E se Brecht e Beckett si dessero la mano?

Una intervista a Luca Ronconi, in anteprima dal programma di sala di Santa Giovanna del Macelli di Bertolt Brecht, in scena al Piccolo Teatro

Pubblicato il 28/02/2012 / di / ateatro n. 139

Perché approdare a Brecht solo ora?

Beh, un po’ perché fino a oggi mi hanno interessato di più altre cose. E’ un incontro che ho sempre rimandato, più che rifiutato. Ma ormai mi pare non sia più il caso di rimandare…

Confrontarsi con Brecht significa confrontarsi con una idea di teatro molto precisa, che lui stesso ha esplicitato nella sua attività teorica e in parallelo messo in pratica sia nella sua drammaturgia sia nelle sue regie. Della teoria teatrale di Brecht, cosa dobbiamo salvare?

Alcuni dei termini della precettistica teatrale di Brecht sono tuttora validi. Quello che mi convince di meno è il modo in cui si ritiene che quei precetti debbano essere realizzati.

A quali precetti ti riferisci?

Non ricorrere alla psicologia, il superamento del naturalismo, certi procedimenti formali derivati da teatri non occidentali… Però poi questi e altri elementi sono stati riuniti in una stilistica molto precisa: per cui, mettendo in scena Brecht, si dovevano usare certi colori, certe illuminazioni, certe scenografie… Per quanto riguarda un altro cardine delle teorie di Brecht, parlare di “allontanamento”, o di “estraniamento”, negli anni Quaranta e Cinquanta aveva un certo significato, mentre oggi mi pare una sottolineatura assolutamente superflua. Anche se non siamo certo cambiati per via della moda brechtiana, ma semplicemente perché è cambiato il mondo, perché oggi probabilmente ci sentiamo tutti molto più straniati di quanto ci sentissimo sessanta o settant’anni fa.

Immagino che l’ideologia brechtiana, il suo messaggio politico, non ti interessino particolarmente.

In realtà mi interessano. Quello che mi sembra alquanto superato è l’intento didattico: quando tutti quanti hanno imparato una lezione, è abbastanza inutile continuare a ripeterla. Questo non vuol dire che la lezione abbia raggiunto il suo effetto: può essere stata accettata, oppure superata e dimenticata.

Un terzo aspetto riguarda il tuo rapporto con Brecht drammaturgo. Nel portare in scena questa Santa Giovanna dei Macelli hai molto alleggerito il testo…

Ho tagliato parecchio. All’inizio pensavo di presentare solo un montaggio di scene, più che uno spettacolo vero e proprio. Poi mi sono accorto che questi tagli riguardano più l’aspetto spettacolare che la vicenda vera e propria. I valori e il significato del testo sono rimasti integri. Di fatto abbiamo tagliato soprattutto quello che riguarda l’aspetto spettacolare. Dietro il testo di Brecht c’era evidentemente l’idea di un grande spettacolo, pieno di musiche e azioni, con un andamento quasi liturgico. Tutto sommato mi sembra che il dramma si possa benissimo ridurre alle due o tre figure principali.

Perché, tra tutti i testi di Brecht, hai scelto proprio Santa Giovanna dei Macelli?

C’era un motivo contingente, ovvero gli attori: volevo fare uno spettacolo con Maria Paiato e Paolo Pierobon… Madre Coraggio al Piccolo Teatro l’hanno appena allestita, e quindi non era il caso di riprenderlo. Ma c’è anche un altro motivo, più personale. Nel lontano 1975, dovevo fare uno spettacolo all’aperto, commissionato dai Festival dell’Unità: quello che poi è diventato Utopia. Ma il progetto originario era diverso: volevo fare un montaggio di scene dei tre Brecht americani, cioè Nella giungla delle città, Santa Giovanna dei Macelli e La resistibile ascesa di Arturo Ui. Purtroppo non fu possibile, qualcuno si oppose…

Erano gli anni della Santa Giovanna dei Macelli di Strehler… Tra l’altro, il personaggio della vergine guerriera ha una storia teatrale e cinematografica gigantesca, a partire da Shakespeare. Ti pesa questa grande tradizione di capolavori sul personaggio?

Beh, se fosse possibile bisognerebbe chiederlo prima di tutto a Brecht…

…che invece amava rielaborare testi e lavorare su personaggi di grande notorietà.

Nel suo caso, il cambiamento di connotati rispetto alla Santa Giovanna di Schiller è davvero vistoso, anche se per noi italiani non è così evidente, perché la versificazione è molto diversa… Ma io non ho certo voluto fare un centone di tante Sante Giovanne… Invece ho voluto inserire un riferimento a una tradizione molto più vicina a noi, in particolare all’opera di Giuseppe Verdi. Per sostituire il riferimento al romanticismo di Schiller, ho pensato di evocare – in maniera anche più scherzosa – quello che per noi è stato il romanticismo, la nostra musica, il nostro teatro.

Il ricorso a un repertorio musicale di questo genere è una svolta radicale rispetto alle musiche composte da Dessau per il testo di Brecht…

Questo pizzico di melodrammaticità avrebbe probabilmente fatto rabbrividire non tanto Brecht, che era furbo e spiritoso, ma i suoi eredi e tutori, gli esecutori testamentari. Ma mi è sembrato che potesse funzionare molto bene.

Negli ultimi anni hai spesso affrontato nei tuoi spettacoli tematiche legate all’economia e alla finanza: penso a La compagnia degli uomini di Edward Bond o a Lo specchio del diavolo dal saggio di Giorgio Ruffolo, o ancor prima al Ruy Blas. Su questi temi, quello che ci dice Brecht in questo dramma resta ancora attuale?

Così e cosà. Quello che racconta Brecht è anche quello che dicono i suoi personaggi. E’ di Brecht anche quello che dice Mauler a proposito del danaro, quando afferma che nasce con la natura umana. Nel testo ci sono cose deperibili, e altre che sono fondate nella natura umana.

Anche se a volte nel testo ci sono battute sulla speculazione e sulla disoccupazione che sembrano riprese dai telegiornali di questi mesi…

Sì, per esempio nel testo si spiega cosa fare per uscire dalla crisi, eccetera eccetera. Ma proprio perché queste cose ci sono, non è il caso di insistere, di sottolinearle. Uno dei miei propositi è proprio quello di cercare di svincolare Brecht, o meglio il modo di rappresentarlo, da alcuni schemi: mi riferisco al cabaret, a Karl Valentin, a Charlie Chaplin… Sono riferimenti più che legittimi, ma se ne possono pensare e praticare anche altri.

Ma se non si prendono le strade già tracciate, in che direzione andare?

Per abitudine, non prendo in esame il testo per come è stato recepito e rappresentato in passato, ma per quello che è. Lo prendo alla lettera. Non è il caso di essere a favore o contro una tradizione di rappresentazione, ma non siamo nemmeno gli esecutori testamentari di un’opera. Dobbiamo prendere le parole per quello che sono, prendere il testo e la storia così come sono costruiti. Ci rapportiamo a questo. L’esito potrà essere buono o meno buono, ottimo o pessimo, ma nasce dal materiale che abbiamo in mano, e non dalla sua storia.

Nella compagnia che hai raccolto intorno alla Santa Giovanna di Maria Paiato e al Mauler di Paolo Pierobon ci sono tanti ragazzi, e diversi attori davvero molto giovani…

Che ci sia qua e là un’aria di Kinderheim non mi dispiace, anzi…, ma è da decenni che, lavorando anche nelle scuole, coinvolgo allievi o ex allievi. Nel 1969, quando ho portato in scena l’Orlando Furioso, insegnavo all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma: nella compagnia abbiamo imbarcato molti allievi, da Michele Placido a Daria Nicolodi. In un teatro come il Piccolo, che è anche legato a una scuola, è giusto che gli allievi facciano anche l’esperienza della quotidianità del teatro.

Quindi alcuni degli attori stanno ancora seguendo i corsi della Scuola del Piccolo Teatro?

Alcuni sono già diplomati, qualcun altro sta ancora frequentando. Hanno delle responsabilità, limitate ma le hanno.

Come hai risolto i momenti corali del testo?

Tagliandoli.… Nello spettacolo c’è solo un momento in cui compare un coro che canta un inno sacro: le parole sono quelle del testo, ma con una musica che non corrisponde a quella di Dessau.

Nella scena di Margherita Palli campeggiano un proiettore e uno schermo cinematografico: è un omaggio al maestro di Brecht, Erwin Piscator?

No, è una scelta funzionale. Di volta in volta ne viene fatto un uso diverso, a seconda di quello che serve. Per cominciare serve per i classici titoli…

Il classico siparietto brechtiano…

Però questa scelta riflette anche il modo in cui ho immaginato la figura di Giovanna. La puoi considerare una paladina dei poveri, ma non mi sembra proprio che lo sia. Perché Giovanna nasce piuttosto come una paladina del buon dio, esordisce spiegando che il mondo dei miseri è corrotto: insomma, sembra una piccolo-borghese, con tutti i pregiudizi del caso, ma con questa specie di aspirazione. La commedia ci racconta di una donna che piano piano inizia a conoscere il mondo dei miseri, la miseria e i poveri, i disoccupati… Se questa è la linea che segue il personaggio, non sarebbe sbagliato farla parlare non alle persone vere, ma alle persone così come ci vengono presentate, magari dai media. Per cui in una delle prime scene, Giovanna non si rivolge alle persone, ma a dei televisori, perché scambia la comunicazione per la realtà. Poco dopo, quando Mauler dice: “Fatele vedere come sono”, si avvicina a un rapporto più diretto con la realtà, che però è ancora mediata dal cinema. Poi prende man mano atto non tanto della realtà, quanto della sua appartenenza a un altro mondo, diverso da quello da cui era partita. Del resto non sarebbe giusto dividere i personaggi in due, da una parte la buona Giovanna e dall’altra il cattivo Mauler: sono tutti e due estremamente ambigui.

E’ il fascino di tanti personaggi brechtiani, con tutte queste stratificazioni, a partire dagli antieroi dei suoi primi testi…

Brecht è spesso molto ambiguo – e a questo termine non do certo una connotazione negativa. Mauler è affascinante perché è “stra-dopppio”.

Agli attori che cosa chiedi? E’ un testo pieno di messaggi didascalici, con qualche scivolata nel patetico…

Ho chiesto loro di non perseguire una continuità psicologica o narrativa. Sono personaggi costruiti in un modo particolare: ogni personaggio è un tema con variazioni. Dunque gli attori devono avere la capacità, e l’estro inventivo, per poter variare di volta in volta lo schema compositivo del personaggio, a seconda delle diverse situazioni.

Uno dei problemi con cui si devono confrontare gli attori è che i personaggi in questo testo spesso pensano una cosa, ne dicono un’altra perché in quel momento hanno un determinato obiettivo, e poi magari ne fanno una terza…

Infatti se gli attori cercano di recitare in maniera discorsiva, e di dialogare, non funziona. Brecht fa un uso molto particolare del linguaggio: per esempio i “Cappelli Neri” dell’Esercito della Salvezza usano un linguaggio tipicamente chiesastico, un linguaggio che non dichiara ma nasconde continuamente. Per gli attori è difficile…

In scena si muovono numerosi barili e bidoni. Arrivano da Beckett o da Warhol?

Quelli di Beckett sono proprio bidoni di immondizia, mentre io uso delle grandi scatole di carne che portano con grande evidenza la marca: proprio quello che fabbricano al mattatoio di Chicago. Ho subito pensato di mettere gli operatori di quel mercato nel loro prodotto. E’ chiaro che oggi, appena vediamo un bidone in scena, non possiamo non metterci una reminiscenza beckettiana: lo stesso capita anche se vediamo un albero secco, o una signora con un ombrellino. E’ ormai una mitologia teatrale talmente diffusa che è e resterà difficile staccarsene. Non per questo i barattoli, i secchi dell’immondizia, gli ombrellini, gli alberi secchi devono perdere la loro autonoma dignità. D’altro canto ho sempre pensato che tanto, prima o poi, il tempo pareggia tutto. Forse a Beckett non avrebbe fatto piacere vedere un suo testo recitato in stile brechtiano, e Brecht avrebbe potuto inorridire vedendo un suo testo recitato à la Beckett. Ma, visto che il tempo passa anche per loro, oggi Brecht e Beckett potrebbero anche darsi la mano.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2012-02-28T00:00:00




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