomunate da questa condizione e da questo percorso; in questa fase, la «differenza» condivisa e oggettivata può portare alla creazione di un gruppo, di una comunità;
– in terzo luogo, questa differenza (che può essere fonte di conflitti all’interno del corpo sociale) viene resa visibile alla collettività, in forma di spettacolo più o meno compiuto. La tradizione teatrale offre un ampio repertorio di storie, miti, personaggi (noti e condivisi) che possono fornire una traccia per la drammaturgia: basti pensare a Romeo e Giulietta e alle sue possibilità di adattamento pressoché infinite.
I destinatari della eventuale presentazione-spettacolo finale possono essere:
– solo la comunità di riferimento (eventualmente allargata a gruppi affini: per esempio, se si tratta di adolescenti o anziani, i parenti; se si tratta di un lavoro su un quartiere o su un borgo, la collettività dei suoi abitanti);
– l’intero corpo sociale: in questo caso, l’obiettivo è quello di passare dalla subcultura (o titolo_paragrafocultura) elaborata nella prima fase alla cultura, intesa «come abilità di adeguarsi a modificare l’ambiente, come modo di organizzare e scambiare le numerose attività individuali e collettive, come capacità di trasmettere la “saggezza” collettiva, frutto delle diverse esperienze, dei diversi saperi tecnici» (Eugenio Barba, Teatro, cit., pp 186-187).
Il teatro diventa così un formidabile strumento di conoscenza, in piena consonanza con le rivoluzioni teatrali novecentesche.
«Ciò che accomuna i maestri della scena contemporanea è lo sforzo di pensare e realizzare un teatro inteso come incontro di conoscenza, esperienza interumana autentica, scoperta e trasformazione di sé, resi possibili dal fatto che esso tende a porsi non più come riconoscimento dell’identico e del già noto ma come confronto con l’alterità, e quindi come esplorazione del non ancora noto e persino dell’oscuro e del misterioso, sia per l’attore sia per lo spettatore.» (Marco De Marinis, Il teatro dell’altro, cit., p. 13)
Il teatro è conoscenza di sé per chi partecipa in prima persona a questa esperienza.
Per gli osservatori esterni, è conoscenza dell’altro, e di conseguenza conoscenza di sé: questo lavoro costituisce spesso una «sonda» che rende visibili e fa emergere fenomeni del corpo sociale che erano rimasti «opachi», nascosti o rimossi. In questo risiede la profonda valenza politica del teatro sociale: che non è rappresentazione della realtà, ma trasformazione delle relazioni umane e degli equilibri sociali attraverso un percorso di conoscenza di sé e dell’altro.
Il triangolo
Il teatro sociale e di comunità coinvolge dunque tre ambiti.
Il primo è quello terapeutico (rieducativo-riabilitativo) e didattico o formativo. Il secondo è quello teatrale. Il terzo è quello sociale e politico.
Le singole esperienze possono valorizzare maggiormente uno di questi aspetti (e in genere tendono a farlo), ma gli altri due sono in ogni caso presenti e attivi, con le loro specifiche modalità d’approccio e d’azione, con le loro esigenze e tipicità, e con effetti di breve e lungo termine. Questo provoca conseguenze e reazioni, oltre che dai soggetti coinvolti, anche da parte dei diversi contesti interessati, con un impatto sulle condizioni del lavoro e sul suo sviluppo. A volte sostenendolo, a volte avversandolo, sempre condizionandolo.
Il rapporto con il committente
Le esperienze di teatro sociale possono nascere da un gruppo che esprime autonomamente questa esigenza e si organizza di conseguenza. Più spesso partono dalla richiesta di un committente, o devono entrare in rapporto con una terza parte, diversa dagli utenti finali: la pubblica amministrazione, la direzione di una scuola, di un ospedale, di un carcere…
Il punto di partenza è la consapevolezza di una situazione di disagio o di difficoltà, condivisa dal committente e dagli operatori. L’obiettivo può variare a seconda delle circostanze, e non è detto che gli obiettivi (espliciti e impliciti) dei committenti e dei finanziatori coincidano con quelli delle altre parti coinvolte (operatori e destinatari).
«Spesso accade che il progetto riesca a raggiungere i suoi obiettivi iniziali. Nel caso della scuola, ad esempio, si riesce a motivare gli studenti, a farli esprimere. E tutti restano meravigliati che ragazzi, che non hanno nessun interesse per la scuola e hanno atteggiamenti al limite del bullismo, studino, collaborino, si prendano delle responsabilità. A quel punto, perché vi sia un reale cambiamento e perché gli studenti vivano il teatro come un’attività legata alla scuola, al mondo adulto e non come qualcosa di estraneo ad esso, diventa necessario agire sulle altre persone che compongono questa relazione, ossia i docenti. Ma i docenti, i dirigenti, gli amministratori, raramente sono disposti a pensare che il reale cambiamento delle strutture in cui operano passi anche attraverso di loro. Fanno fatica a riconoscere di essere dentro una logica sistemica. Pensano che il cambiamento riguardi solo i loro utenti. Ecco perché, dopo essere riusciti a coinvolgere gli utenti, a raggiungere gli obiettivi, non è detto che si continui a lavorare perché le organizzazioni di solito hanno molta paura del cambiamento, almeno per quello che riguarda la mia esperienza.
Con ciò non penso che dirigenti, operatori, professori siano cattivi, ingiusti. Anche loro avrebbero da guadagnare da un cambiamento e non avrebbero motivo di rifiutarlo se fosse loro proposto attraverso un progetto convincente. Il problema è che il mio modo di lavorare, almeno fino a questo momento, non si adatta a loro. Si adatta bene agli utenti, non agli enti. Il problema è nel metodo, non nelle persone.» (Mimmo Sorrentino, Teatro partecipato, Titivillus, Corazzano, 2009, p. 25; vedi anche Mimmo Sorrentino, Il teatro dell’osservazione partecipata. L’intervento alle Buone Pratiche 2009, in ateatro 121.7, 5/4/2009, http://www.ateatro.org/mostranotizie2bis.asp?num=121&ord=7)
Lo spettacolo della diversità
Come abbiamo visto, non sempre queste esperienze hanno per obiettivo la realizzazione di uno spettacolo, e non sempre approdano a una dimostrazione di lavoro di fronte al pubblico. Tuttavia, quando questo accade, l’impatto è spesso molto profondo, proprio a causa di alcune delle caratteristiche dei protagonisti.
In primo luogo, l’incontro con la diversità costituisce da sempre un’esperienza fondante della nostra identità. Molto spesso lo spettacolo della diversità è stato utilizzato per rafforzare l’identità e la coesione di una collettività: l’esibizione del «diverso», del «barbaro», del «selvaggio», del «mostro», come oggetto di stupore, dileggio, umiliazione, oltraggio, ricorre in molte forme spettacolari, in cui è difficile separare il ribrezzo dalla fascinazione.
Nel caso del teatro sociale e di comunità, l’obiettivo è chiaramente un altro: quello di arricchire l’identità degli spettatori (e della polis di cui fanno parte) attraverso l’incontro con la diversità. Il crinale che separa questi due atteggiamenti – quello del rafforzamento e quello dell’arricchimento identitario – può essere molto sottile. Così come può essere facile scivolare nel paternalismo nei confronti dei «figli di un dio minore».
«Da molti anni dedico la mia ricerca al teatro; e l’incontro con i disabili mi ha donato la possibilità di rivalutare molti aspetti del mio mestiere d’attore e di regista, primo fra tutti quello della condivisione. E’ ovvio che non si può chiedere a una persona normale di condividere la condizione nella quale si trova il disabile, ma di chiedere uno slancio, la capacità di creare un “luogo”, uno spazio fisico e mentale dove incontrare il disabile, una zona franca dove scontrarsi ad armi pari.
Questo luogo, nella occasione in cui c’è stata la volontà di creare lo “scontro”, spesso si chiama teatro; non soltanto inteso come luogo fisico, ma come atto creativo e desiderio di comunicare.
Allora diventa necessario delimitare i confini, definire il campo in cui agire, prepararsi all’incontro che diventerà scontro. Trovarsi di fronte a situazioni non conosciute, essere capaci di guidare un gruppo di disabili all’interno del percorso creativo; imparare ad ascoltare. Trovare con loro un’intesa e svilupparla senza caricarla di segni, significati o altri orpelli.
L’ascolto è possibile se riesce ad allontanarsi dalla complessità.
Questo non significa evitarla a priori, ma penetrarla mantenendo come obiettivo la semplicità.
Nella loro disarmante semplicità riesco a trovare, attraverso l’ascolto, stimoli forti, che nella maggior parte dei casi sono sinceri.» (Mirko Artuso)
Certamente a dare maggior forza a queste esperienze, rispetto al teatro tradizionale, è anche la necessità che spinge i suoi attori (o meglio, non-attori) a calcare le scene: un percorso terapeutico, o di integrazione, restituisce al teatro nel suo insieme una necessità e un senso che parevano perduti.
«Se il teatro è un incontro è evidente che a quest’incontro bisogna presentarsi con il meglio di noi stessi, che non può essere altro che una disperata sincerità.
Il lavoro quotidiano del carcere di Volterra ci ha confermato che la necessità e il bisogno sono la base del teatro e che in quel luogo questo è indubbiamente così evidente ed immediato che non c’è possibilità di perdersi in inutili intellettualismi, sterili divagazioni e compiacimenti da “attorucoli”. Il teatro in carcere è diventato una sorta di laboratorio dove viene verificata quotidianamente questa necessità che è una delle ricchezze più importanti della nostra esperienza.
Un altro concetto ha accompagnato da sempre la nostra esperienza: la mancanza.
E’ come se ogni giorno lì fossimo obbligati a guardare quella parte di noi che senta una mancanza ed ha bisogno di capire perché e vuole essere colmata. E’ come dimenticare l’altra faccia della luna mentre ne guardiamo la parte in luce. Ogni volta che dimentichiamo che esiste questo mistero, questa mancanza, ci creiamo un’illusione. Una vita costruita sulle illusioni, sulla paura di conoscere.» (Armando Punzo, intervista a Vito Minoia, in «Teatri delle Diversità», anno 2, n. 1, marzo 1977, ora in Emilio Pozzi e Vito Minoia, Recito, dunque sogno. Teatro e carcere 2009, Edizioni Nuove Catarsi, pp. 204-205)
Un sintomo di questa necessità, di questo bisogno, rispetto alla routine dei teatranti, è l’energia – la qualità dell’energia – che molti attori di teatro sociale e di comunità riescono a esprimere in scena.
«In tutti questi anni mi sono proiettato verso l’incontro con persone che nel teatro portassero vita. Persone con corpi diversi: grassi, magrissimi, goffi, rigidi, pesanti, ma estremamente poetici. E poi ho scoperto che alcune di queste persone avevano dentro di sé naturalmente i segni di un linguaggio primordiale. Nei loro gesti, nei loro movimenti ci sono dei principi drammatici: per esempio, introducono delle sospensioni dei movimenti di massima tensione, dei campi improvvisi di ritmo che producono una grande concentrazione nel loro corpo d’attore e una grande attenzione nello spettatore.» (Pippo Delbono, Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, Ubulibri, Milano, 1999, p. 30)
Un terzo motivo del successo di questi spettacoli presso il pubblico teatrale dipende da una sorta di «effetto verità»: il teatro è fondato sulla distanza tra la persona dell’attore e il personaggio che interpreta; in questi casi la persona che occupa la scena (per esempio, il carcerato o il disabile) porta le proprie peculiarità nel personaggio, fino quasi a farne una maschera. Per chi si è assuefatto alle convenzioni della recitazione teatrale, questa sovrapposizione dà certamente efficacia a quello che accade in scena. Nella compagnia di Pippo Delbono lavorano (tra gli altri) Bobò, un sordomuto che prima di dedicarsi al teatro era rimasto rinchiuso per decenni in un ospedale psichiatrico; Gianluca, un ragazzo down; Armando, che ha perso l’uso delle gambe…
«Bobò è sincero, il suo corpo non può mentire, ogni suo piccolo movimento è il massimo che può fare, perché lui è in quel momento completamente presente. Altre persone per arrivare a questa sincerità, che poi sulla scena significa essere semplici, devono passare attraverso percorsi più lunghi, come Gustavo [Giacosa] che lavora molto con il training, ma penso che possano arrivare tutti. Bobò, Armando, Gianluca hanno un rapporto più diretto con la vita, con la sofferenza e quando fanno la stessa azione, lo stesso movimento di un altro attore sono più sinceri. Amando è poliomielitico, non può muovere le gambe, in Guerra a un certo punto alza le braccia e muove le stampelle come fossero delle ali; basta che guardi un punto preciso e alzi le braccia perché la sua azione teatrale sia sincera. E’ un gesto molto semplice ma vero. Un gesto semplice di libertà che asce da una profonda costrizione. E quindi estremamente vivo.» (Pippo Delbono, Barboni, cit., p. 36)
Per ridare forza al teatro, ci dicono queste esperienze, può essere utile uscire dal teatro. Tuttavia questo «effetto verità», che dà forza al lavoro, rischia di offrire una facile scorciatoia. Il problema diventa ineludibile, sia per i singoli attori sia per il gruppo, quando queste esperienze si spingono verso il professionismo: hanno la forza, al di fuori del contesto peculiare in cui è nato quel gruppo, per reggere il rapporto con il pubblico?
Nanni Garella da oltre dieci anni dirige il gruppo Arte e Salute, una compagnia stabile di attori formata dagli ospiti del Dipartimento di Salute Mentale Ausl di Bologna.
«Tutti possono recitare nella loro vita, ma non tutti sono attori (questo è naturale), perché non tutti hanno il talento. A parte questa distinzione, se noi consideriamo il teatro come forma terapeutica non credo che sia “buono” per tutti; può essere un’esperienza laboratoriale interessante da fare, ma dev’essere indirizzata in maniera che le persone riescano a tirar fuori le loro capacita relazionali e di superamento delle inibizioni. Ci sono persone per le quali questo “lavoro” ha una funzione unicamente terapeutica; per altre invece è possibile ricavare altri benefici da questa esperienza, titolo_paragrafo forma di capacità professionali o “artigianali” da utilizzare successivamente; in questo caso però entra in gioco il talento e la capacità dei singoli di farne uso (sono i casi di Vania, Elena e Valentina). Altra considerazione: le diverse forme di disabilità contano poco ai fini del risultato finale dal punto di vista artistico-estetico (così come non è rilevante la differenza tra attori esperti e meno esperti); la chiave di tutto è il talento.
Il “recitare” è una delle poche attività che si possono fare anche avendo limiti fisici e mentali enormi; in questo senso è importante il concetto di “possibilità espressiva” che il teatro offre, mentre la vita quotidiana no. Sul palcoscenico c’è una dimensione fungibile in cui tutto si può trasformare, fare, inventare, rendere plausibile; ci si sente meno limitati, meno disabili.»
Il feedback sul teatro
Come si vede, in una prospettiva teatrale i punti di forza e di efficacia del teatro sociale possono rovesciarsi in altrettanti punti di debolezza. Forse è possibile soppesarli misurando il loro impatto non solo sugli spettatori, ma sugli stessi creatori. Molti di loro si trovano a disagio quando al loro lavoro viene etichettato come esempio di «teatro della diversità»: il nostro lavoro, ribattono, è teatro e basta.
«Bobò, Nelson, Gianluca (…) non si presentano “per” la loro condizione, ma “grazie” ad essa i loro ruoli possono farsi carico di un’umanità altrove perduta, sono figure di libertà. (…) Io non curo, non mi sento di aiutare nessuno. L’esperienza mi ha fatto incontrare delle persone, con le quali ho stabilito una relazione che è anche una relazione di lavoro, progetto artistico. Fanno parte della mia compagnia, ma non li vedo come “diversi”.» (Pippo Delbono, da un’intervista di Pier Giorgio Nosari, dossier Teatri delle Diversità, in «Hystrio», anno XV, n. 2, aprile-giugno 2002)
E’ ovviamente fondamentale l’atteggiamento dei creatori: condizione preliminare è la finalità prima di tutto artistica del lavoro, e di conseguenza un rapporto paritario tra tutti coloro che prendono parte all’esperienza (per lo meno in linea teorica).
Armando Punzo lavora da oltre vent’anni con i detenuti del carcere di massima sicurezza di Volterra.
«E’ chiaro che lavorare in carcere mi ha condizionato, mi ha fatto addirittura crescere. Gran parte della mia formazione di regista è avvenuta con i detenuti. Da questo punto di vista quest’operazione è tanto mia quanto loro. Ma se lavori con lo spirito dell’assistente sociale non hai mai un risultato artistico e il detenuto non stabilisce mai una vera distanza tra la sua condizione e il lavoro che sta facendo. L’essere detenuto deve diventare irrilevante.» (Armando Punzo, «Compagnia della Fortezza – Carte Blanche», in Robert Wilson o il teatro del tempo, cit., pp. 24-25)
Le pratiche del teatro sociale e di comunità, pur avendo obiettivi prioritari diversi, hanno significative ricadute anche sul «teatro-teatro». Come abbiamo visto, ne ribadiscono il senso e la necessità, dal punto di vista umano e politico-sociale. Ma alcune di queste esperienze hanno anche – al di là di queste ricadute e dei risultati terapeutici – un autonomo valore estetico.
Il lavoro con attori in vario modo disabili o «diversi» ha innescato alcune tra le più significative rivoluzioni teatrali degli ultimi decenni, come quella di cui è stato artefice Robert Wilson. Da un lato il terapeuta-regista ha certamente aiutato i suoi pazienti-attori-coautori; ma dall’altro le percezione e visione del mondo di due persone «diverse» ha innescato in Wilson una ridefinizione dell’esperienza umana e un profondo processo creativo.
«All’inizio mio padre insisteva perché studiassi commercio e amministrazione, per diventare avvocato come lui e come suo padre. Ho resistito sei mesi. Poi mi è venuta voglia di studiare pittura a New York, e lui ha insistito perché studiassi architettura e poi ingegneria. Alla fine ha detto: “Basta!”. Il caso mi ha fatto incontrare Raymond Andrews, un adolescente nero di tredici anni che si stava facendo picchiare da un poliziotto; quel ragazzo non era ritardato, era sordomuto. Dopo qualche giorno, ho capito che sarebbe stato rinchiuso in un orfanotrofio, e ho fatto di tutto per adottarlo. Io stesso, quando ero bambino, balbettavo: a guarirmi era stato Byrd Hoffman, che mi aveva semplicemente insegnato a rallentare il mio ritmo e i movimenti del corpo. Così mi sono ritrovato a fare il consulente terapeutico, a Harlem, a Brooklyn, in vari ospedali. A un certo punto, con mia grande sorpresa, mi hanno invitato a tenere un seminario a Harvard. Non avevo niente da dire, non sapevo quello che stavo facendo con i bambini, anche se ottenevo dei risultati. Così ho accettato, per pagarmi gli studi d’arte.
Quando ha aperto la Byrd Hoffmann Foundation nel 1965, voleva creare ospedale o una società per produrre spettacoli?
Era un loft in Spring Street, una casa aperta ad artisti di diverse discipline, creata grazie ai ricavi delle mie esibizioni a Harvard e finanziata grazie alla vendita delle opere di alcuni artisti celebri e dei miei disegni. Quando in Francia i giovani si lamentano che allestire uno spettacolo è molto costoso, rispondo che in questo stesso momento a Taipei ci sono persone che fanno spettacoli nel loro appartamento, proprio come noi a New York negli anni Sessanta. Per quanto mi riguarda, non è che volessi fare teatro o diventare un terapeuta. Vivere ogni giorno con un sordomuto come Raymond Andrews, e poi con un autistico come Christopher Knowles, mi ha insegnato moltissime cose sulla percezione visiva, sul tempo, sul linguaggio del corpo, sul significato del gesto, insomma, tutto quello che costituisce la materia di Deafman’s Glance (1971) e degli spettacoli successivi.» (Bob Wilson, da una intervista di Eric Dahan, «Libération», 18 settembre 2009)
Se l’arte è un modo per riorganizzare il nostro modo di percepire noi stessi e la realtà, assumere il punto di vista delle diversità – anche più estrema – può certamente fornire uno stimolo straordinario: un creatore di genio come Robert Wilson è riuscito a far proprio questo modo di essere al mondo e valorizzare, dandogli forma poetica e teatrale, per poi condividerlo con il pubblico.
Nanni Garella parla così dei suoi attori:
«Hanno una grande capacità di immedesimarsi nel personaggio, dovuta dal fatto che sono abituati, a causa del loro disturbo e della psicoterapia, a scavarsi dentro in profondità. Una scoperta dei testi, delle drammaturgie, dei personaggi, che avviene quasi sempre attraverso quella strana conoscenza che è il processo allucinatorio, tipico delle loro patologie. Usare queste allucinazioni per avere delle intuizioni. Anche Pirandello soffriva di allucinazioni ed è risaputo che attraverso le allucinazioni sono nate opere d’arte di grosso rilievo in tutte le parti del mondo. Una delle forme specifiche della conoscenza della realtà attraverso l’arte è proprio un processo allucinatorio.»
Un ulteriore aspetto viene titolo_paragrafolineato da Pippo Delbono: nella diversità è possibile trovare una forma di bellezza irripetibile e preziosa.
«L’incontro con Bobò è stata una rivelazione: per me lui rappresenta il grande mistero. E’ una persona che nella vita ha tantissimi problemi, che va aiutata, coccolata, ma che sul palco riesce a circondarsi di un’aura enorme. Anche Umberto Orsini dice sempre che Bobò ha lo stesso carisma che hanno avuto i grandi interpreti della tradizione, come Eduardo. Lui è in grado di far restare in silenzio assoluto una platea di 1000 persone senza fare nulla. Io faccio ancora fatica a spiegare che cosa ha di particolare questo artista. Il fatto è che è difficile parlarne: Bobò ha con sé dei grandi segreti dello stare sulla scena; quando è sul palco ha in mano quella possibilità di trovare il piccolo segno, il piccolo gesto, il movimento impercettibile, e il pubblico lo percepisce subito. Quando lo vidi, otto anni fa, capii che aveva qualcosa di straordinario come attore: prima o poi scriverò un libro su di lui, anche se nessun trattato riuscirà mai a spiegare il mistero che lo circonda.» (L’urlo di Bobò contro la maschera del potere. Una intervista con Pippo Delbono di Andrea Lanini, in ateatro 84.28, 5/2/2005, http://www.ateatro.org/mostranotizie2bis.asp?num=84&ord=28)
La fine
Può essere utile riflettere, anche alla luce si quello che ha scritto Mimmo Sorrentino sul rapporto con il committente, su quello che è l’esito finale del lavoro, e le sue prospettive. E’ un problema di carattere generale, che si pone nella sua forma più sofferta, nel caso delle esperienze di teatro-carcere:
«Insorge sempre il problema dei problemi, a spettacolo finito: perché si tratta di tornare alla normalità, cosa ardua dopo ogni distacco dalla norma che farà sentire il prima più pesante, intollerabile, a meno che non si trovi per tempo un antidoto.» (Claudio Meldolesi)
Oliviero_Ponte_di_Pino
2012-02-28T00:00:00
Tag: Giuliano Scabia (14), teatro sociale e di comunità (97)
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