La Ubu, il Patalogo e le leggi della Patafisica
Per f.q.
Questo saggio verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista Venezia Musica.
Nellultima conversazione con Franco, in una situazione dolorosamente incongrua, allimprovviso, dopo un fitto e frammentato scambio di battute e informazioni sulla reciproca quotidianità, la sua bocca ha preso decisamente la parola:
e adesso parliamo di scelte, ha detto, schiudendosi in un sorriso, mentre lo sguardo avvolgeva di tenerezza ironica il mio stupore.
Capitava, con f.q. (così continuiamo a chiamarlo noi, generazione Ubu): tu andavi a parlargli, magari in Ubu, aspettavi il tuo appuntamento, o lui ti convocava – e io pensavo di sapere di che cosa dovevamo parlare – e allimprovviso, dopo qualche scambio di battute, fra una telefonata e una consegna alla redazione, ti chiedeva cosa pensavi, come stavi procedendo a proposito di una questione che sembrava scontato fosse la ragione del tuo essere lì. Tu non eri lì per quello, lui lo sapeva e il suo sguardo ironico lo confermava, ma da quel momento, da quello sguardo, sapevi che era affar tuo: quella sarebbe stata la questione da affrontare nellimmediato, anzi, era strano, quasi grave, che non fossi già allopera. Non per niente la puntuale e temutissima affermazione siamo in emergenza era una delle parole dordine, quasi una formula patafisica, per il lavoro in Ubu.
Franco ti spiazzava, buttandoti nellemergenza: era uno dei suoi modi di portarti diritto nel cuore delle tue scelte.
E ora che siamo oltre lemergenza, anche ora, faccio appello a una regola aurea del nostro lavoro al Patalogo: per parlare di qualcuno, comincia col farlo parlare; per parlare di Franco, ricordarlo, salutarlo, cerco di riascoltarlo, di rileggerlo, proprio mentre parla del suo lavoro, della Ubu e del Patalogo, nel suo contributo dapertura per lo speciale dei ventanni dellannuario.
In armonia con le leggi della patafisica, è stato sempre il caso a sovrintendere ai destini del Patalogo ma sia chiaro non del suo progetto ogni anno incerto fino allultimo circa la sua fattibilità, non per snobismo nè per scaramanzia, e mai incerto come questanno; anzi sicuro del suo no per precise ragioni economiche, finché, quando già sera fatto troppo tardi per lavvio, il sì è stato deciso solo dal fato. Un fato in forma di ventennale
Certo il fato lo si può riconoscere in molteplici forme, ma quella più ricorrente nel lavoro in Ubulibri è accettare, quasi fosse naturale, di cominciare quando si è ormai fuori tempo massimo per lavvio, e di ricominciare quando è scaduto il tempo della chiusura. Il fato come responsabilità nelle condizioni dellemergenza.
In emergenza si arriva alla Ubu, o comunque si viene accolti nel lavoro: qualcuno se ne è andato, cè una scadenza imprevista, il puntuale e sempre incontenibile ciclone Patalogo; e anche per Franco questo continuo avvicendamento ripropone ogni volta daccapo lazzardo della scelta; come in teatro, del resto: osservare, avvicinarsi, sapere riconoscere e aiutare a crescere.
Dovevo accettare come una circostanza normale lavvicendamento dei ragazzi, che avevano il diritto di andare a crescere altrove. [ ] e io m ero ormai rassegnato a ricominciare periodicamente daccapo a insegnare di nuovo il mestiere, sempre con la tecnica dellinserimento ex-abrupto, nel punto focale del lavoro, buttando subito addosso al nuovo entrato il suo carico di responsabilità, come un fatto naturale, reprimende comprese, perché risultasse acquisito che cera una navigazione non comoda da compiere assieme senza retorica, ma con delle mete.
La responsabilità come fatto naturale; ma quanta cura per arrivare a questa naturalezza! Solo il viaggio di f.q. dentro i teatri, vicino agli artisti, nellintimità del lavoro e nellimplacabile meticolosità della scrittura potrebbe aiutarci a ricostruire i tempi e i modi di questa utopica cura della naturalezza.
Un naturalezza del tutto visionaria, la sua, ma gli scenari che lui aveva in mente erano decisamente concreti. Di una concretezza che aveva nella lotta contro il tempo, contro la ragionevolezza dei tempi – la loro dittatura – le condizioni stesse del fare.
Anche se solo per la durata di una redazione, di unopera, per sperimentare e dirci che potrebbe essere possibile
Per il resto, i tempi avanzano, eccome!
Mè rimasta qualche difficoltà a riconoscere che i tempi da allora a oggi sono assai cambiati, esasperando lindividualismo e lostentazione, anche nei riguardi dellesterno, della prima persona, e acuendo un senso di professionalità che pone in prima linea lorario di uscita, compresi i quarto dora di preallarme da impiegato statale, regole che labbattersi del monstrum patalogico con relativa massa di lavoro può solo in parte attutire.
In questo battaglia contro lo spirito dei tempi, la prima sconfitta tangibile è la forzata rinuncia alla doppia uscita del Patalogo Cinema e Teatro, per cause di forze maggiore, per le citate leggi della casualità patalogica, per la perdita dellinterlocutore-animatore numero uno, Gianni Buttafava, uno choc e unassenza che non ci permettevano di rimanere gli stessi.
Ma la chiusura del Patalogo Cinema, pur accettata e decisa quasi naturale – per i motivi suddetti, segna un allontanamento dallo spirito delloriginaria rivista Ubu: una rivista bimestrale underground, ma di modi poco underground, durata solo sei numeri e otto mesi, ma che per il parlare che se nera fatto poteva considerarsi un successo Erano tempi in cui un dialogo interdiscipliare lo si poteva tentare.
Cineclub, arte, concerti, politica giovanile: come se il dialogo fra le arti potesse, patafisicamente, svelare il disegno nascosto nelle cronache del quotidiano e le ricadute nella politica dei fenomeni di costume.
Il doppio volume non produceva solo un effetto trainante, ma era la base di quellinterdisciplinarietà e del gioco dei rimbalzi per cui avevamo incominciato e che non abbiamo dimenticato, evidenziandolo nelle occasioni che meglio si prestavano al confronto diretto con la realtà: si pensi al travaglio che ha anticipato e seguito la caduta del Muro o al rotolare da Tangentopoli alla minaccia di un regime Mediaset.
Un Patacalendario in un paio di numeri ci ha permesso per esempio di mettere i fatti della scena al passo insensato con quelli della cronaca e della politica, mentre il teatro fuori dal teatro prende sempre più spazio.
Più limpresa è complessa, impossibile, quasi titanica, più resta aderente alla essenzialità dellinizio, alla semplice necessità di adesione fra il fare e le intenzioni.
Il rimbalzo fra impresa impossibile e semplice, necessaria adesione alle intenzioni dà le coordinate al lavoro del Patalogo. Ma attenzione, qui scatta la particolare natura dellemergenza patalogica: non rinunciare mai alla qualità della visione, anzi usare lemergenza per mettere a fuoco, se non alla prova, la tenuta, la bellezza di questa visione.
Sono qui, devo fare quel che volevo fare. Non dire mai: peccato, poteva essere così, né, tantomeno: abbiamo fatto quello che si poteva
Tutti noi in Ubu abbiamo dovuto resistere – quando ce labbiamo fatta – alla tentazione di imboscare una foto, un documento, la battuta di unintervista, letta da f.q. su chissà quale testata, magari lasciata in aereo, cercata per settimane e ora recuperata, riapparsa quasi a tradimento, oltre il tempo limite. Là dove chiunque avrebbe detto, e noi volevamo dire: peccato, abbiamo fatto quello che potevamo, ora non è il caso
, f.q. ricominciava a impaginare con la felicità anche capricciosa di un ragazzo che lha avuta vinta.
E spesso a noi sembrava un capriccio, in fondo nessuno avrebbe colto la differenza, non cambiava poi molto avere proprio quella immagine lì
Per noi, ma non per chi davanti a quellimmagine si era figurato un possibile intreccio, e della realizzazione di questo intreccio aveva fatto la posta in gioco nella sua personale lotta contro il tempo.
Nellemergenza la strategia più capricciosa e creativa – è dilatare il tempo: quante volte ci siamo chiesti se f.q. non stesse volutamente temporeggiando per arrivare nella condizione altra dellemergenza. Nella redazione del Patalogo, vera opera teatrale, come nelle prove di uno spettacolo, la lotta non è per arrivare in tempo, ma per fare retrocedere la curva del tempo.
Non rinunciare mai, anche quando sembra che il tempo a disposizione sia finito, non rinunciare mai, anche quando sembra che il nostro mondo non abbia più tempo, non rinunciare mai, mai.
Solo così puoi accettare non a caso, più lui che noi – che il risultato presenti qualche limite, diciamolo pure, degli errori. Ma non devi accettare limiti, lasciare correre imprecisioni, mentre fai.
Non rinunciare, mai, a fare come pensi vada fatto.
Allora lemergenza si mostra come altra faccia dellutopia, quella che ci è dato percorrere nel’ operosità del lavoro quotidiano, verso la meta prefissata.
Ma questo sogno che fa succedere le cose non può restare chiuso dentro un laboratorio – sia pure totale come qualcuno ha definito la redazione del Patalogo. Senza lamore per il teatro, lorgoglio di amare il teatro, come disse Ettore Capriolo, tutto questo non ha senso. Ed ecco lintreccio del lavoro di redazione con lincessante andare in cerca di f.q., il suo nomadismo attraverso le geografie del teatro: luoghi di creazioni possibili, di relazioni, di persone osservate da vicino nel loro fare, per il loro fare.
Ma guai se questo discorso che si cerca di condurre e dà senso alla nostra sopravvivenza interessasse soltanto e soprattutto a noi che lo facciamo, nel deserto della solitudine mediatica, nel deserto della dispersione mediatica in cui ormai viviamo e lavoriamo. E il dialogo tra noi, dopo tanto affannarsi verso un altro teatro nel quale ci riconoscevamo [ ] a essersi smarrito nei personalismi o neglintrichi di interessi. Se i funzionarietti e i reggicode dei potenti hanno condotto il teatro allattuale stato di asfissia di cui gli specialisti della routine sembrano bearsi in massa rinunciando alle idee, non possiamo rimanercene in un cantuccio a piangere i nostri morti, da Trionfo a Müller, da Neiwiller a Bartolucci.
Franco amava e ascoltava, più di tutti, le persone di teatro: nel tempo del Patalogo le uniche pause che si concedeva nel febbrile lavoro di impaginazione erano quelle dedicate ad ascoltare un attore di passaggio, un autore amico, un compagno di viaggi teatrali. Dava valore alle loro domande. E una persona di cui mi potevo fidare, la sola alla quale avrei chiesto un parere vero, sul che fare, ora, mi ha detto unattrice, alla notizia della morte di Franco Quadri.
Non mi sembra che Franco amasse gli anniversari, le commemorazioni, semplicemente continuava ad amare, con le intemperanze proprie del sentimento, e a onorare chi laveva toccato, anche nel lavoro; magari li andava a trovare, o li accoglieva e li ascoltava, anche quando ai più sembrava non avessero niente di nuovo da dire.
Abbiamo aperto questa sezione conclusiva non per uno sterile ricordo o per parlarci addosso commemorandoci, ma nella speranza che una rivisitazione del lavoro di ventanni ci aiutasse in una spinta in avanti, aldilà della conclamata casualità duscita del Patalogo, ma esaltandone lo spirito, che era soprattutto di unione, nella gioia.
Perché il lavoro passato non sia sterile, ma serva a innestare attraverso questo recupero una continuità dellazione creativa.
Allora Franco parlava del Patalogo, ma che cosa possa essere, in senso più ampio, il lavoro passato, lha precisato, molti anni dopo, dedicando lo speciale del suo ultimo Patalogo ai grandi scomparsi del mondo del teatro, cercando di farli ascoltare di nuovo, di fare parlare, ancora, queste persone con la loro voce per ricordare e ricreare un grande periodo di teatro che grazie a loro continuerà.
Per questo sono qua con una certa commozione, aggiunse, introducendo la serata dei Premi Ubu, nel febbraio del 2010.
La commozione di chi, anche oggi, continua a credere che nel ricordare sia possibile ricreare, anche quando il tempo è finito, e non aiuta per niente, proprio non serve, dirsi: abbiamo fatto del nostro meglio.
Renata_M._Molinari
2011-04-15T00:00:00
Tag: Franco Quadri (17)
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