BP2011 MATERIALI Allarme autocensura!

Cosa succede nei teatri pubblici, nei teatri stabili?

Pubblicato il 28/02/2011 / di / ateatro n. #BP2011 , 132

I tagli alla cultura sono tagli alla spina dorsale del paese, che per me è costituita da asili, scuole, licei, università, ricerca, patrimonio artistico e archeologico, teatro, cinema, musica, danza, editoria e infine, certamente, televisione, una filiera che se solo riuscisse a mostrarsi unita nella lotta alla politica dei tagli otterrebbe certamente maggiori risultati e soprattutto si imporrebbe all’intera comunità italiana come una realtà decisiva per la vita di tutti i cittadini. Sentirsi descrivere da chi ci governa come corporazioni inutili da gettare beatamente al macero è la peggiore delle umiliazioni, ed è una cosa ben diversa dal venire chiamati al senso di responsabilità in un momento di crisi finanziaria, al quale nessuno pensa di sottrarsi.
Ma quello di cui vorrei parlare oggi è il modo in cui nei teatri italiani ci si attrezza per resistere ai tagli, argomento facilmente estensibile al sistema del cinema; ma restiamo all’oggetto delle buone pratiche, cioè il nostro teatro. Cosa succede nei teatri pubblici, nei teatri stabili? I finanziamenti diminuiscono vertiginosamente di stagione in stagione. I teatri stabili costano, hanno un personale più ampio di un teatro a gestione privata, le tutele dei diritti dei lavoratori, della sicurezza dei locali e di tutto ciò che un organismo pubblico è chiamato ad osservare costituiscono un blocco di costi in bilancio limabile fino a un certo punto. Resta dunque da tagliare la parte relativa alla produzione e alla programmazione, e qui entrano in ballo la creatività degli artisti, la loro disponibilità a lavorare guadagnando meno che in passato, la consapevolezza che si può far teatro anche con un una sedia, un riflettore e una pezza. Nessuno creda, infatti, che tagliando i fondi si possano ridurre gli artisti al silenzio. Ma qui si spalanca anche la vertigine dei buchi in platea, la paura che ogni poltrona rimasta invenduta venga rinfacciata come una colpa, la necessità di mostrare che l’autofinanziamento (cioè, in buona sostanza, il volume degli incassi) copra con un auspicabile quanto impossibile pareggio la vergogna di aver ricevuto dei finanziamenti pubblici, riflesso mentale ormai indotto nelle menti di tutti, a causa degli sperperi, delle clientele quando non del malaffare che hanno inquinato per decenni gli organismi pubblici italiani, e tra essi anche quelli teatrali.
Il risultato è che il sistema teatrale pubblico inizia ad autocensurarsi e ad essere attratto sempre di più nell’orbita del teatro a gestione privata, un teatro comunque finanziato con soldi pubblici, ma che mira per sua natura ad un altro rapporto con gli spettatori. Il primo dovrebbe essere teso alla problematicità delle scelte, alla complessità dei linguaggi, alla ricerca, alla valorizzazione della drammaturgia più bella e perduta o a quella contemporanea, alla formazione di attori consapevoli e alieni dalla sindrome della notorietà televisiva, al rapporto col territorio, il secondo viene invece a patti coi gusti del pubblico, gioca lì la sua partita e, quando gli riesce il colpo, ottiene il risultato di dare ad attori famosi per ragioni magari extra-teatrali il giusto contesto per esprimersi con bravura ed efficacia. Nessuna scala di valori tra i due sistemi, dunque, entrambi sono preziosi per il sistema teatrale, entrambi possono produrre cose egregie o deludenti. Ma si tratta di due cose diverse. E se il teatro pubblico ha costi di gestione superiori a quello a gestione privata, e superiori finanziamenti, è proprio perché la sua missione è più complessa, più rischiosa, dal ventaglio più aperto. Qui a Torino si ricordano memorabili spettacoli di Luca Ronconi alternati tra il Carignano e il Lingotto, e a nessuno può essere oscuro il senso della spericolatezza e della audacia di quelle proposte: che il teatro di Ronconi piaccia o no, lo Stabile di questa città deve al periodo della sua direzione moltissimo della sua statura nazionale e internazionale. Non è quello di Ronconi, ovviamente, l’unico modo di essere audaci e spericolati, e basta ricordare, come sempre è bene fare, cos’era il Piccolo e cosa facevano Strelher e Grassi nel dopoguerra per capire qual è la ragione dell’esistenza di un teatro stabile.
Ma se si perde quell’audacia e quella spericolatezza, se ci si determina a uniformarsi alla ricetta “repertorio-attori noti-allestimento funzionale”, in prospettiva cosa può accadere agli stabili italiani? All’estero, lo sappiamo, si battono tutt’altre direzioni. In Italia si danno casi come quello del Metastasio di Prato, che rinuncia autolesionisticamente a un direttore d’eccezione come Tiezzi, o come quelli, mostruosi, del Mercadante da Napoli, che, al netto dei giudizi sulle procedure violente della cacciata di De Rosa, pone oggi una questione di natura progettuale: in una città malata di autoreferenzialità, il suo stabile si appresta a varare la stagione degli attori napoletani famosi. Amatissimi attori naturalmente, a cui infatti spalancano felicissimi le porte tutti i teatri italiani a gestione privata. Ma serviva a questo far nascere lo Stabile? Non sarebbe stato meglio mettere il Mercadante in abili mani private e imprenditoriali? Almeno non avremmo assistito allo spettacolo penoso di consiglieri d’amministrazione che giocano a nascondino.
E i cartelloni? Cosa ci scambiamo? Sapete tutti che gli stabili si scambiano gli spettacoli da sempre, personalmente mi sono battuto contro questa pratica quando ero direttore del Teatro di Roma, ma in un momento di crisi e di tagli come questo cerco di utilizzarla positivamente innanzitutto selezionando le scelte (coi miei collaboratori parlo si scambi antivirus), e soprattutto perché riuscire a contenere i costi della programmazione consente di salvaguardare quel che resta per la produzione, e in particolare per produzioni fuori dalle logiche di mercato, per una rassegna di teatro indipendente come Prospettiva e per tutelare gli artisti del territorio. Ma anche negli scambi la caccia è ormai aperta non più alla proposta più innovativa o originale, ma a quella che per una ragione o per l’altra consenta la maggiore certezza di adesione del pubblico.
Siamo sicuri che questa forma di autocensura non conduca, alla fine, a una domanda che nel nostro paese potrebbe arrivare a risuonare benissimo, data l’involuzione generale, la domanda seguente: a che serve il teatro pubblico, se fa, con maggiori costi per la comunità, quello che fanno i teatri a gestione privata che costano meno? Se non altro per spirito di sopravvivenza, cari colleghi, diamoci una svegliata.

Mario_Martone

2011-04-03T00:00:00




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