BP2011 MATERIALI E’ il nostro tempo a rompere le scatole

Sul Festival delle Colline Torinesi

Pubblicato il 28/02/2011 / di / ateatro n. #BP2011 , 132

Qualche giorno fa, al Regio di Torino, ho assistito alla prima del bellissimo Parsifal di cui è regista Federico Tiezzi. Prima che si aprisse il sipario l’orchestra ha eseguito l’inno di Mameli ed una voce registrata ha proposto al pubblico l’articolo 9 della Costituzione Italiana.

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

Il sovraintendente Vergnano vuole questo preambolo prima degli spettacoli d’opera per sottolineare come le attuali politiche in materia di cultura tradiscano lo spirito della carta costituzionale e come i tagli rappresentino un’iniquità immotivata. Questo è il punto. La crisi economica non giustifica la fortissima contrazione del Fus, ad esempio, e i minori stanziamenti alla cultura nei bilanci delle amministrazioni locali. Il risparmio che ne deriva è irrilevante nella strategia anti-congiunturale. Alla base dei tagli c’è dunque la volontà politica di trascurare, se non punire gli operatori ed i lavoratori dello spettacolo. Circa cinquecentomila in Italia. “Non contano niente in temini elettorali”: affermò cinicamente qualche politico dopo le elezioni regionali piemontesi del 2010. Si riferiva al fatto che due ex-assessori alla cultura, in lista per il centro-destra l’uno e per il centro-sinistra l’altro, non avevano ottenuto il minimo dei voti per essere eletti. “Non si può fare affidamento su chi lavora nel settore dunque” : questo fu il pensiero ricorrente. Espresso da chi, forse, è abituato alle clientele ma non alla democrazia e che condivide il pensiero di Tremonti: “La cultura non si mangia” o dei tanti che inneggiano alle privatizzazioni o che credono che la cultura sia un ozioso trastullo. Una tesi da contestare duramente è anche quella che riguarda l’equivalenza nei tagli alla cultura tra l’Italia e gli altri paesi europei. Balle in malafede. Basta controllare i bilanci della Francia, della Germania, della Polonia, della Slovenia, persino della Spagna. Oltretutto i fondi per i beni culturali in Italia rappresentano lo 0,21% del bilancio dello Stato, contro il 2% e oltre in Francia, Germania, Inghilterra! Briciole. Continuare a protestare è doveroso quanto dirsi disponibili a studiare soluzioni. Inventare flash-mob, ad esempio, che scuotano le coscienze quanto lavorare per una nuova legge regionale sul teatro.
Il caso Piemonte – parlando della cultura – è un caso molto particolare. Oggi nella regione la si dimentica, la si taglieggia, la si tratta con leggerezza, dopo che per anni ha contribuito in modo straordinario a rinnovare l’immagine del suo capoluogo, conosciuto solo per la Fiat. Torino veniva considerata una città grigia, monoculturale, periferica, di montagna. L’opinione è radicalmente cambiata. Giusto in tempo perché oggi la cultura non sia più considerata una priorità. Perchè in Piemonte arrivano annualmente un milione di di turisti? Solo per le belle piste del Sestriere, per le acque dei laghi? Non c’entrano anche il Museo del Cinema o l’Egizio, la Fiera del Libro, le luci d’artista, i teatri, i festival? Che la cultura paghi la crisi in ragione del solo disavanzo nei bilanci che essa stessa ha determinato. Non bisogna prestarsi al gioco di chi cerca colpevoli. Di Soria ce n’è stato uno ed uno solo. Ha prodotto danni notevoli d’immagine ma non può essere un pretesto per fare di tutta l’erba un fascio. Il Festival delle Colline Torinesi ha dato molto. Almeno quanto ha ricevuto, se non di più. E’ cresciuto anche nella reputazione europea sostenuto con grande correttezza, va detto, da Assessorati e Fondazioni. Ma adesso?
Che fare? Che può fare un festival in un panorama nazionale così deprimente. Secondo noi: offrire al pubblico cartelloni coerenti, non cedere alle mode corrive, cercare il massimo possibile della qualità e dell’impegno (anche politico). Naturalmente utilizzando al meglio i diminuiti soldi che si hanno a disposizione.
Ma oltre a questi obiettivi ve ne è uno in particolare da realizzare: rompere l’accerchiamento. L’accerchiamento della mediocrità, della volgarità, del provincialismo. Bisogna guardare oltre i festini e le escort del Presidente, forse oltre la distorta funzione politica della magistratura, oltre il federalismo di maniera. Gli operatori teatrali devono essere più seri, rigorosi, pensare a progetti non casuali, ai contenuti, alla vitalità delle nuove generazioni, alle sinergie. Perché un festival è un piccolissimo laboratorio del futuro, una minuscola coscienza critica. La buona pratica del Festival delle Colline Torinesi? Le collaborazioni internazionali, il progetto Alcotra Carta Bianca ad esempio, seppur di ingiustificata complessità burocratica e gestionale. Il Festival delle Colline Torinesi e l’Espace Malraux di Chambéry hanno dato vita con esso ad una attività di tutela della creazione contemporanea teatrale italiana in Francia e francese in Italia. Ne sono stati coinvolti, tra gli altri, Spiro Scimone, Joël Pommerat, Paola Bianchi, Christophe Huysman, Hubert Colas, Fanny & Alexander, la Compagnia Suttascupa, Motus, i Teatri Uniti, La Compagnia Menoventi, Vincenzo Schino, Ambra Senatore, Muta Imago, David Bobée, Paul Desveaux, Vincent Dupont, Gwenaël Morin, Michela Lucenti, Danio Manfredini, Joachim Latarjet, Nicolas Ramond, Babilonia Teatri, Thomas Guerry, François Orsoni. E quest’anno anche il giovane regista Guillaume Vincent della Comedie de Reims che proporrà nel cartellone 2011 del Festival il suo allestimento tratto dal Katzelmacher di Fassbinder. Tema d’attualità dello spettacolo la xenofobia. Carta Bianca in qualche modo, con un tavolo di concertazione italiano, ha chiamato in causa anche altri teatri e festival italiani: tra cui l’Emilia Romagna Teatro, Santarcangelo, lo Stabile di Brescia. Ed il Festival delle Colline da anni collabora con Avignone. Uno dei varchi verso il teatro del mondo. Uno dei possibili. Perché non Belgrado, Timisoara, Cluj?
Nelle ultime edizioni del Festival delle Colline Torinesi si possono evidenziare molte presenze di artisti francesi, europei, internazionali. Una scommessa affrontata con la positiva complicità del pubblico. Spettacoli stranieri vuol dire preparazione adeguata e sottotitoli. Basta sentir dire da colleghi che il pubblico non vuole i sottotitoli! Non li vuole la prima volta, forse. I sottotitoli vanno studiati, occorre sintetizzare i testi, risolverli graficamente. E’ un’azione artistica. Alcuni dei nostri amministratori vorrebbero in scena soltanto i nomi della propria regione. Non diamogliela vinta. La dialettica del teatro impone le diversità. Sfogliamo i cartelloni di teatri francesi, a volte ci sono più della metà di spettacoli sottotitolati. La danza e il circo, tra l’altro, non richiedono didascalie. Proviamo anche a pensare alle tante etnie presenti sui nostri territori: romeni, marocchini, cinesi. Quanto si fa per loro? I festival sono l’ambito adatto a queste sperimentazioni, a queste scommesse sul futuro. Anche i dialetti fanno parte della creazione contemporanea. Non è un caso che per Italia 150 il Festival delle Colline Torinesi proponga un segmento di programmazione sui dialetti italiani. Quando sono usati sperimentalmente. I festival non sono l’habitat della pigrizia intellettuale. Ci sono molte stagioni della stabilità, ahimè, per quella.
Insieme ad artisti di tutto il mondo il Festival ha presentato molte giovani compagnie italiane. E’ un percorso di lavoro che va suggerito e che paga. Un segnale preciso l’ha dato, ad esempio, la Centrale Fies di Dro che ha in residenza Dewey Dell, Francesca Grilli, Pathosformel, Teatro Sotterraneo e Sonia Brunelli. Bisogna che i festival tornino ad essere fabbrica. Che producano modelli drammaturgici. E’ opportuno in questa filiera produttiva, oltre le contaminazioni, non dimenticare gli autori, i facitori di testi. Qualche volta presi dell’euforia dello stile ci si scorda fin troppo della parola, del copione, dello spartito. Poi, purtoppo, va sottolineato come i festival svolgano spesso ruoli che dovrebbero competere ad altri. Agli Stabili, per esempio. Ero felice quando Mario Martone ha aperto alla creazione contemporanea. Ma lo ha fatto inventando l’ennesimo festival e non inaugurando segmenti nuovi di stagione come forse avrebbe voluto. Il suo progetto era di destinare il Teatro Vittoria al nuovo teatro. Lo Stabile di Torino torni a questa prospettiva.
Ma cos’è, quanto alle persone che ci operano, un Festival? E’ una redazione, un collettivo di lavoro, una struttura dove tutti si impegnano perché gli artisti e il pubblico possano vivere un’avventura intellettuale ed emotiva. Dal Direttore Artistico agli stagisti. Nessuno deve fare fotocopie e basta, nessuno deve fare il funzionario. Tutti devono pensare, come ricercatori, alla mediazione culturale. La mediazione culturale è la parola d’ordine per il Festival delle Colline nell’immediato futuro. Una camera di compensazione che lavora sulle teste, sui cuori, sugli stili, sulle parole, sui colori, sulle risorse umane. Che, qualche volta e seppur per pochi, scardina la globalizzazione. Compito delicato e di sicuro non superfluo.
Mi è capitato, il 27 gennaio, di vedere una fotografia di Beirut sulla Stampa di Torino. Un carro armato, il chioschetto su ruote di un ambulante, un cartello che impone di ridurre la velocità, dei passanti che vivono imperterriti la loro giornata. Credo che quel chioschetto possa rappresentare i festival. Dà da bere, dà nutrimento a qualcuno. Posizionato accanto ad un carro armato, all’invadenza della politica, nell’apparente indifferenza. Ma che rimanga lì con le sue angurie, le sue bibite, il suo povero teatrino. Rimanga lì nella Beirut che è il nostro tempo a rompere le scatole.

Sergio_Ariotti

2011-05-02T00:00:00




Tag: BPfestival (27)


Scrivi un commento