BP2012 Focus Liguria Storie minori?

Dall'introduzione al volume Lunaria Teatro, De Ferrari, Genova, di prossima pubblicazione

Pubblicato il 17/02/2012 / di / ateatro n. 138

Storie abbaglianti e minute che la grande industria dei kolossal sarebbe felice di poter rubare: le raccontano i teatri minori, raccogliendole dalla tradizione e da filtri letterari illustri. Un esempio? Uno per tutti Frederich Schiller che, nella sua La congiura del Fiesco, tragedia scritta a ventiquattro anni, nel 1783 e riportata in scena da Lunaria Teatro con la regia di Daniela Ardini nel 2009, consegnò alle tempeste e agli impeti del romanticismo europeo l’esempio della faida tra le due famiglie genovesi più potenti nel siglo de oro, i Fieschi e i Doria e conclusa con un machiavellico coup de theatre o, se si preferisce, una beffa del destino. Giovani attori e registi di creatività sconfinata e sconfinante: Andrea Liberovici che con il suo Teatro del Suono vanta collaborazioni con Bob Wilson e Peter Greenaway; Sergio Maifredi che mantiene radici in Liguria con il Festival Grock e i progetti realizzati dai Teatri Possibili anche se lavora tra la Puglia e la Polonia; Marco Ghelardi che trasferisce a Savona l’esperienza maturata nella Royal Shakespeare Company e con Salamander inventa, sotto le mura del Priamar, il Festival Shakespeare in Town; Kiara Pipino che a Rapallo, con il suo Festival di Valle Christi getta un ponte tra la cultura italiana e la forza teatrale che si coltiva e cresce nelle università statunitensi; Carla Peirolero con la sua compagnia multietnica nata dall’esperienza del Suq; Consuelo Barilari in contatto costante con gli ultimi fermenti teatrali dell’altra sponda del Mediterraneo, dove le parole delle donne pesano come pietre dietro il sipario del velo; Laura Sicignano che scava nella storia ligure senza dimenticare la realtà contemporanea più cruda.
Teatri storici, come il Garage di Lorenzo Costa, e altri di fresca apertura come l’Akropolis. Festival che, sull’’esempio di uno storico apripista, quello di Borgio Verezzi, producono oggi spettacoli di successo nazionale da Imperia a Portovenere.
Tanti altri compagni di viaggio accompagnano lo spettatore nell’’esplorazione di una Liguria meno conosciuta. Sono capaci di usare gli strumenti tecnici e intellettuali di ultima generazione ma anche pronti a tirar fuori il fiato potente dei vecchi scavalca montagne, la spinta artigianale degli artisti di giro, per gettare ponti tra l’entroterra della regione e il suo palcoscenico naturale sul mare. In un mondo sempre più precario. Questa galassia culturale è il simbolo di un patrimonio che potrebbe essere cancellato in un soffio ma che lotta per conservare i suoi titoli di civiltà. Nella tempesta ciascuno pensa prima di tutto alla propria salvezza. Remare da soli tuttavia rischia di essere una scelta suicida.
Questa considerazione impone una svolta. Nella Regione che vanta uno Stabile pubblico tra i più qualificati e tra i più aperti ai giovani in Italia, due teatri privati che hanno conquistato il loro status di primissimo piano partendo da posizioni off off, la Tosse e l’’Archivolto, che hanno offerto più volte ospitalità ai giovani, e altre sale importanti come il Politeama Genovese, il Civico della Spezia, il Chiabrera di Savona, il Cavour di Imperia, tutti, per la prima volta, hanno sentito la necessità di confrontarsi e di riunire le forze. Due date hanno avviato questo nuovo corso: il 13 gennaio 2011, giorno in cui tutti i teatri liguri minori si sono riuniti a Genova in un convegno a Palazzo Ducale e, subito dopo, il 27 gennaio, giorno degli Stati generali voluti dall’assessorato alla cultura della Regione presso il Teatro della Gioventù. Per entrambi gli incontri una prospettiva comune: creare un sistema integrato di offerte.
La spinta per il Convegno a Palazzo Ducale è venuta da un compleanno: quello di Lunaria Teatro, la compagnia diretta da Daniela Ardini e Giorgio Panni che da venti stagioni ha legato la propria avventura artistica alla valorizzazione della storia e dell’arte ligure. E che ha voluto festeggiare la data, oltre che con una mostra nel sottopasso di Piazza de Ferrari a Genova, con uno scambio di idee tra artisti decisi a confrontarsi senza snaturarsi.
Daniela Ardini è allenata a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Con lei alla regia, nel 1986 a Roma, Sabina Guzzanti, Margherita Buy e tanti altri ex compagni di Accademia, allievi di Aldo Trionfo e Andrea Camilleri, si imbarcarono in un’impresa temeraria: la messa in scena di un testo tanto seducente quanto complicato come Lunaria di Vincenzo Consolo, la favola di un viceré malinconico che sogna la caduta della luna e la vede precipitare davvero in un campo di contadini, dove assume l’aspetto e la consistenza di una forma di formaggio. “La critica fu entusiasta, ma il mercato tranchant” ricorda ora la regista che ha imparato a rendere accattivante e popolare anche la ricerca.
Di quell’esperienza giovanile è rimasto il nome della sua compagnia e una naturale predisposizione a fare in modo che con i giovani nessuno sia più tranchant: cercando un dialogo con tutte quelle realtà che devono superare infinite difficoltà per far emergere il loro valore artistico.
Minore, nell’ottica del nuovo conformismo linguistico che penalizza la comunicazione quanto e più di tante vecchie censure, è un aggettivo politicamente scorretto. Il Convegno ha voluto adottarlo provocatoriamente, per dire quanti equivoci e quanti paradossi possa generare e per ribaltare lo svantaggio in una consapevolezza e in un orgoglio che portino a soluzioni concrete.
“Tutte le grandi rivoluzioni culturali del Novecento, o almeno la gran parte, sono nate da teatri minori” fa subito notare uno dei relatori, Oliviero Ponte di Pino, scrittore giornalista critico teatrale e direttore della rivista ateatro.org – webzine di cultura teatrale sulla quale ha riversato tutti gli interventi dell’incontro. “Inutile citare Grotowski, che stava in un paesino della Polonia sconosciuto ai più, Opole, o Barba che ha fondato l’Odin con dei ragazzi già rifiutati dalle scuole di teatro. Oggi il teatrante ligure più famoso nel mondo è Pippo Del Bono che vidi per la prima volta quando recitava con il suo amico Pepe in un teatrino molto piccolo. E molti attori e registi sono diventati minori per scelta, come Peter Brook e Dario Fo quando hanno deciso di abbandonare i grossi teatri commerciali”. Sulle legittimazioni storiche ormai non si discute. Ma, al di là di queste, in una società sempre più complicata e frammentata, qual è il valore culturale effettivo del teatro minore? E che interesse concreto hanno gli Enti pubblici a sostenerlo facendo i salti mortali tra risorse economiche sempre più ridotte?
“In certe zone periferiche della nostra città, la presenza di un piccolo teatro ha creato a volte l’unico presidio culturale, insieme alla biblioteca” dice l’assessore alla cultura della Provincia di Genova Anna Maria Dagnino. “Se allarghiamo il contesto al territorio provinciale, vediamo che queste piccole esperienze teatrali, piccole biblioteche, piccoli musei formano una rete capace di valorizzare il policentrismo, di vivificare un contesto e soprattutto di svolgere un ruolo sociale”. Giustissimo, ma resta un dubbio. Nelle metropoli, i minori, tutti quelli che anni fa avevano trasformato in etichetta sfiziosa e applicato su di sé la condizione off dei colleghi newyorkesi emarginati da Broadway, trovano ancora il loro perché, la loro ragione di essere? Oggi più che mai, fa notare Oliviero Ponte di Pino “il teatro non può più essere la scena del principe ma risponde a una frammentazione che, in un certo senso, è la stessa della società dei consumi, con tanti diversi target: la presenza di tante piccole compagnie con diversi stili, proposte, argomenti da sottolineare in scena, permette di cogliere la dialettica interna della società, consente di dare identità e voce a tanti suoi pezzi. Per chi si occupa della cosa pubblica è una sonda molto importante: aiuta a cogliere una serie di fermenti nel loro momento aurorale, originario”.
Ben venga, da questo punto di vista, l’orgoglio della nicchia. Ma attenzione a non crogiolarcisi, ignorando completamente le leggi del mercato e della promozione, e dimenticando che i pregiudizi di certi politici e di molti giornali nei confronti del teatro cadrebbero se si prendessero in considerazione non i dati singoli ma quelli complessivi dell’affluenza a teatro. È una consapevolezza che forse va elaborata dai teatranti stessi prima ancora che comunicata all’esterno, e anche un modo di fare sistema superando la paura di una perdita di identità. “Tutti gli anni in Italia dodici milioni di persone frequentano il teatro ed è previsto che, nonostante la crisi, questo accada anche nella prossima stagione” fa notare Margherita Rubino, professoressa di teatro e drammaturgia dell’antichità all’Università di Genova e consulente del Comune di Genova per la promozione della città “dodici milioni è una cifra enorme che si sente soltanto quando di parla di stadi di calcio. Se riuscissimo a ritenere che il teatro è anche fenomeno di massa, per mio conto non guasterebbe. Forse sposterebbe un po’ una collocazione che, se si vincola, nella mentalità comune, soltanto alla parola cultura, disgraziatamente finisce sempre per essere, anche a livello nazionale, politicamente e strategicamente minoritaria”. Ci vuole il coraggio, ma è necessario dirlo: una gestione più pratica e aggiornata della comunicazione non coincide con una rinuncia alle proprie prerogative artistiche alte.
Certamente, tutti lo ammettono, il taglio del FUS (poi ripristinato) e delle risorse destinate agli Enti locali complica ulteriormente le cose. Come fa notare Ponte di Pino “il rischio che si corre adesso è che, per salvare i maggiori, i minori vengano buttati a mare”. Ne è consapevole l’assessore alla cultura della Regione Liguria, Angelo Berlangieri che precisa “La Regione non è un organizzatore di eventi e, dato che le risorse sono poche e non vanno ulteriormente sprecate, si impegna a utilizzarle cercando un coordinamento per favorire la circuitazione sul territorio. Tutto questo senza sacrificare le risorse aggiuntive ai problemi del Teatro dell’Opera, sull’altare del Carlo Felice”. In quest’ottica si dovrebbe anche poter uscire da una logica che penalizza il settore e non ne facilita il radicamento sul territorio: quella dei finanziamenti a progetto che premiano la singola idea, non l’attività complessiva.
Ma come viene percepita la condizione dei teatri minori liguri da occhi esterni? Mimma Gallina, esperta di management teatrale e consulente di enti pubblici e privati, fa notare un grosso gap della Liguria rispetto alle altre regioni per quanto riguarda i finanziamenti statali: ”il 5,7% del totale, che credo sia inferiore alla media stabilita in base al numero degli abitanti”. Mimma Gallina sottolinea anche l’esigenza di riflettere su un eterno dilemma, ovvero la necessità di operare scelte tra i finanziamenti alle piccole realtà teatrali o ai festival e rilancia la questione delle cosiddette residenze, che conosce per aver collaborato a un progetto su questo tema in Lombardia. Il modello, in auge anni fa, delle residenze finanziate a livello ministeriale e del matrimonio triennale di un teatro con una compagnia, è ormai archiviato. Oggi ci si può ispirare invece a modelli regionali diversificati “in Lombardia le residenze sono finanziate da una fondazione bancaria, la Cariplo, su richiesta delle compagnie stesse”. Certamente, al di là delle particolarità, dei tecnicismi, della discussione e del rapporto con teatri di grandi dimensioni che hanno la possibilità di ospitare i piccoli anche grazie a incentivi pubblici, si è generata una nuova consapevolezza: una maggiore incisività è possibile se ci si collega in rete.
“Forse è passato il tempo in cui si riusciva a dare contributo ad ogni soggetto” fa notare Luca Borzani, presidente di Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura “si può aprire invece una fase in cui si offrono opportunità che permettano forme di aggregazione. È necessario passare dalla logica diretta dei bandi alla logica dell’ offerta di servizi, che possono essere spazi, elementi di promozione, o possibilità concrete di allestire una manifestazione o un’iniziativa. Se le istituzioni, tutte insieme, si fanno carico di una proposta di questo genere, ci si può anche riferire a realtà diverse come le sponsorizzazioni private”.
Tra le strade diverse c’è quella che Silvio Ferrari, scrittore, traduttore, docente, già assessore alla cultura alla Provincia e al Comune di Genova nel ’92, indica illustrando la cosiddetta operazione Camogli. Non si tratta di un intervento a favore di una compagnia ma del restauro di un teatro storico, posto sull’asse che dal Levante va a Genova e in grado di diventare, proprio lungo questa direttrice, una realtà baricentrica sulla quale lavorare. Con questa convinzione vi hanno messo mano la Regione, la Fondazione Carige, la Provincia di Genova e i Comuni di Recco e di Camogli. “Hanno superato il conflitto politico” spiega Ferrari “perché hanno ritenuto che quella fosse un’operazione che valeva la pena di portare a termine”.
I teatri minori possono contare anche sul sostegno che lo Stabile di Genova garantisce dal Duemila. Si tratta di un ribaltamento rivoluzionario rispetto alla filosofia di molti teatri pubblici italiani, come fa notare Mimma Gallina, ma anche un modo di procedere innovativo rispetto a quanto faceva lo Stabile stesso prima di questa data spartiacque. Carlo Repetti, direttore dello Stabile, riassume questo nuovo percorso in tre fasi: “Abbiamo iniziato con un esame di coscienza, non considerando più minori, nel senso di poco importanti, né i nostri giovani, né la drammaturgia contemporanea. Così facendo, ci siamo trovati naturalmente a valorizzare la scuola di recitazione e a inventare la rassegna delle mises en espace. Si tratta di rappresentazioni, programmate a fine stagione e a ingresso libero. Strada facendo, in sedici anni sono diventate un vero minifestival di drammaturgia contemporanea, con repliche alla Spezia ad Imperia quando le risorse economiche lo hanno consentito. Il secondo passaggio è stato casuale e non è andato bene”. Tuttavia ha lasciato un segno profondo “si tratta della partecipazione al bando per l’aggiudicazione del Festival del Teatro Italiano che, come sappiamo, è andato a Napoli. Abbiamo perso e ci è dispiaciuto anche se un po’ ce lo aspettavamo. Ma è stata molto importante l’esperienza che abbiamo fatto in quei mesi elaborando un progetto: per la prima volta un lavoro inter pares di moltissimi se non di tutti i teatri grandi e piccoli che lavorano a Genova e in Liguria”. Dopo questo segnale forte, la dimostrazione che un piano di collaborazione non è un’utopia, si è avviata la terza fase: “fare in modo che le compagnie di giovani uscite dalla Scuola non rimangano abbandonate a se stesse ma che, conservando la loro autonomia e la loro individualità, possano trovare sempre nello Stabile un punto di riferimento”. Vantaggio a senso unico? Tutt’altro. “Confrontarsi con la diversità dei teatri altri, o minori che li si voglia chiamare, è una ricchezza alla quale un teatro Stabile non può rinunciare” conclude Repetti “e anche noi dobbiamo andare avanti con loro perché il figlio, diverso dal padre, lo critica ma lo fa anche crescere. Bisogna inoltre far crescere il pubblico. In questi anni ho verificato che il rapporto con gli spettatori delle ultime generazioni è molto più forte se dal palco gli parlano altri giovani”. Il bilancio di questa esperienza? Cinquanta mises en espace, dodici esercitazioni, 21 spettacoli prodotti da questi gruppi negli ultimi dieci anni.
Ma come si vive e quali soluzioni si prospettano dove non si può contare su un grande teatro stabile di produzione, su una scuola o su eventuali residenze? Come è possibile fronteggiare la crisi e sopravviverle? Anna Maria Monteverdi, insegnante di drammaturgia all’Accademia di Macerata e al Dams di Bologna, studiosa di teatro contemporaneo e delle sue interazioni con i nuovi media, prende come esempio la città dove vive, La Spezia. Qui esiste un teatro comunale di 900 posti, il Civico, impostato non su un lavoro di produzione ma sulle ospitalità, curate da agenzie o dal Comune stesso. In provincia le proposte più innovative vengono dai festival, come: Portoveneredonna, diretto da Oreste Valente e, alle Cinque Terre, Aria Festival, curato da Leonardo Pischedda e I luoghi dell’anima, creato da Lunaria Teatro. “Un teatro di ricerca c’è anche alla Spezia anche se è praticamente invisibile” fa notare Anna Maria Monteverdi “alcune compagnie legate al teatro minore come la Compagnia degli Scarti o la Compagnia degli Evasi, fanno un buon lavoro di fidelizzazione del pubblico sul territorio, oggi riconosciuto anche dagli Enti, ma fino a ieri non hanno avuto la possibilità di appoggiarsi a scuole o di creare un rapporto continuo con attori e registi professionisti”. La soluzione per tutti? “Fare del Civico anche un luogo di formazione continua. Gli scettici dicono che a La Spezia mancano le risorse e i luoghi adatti. Alla prima obiezione, in questo momento, è difficile controbattere. Sul secondo punto la discussione resta apertissima. Si potrebbero utilizzare come residenze alcuni spazi dell’Arsenale a tutt’oggi inutilizzati dove, del resto, si è già creato un precedente con spettacoli allestiti per festeggiare i 140 anni dell’Arsenale stesso”.
Altre soluzioni fermentano nel Ponente ligure lungo sentieri diversi che spesso richiedono allo spettatore uno spirito da Indiana Jones, ma che sanno ricompensarne la curiosità. In questa mappa piena di sorprese la via tracciata da Lunaria, che seguiamo nei prossimi capitoli, è un esempio delle potenzialità che si possono scoprire anche dietro altri sipari.

Silvana_Zanovelo

2012-02-17T00:00:00




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