Ridare la parola al teatro

Conversazione tra Andrea Balzola, Giorgio Barberio Corsetti e Gioia Costa su Epistola ai giovani attori di Olivier Py con la collaborazione

Pubblicato il 03/02/2010 / di / ateatro n. 125

Conversazione tra Andrea Balzola, Giorgio Barberio Corsetti e Gioia Costa sulla traduzione e messinscena del testo “Epistola ai giovani attori” di Olivier Py, un’’occasione per riflettere sullo stato del teatro e della drammaturgia in Italia a confronto con la scena francese.

AB – Nell’ambito del progetto Face à Face (promosso dall’Ambasciata di Francia per fa conoscere la nuova drammaturgia francese al pubblico italiano), Giorgio Barberio Corsetti ha realizzato uno spettacolo degno di memoria e di riflessione: Epistola ai giovani attori. Con debutto al Piccolo Eliseo e una ripresa al Teatro Nuovo Colosseo di Roma, diretto da Ulisse Benedetti e Simone Carella. Un piccolo grande evento teatrale, semplice, di una sobrietà quasi austera e nello stesso tempo molto ricco, per la qualità poetica e la portata simbolica del testo del drammaturgo-regista francese Olivier Py, con un’apposita ed eccellente traduzione di Gioia Costa, per la straordinaria interpretazione del protagonista Filippo Dini coadiuvato da Mauro Pescio, e per la sapiente regia di Corsetti. Un’opera metateatrale, che riporta al centro della scena il gusto e la pluralità semantica della parola, una parola che non solo tende a mummificarsi in repertorio nel teatro d’abbonamento, ma che nella società contemporanea viene svuotata di senso e di sensi per ridursi a stereotipo o slogan mediatico, codice barbaro di una popolazione che comunica senza più esprimersi. L’attore (Filippo Dini), si trucca e si veste da “attrice tragica” rivolgendosi direttamente al pubblico (un pubblico ideale di giovani attori) per tessere la sua apologia della parola, scontrandosi con un’antagonista tipizzato (l’organizzatore, il critico, etc.) e mutando continuamente registro: declamatorio, poetico, ironico, satirico, melodrammatico… Attraversando cioè tutti i generi del linguaggio teatrale e i modelli recitativi, in una grande prova di virtuosismo attoriale ma che non è mai gratuita, anzi fa il verso ai vizi mattatoriali di una recitazione che si compiace della parola ma di rado riesce a coglierla e trasmetterla nella sua essenza. Quello di Py è una sorta di manifesto per la Rinascita della Parola in Teatro (ma dove il teatro è microcosmo di un’utopia sociale) , con una graffiante verve critica nei confronti del Teatro Opaco gestito sempre più dai funzionari, dai manager, dagli imbonitori televisivi, dai politici e dagli “scambisti” (non solo di prestazioni sessuali ma anche di “pacchetti teatrali”), piuttosto che dagli artisti. Triste deriva che in Italia è diventata “normale”. A parte alcune eccezioni, le istituzioni e i fondi teatrali sono messi in mano ad antichi capocomici oppure a funzionari politicamente orientati, segno della mancanza di un progetto culturale sul teatro italiano.

GBC – Alcune situazioni interessanti esistono, ma sono un po’ arroccate, per il resto dilagano in effetti i funzionari, o “Faiseur”, come dicono in Francia, gente che fa tanto per fare senza nessuna idea. Diciamo che tendenzialmente è raro che in Italia si elabori un pensiero sul teatro, più che altro ci sono delle persone che fanno delle messe in scena più o meno riuscite, con attori più o meno declamanti, ma con scarso o nessun interesse sul piano della ricerca. Anche se a questo punto, non so nemmeno bene cosa desideri il pubblico, poiché si è talmente ristretta la zona di quello che viene comunemente chiamato teatro, che probabilmente quelli che vanno a teatro vogliono proprio la convenzione più scontata. Oppure la replica teatrale del modello e dei personaggi televisivi. L’impressione che ho è che noi (la mia generazione teatrale) pensavamo di partecipare all’inizio di qualcosa, invece siamo stati chiamati a testimoniare la fine di qualcosa.
Resta stranamente un margine di pubblico comunque interessato a quello che facciamo, ma c’è stata un’ulteriore corrosione degli spazi.

AB – Però si assiste anche a una contraddizione curiosa: c’è uno scollamento tra una critica che si è piuttosto atrofizzata, anche perché i media hanno ridotto le recensioni a trafiletti e iconcine più o meno sorridenti, una mancanza di progetti teatrali legati alla gestione degli spazi e il fermento di nuove idee, nuove personalità e nuovi gruppi che affiorano. Perché esistono molte giovani compagnie e anche artisti che hanno già un certo percorso alle spalle, che comunque continuano a fare ricerca in varie direzioni… E’ un paradosso tipicamente italiano…

GBC – Quello che io ho verificato preparando Vertigine – festival di teatro emergente italiano, è infatti una grandissima ricchezza di proposte, anche differenziata nei generi. Resta il fatto che non c’è un ecosistema, non c’è un terreno, i luoghi per questo tipo di teatro sono sempre più ridotti e ho l’impressione che sia necessario ricominciare da capo con altri criteri. Probabilmente non troppo legati al denaro pubblico. Bisogna pensare ancora una volta ad una maniera diversa e non so bene quale debba essere.

AB – Proprio la ricerca di nuove modalità di organizzazione, produzione e distribuzione teatrale è al centro delle varie edizioni degli incontri sulle Buone Pratiche del Teatro, curate da Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino su iniziativa della rivista ateatro. Da alcuni anni a Milano, poi a Napoli, e fra pochi giorni a Bologna, si riuniscono le compagnie, sia emergenti sia quelle che hanno già una loro storia, per dare una testimonianza delle Buone Pratiche, cioè dei percorsi alternativi nella ricerca di finanziamenti, spazi pubblici o privati… mettendo a confronto queste esperienze. Il risultato è interessante perché rivela l’esistenza di una strategia della sopravvivenza che però diventa anche un laboratorio di nuove formule possibili, di relazione con gli enti pubblici e di produzione. Una dimensione molto legata al territorio, cosa che credo oggi sia molto importante. Perché c’è una sorta di bisogno identitario dei luoghi, cioè di capire chi siamo, dove siamo, qual è la nostra storia all’interno del proprio territorio, cercando di interpretarne le aspirazioni e le peculiarità.

GBC – Dipende molto dai territori, ci sono regioni che si sono spese molto, mentre altre zero. Non c’è appunto un progetto culturale complessivo, tutto è affidato all’iniziativa dei singoli ed è molto legato alle differenti situazioni, ad esempio la zona dell’Emilia Romagna è sempre stata molto munifica, anche la Toscana, mentre il Lazio lo è molto meno, Roma è ormai una città disperata. Mandano la polizia a chiudere spazi autogestiti come il Rialto SantAmbrogio, uno dei pochi spazi alternativi di questi ultimi anni, per cui alla fine rimangono pochissime situazioni legate a iniziative private, un po’ infelici e precarie, oppure rimangono situazioni più garantite sul piano istituzionale come il Teatro India ma che sono bloccate.

AB – Ma tu eri stato coinvolto in un primo periodo nel Teatro India…

GBC – Per lavorarci ho chiesto alcune cose che non mi sono state date, per cui ho salutato e me ne sono andato. Non mi interessava, preferisco non soffrire, il livello della sofferenza è già troppo alto nel lavoro quotidiano. Ci sono delle considerazioni che per me sono fondamentali, puramente artistiche, su cui non riesco a transigere, per cui se io mi occupo di qualcosa lo faccio perché credo che abbia un senso, se mi occupo di uno spazio, di un festival, inviterò sempre quelli, e soltanto quelli, di cui stimo il lavoro. Nel momento in cui mi rendo conto che invece c’è una confusione tra il piano artistico e altri criteri lontani da questo, per cui il valore artistico e quello che si fa in quel luogo è secondario rispetto ad altre logiche di scambio, non mi interessa più. C’è tanta gente che è capace di far questo, di mediare o di fare esercizio di diplomazia, io non sono disposto a farlo. Per questo all’Auditorium mi sono trovato meglio, nel mio incarico c’erano dei limiti ben precisi perché la programmazione è limitata nel tempo e c’è un ricambio continuo, c’è una logica dello spazio, per cui uno spettacolo si fa per uno, due giorni, massimo tre. Non è una logica da teatro, ma nonostante questo ho avuto carta bianca sulle scelte artistiche.
Tra l’altro sono riuscito a creare il premio Equilibrio per i giovani coreografi che non esisteva, e, a parte il festival che ho creato io, spero che questa nuova iniziativa di Vertigine possa avere una continuità nel tempo, adesso è sostenuta dalla Regione per cui non so bene cosa succederà dopo le elezioni, in ogni caso ho l’impressione di fare qualcosa di sensato. La cosa allucinante in Italia è che i teatri non siano legati a degli Artisti, o quantomeno, le considerazioni per le quali delle persone vanno a dirigere i teatri sono di altro genere, non immediatamente artistiche.
Secondo me un teatro non deve essere solo un luogo dove si esplica una politica culturale, o la politica e basta, è un luogo che deve esprimere un pensiero sul teatro, di qualsiasi genere, non necessariamente un pensiero d’avanguardia o di ricerca ma una riflessione profonda sul teatro. Per far questo c’è bisogno di un artista, di qualcuno che il teatro lo faccia, e poi ovviamente c’è bisogno di un’altra figura professionale, quella che si occupa della gestione amministrativa e organizzativa. Invece i teatri pubblici sono dei pachidermi, da una parte hanno una gestione molto complessa e sottoposta a ogni tipo di ricatto e poi tendenzialmente sono governati dalla politica. L’ingerenza della politica in Italia ovviamente è nociva in tutti i settori, ma nel teatro si è rivelata mortale.

AB – Tu che hai un’esperienza di lavoro in costante rapporto con l’estero, che tipo di confronto puoi fare?

GBC – E’ il secondo anno che preparo uno spettacolo per l’Odéon che è il più grande teatro di Parigi, il più grande teatro di Francia e forse d’Europa, ma non è solo una questione di primati. Il ministro della cultura francese ha affidato la direzione al drammaturgo e regista Olivier Py e lui svolge il suo lavoro presentando i propri spettacoli e producendo altri spettacoli all’interno di un progetto preciso, di una direzione artistica che gli corrisponde. Quindi fa dell’Odéon non solo il teatro di Olivier Py, ma il teatro in cui si sviluppa un pensiero sui testi poetici, un luogo di poesia teatrale, quindi di testi dove non prevale il realismo o la presa immediata sui problemi sociali, ma piuttosto la ricchezza della lingua poetica. Che poi tutto questo abbia anche una presa sulla realtà è inevitabile, come dimostra il testo di Py “Epistola ai Giovani Attori”, che ho portato in scena in Italia.

Sono testi scritti con una forte attenzione alla parola che diventa elemento fondamentale, la parola intesa come parola poetica, parola simbolica, parola piena, parola che si perde col suo suono e col suo significato originario nelle radici stesse della parola. E’ una scelta di Olivier che poi si deve confrontare col pubblico. L’anno scorso lui ha fatto un ciclo di lavori di Howard Baker, un drammaturgo inglese in Italia completamente sconosciuto, molto potente, e io ho messo in scena il suo Gertrude, la madre di Amleto. E’ una sua riscrittura dell’Amleto, violentissima, con un linguaggio poetico e nello stesso tempo scuro, denso, pulsionale, molto, molto forte. Quest’anno invece stiamo lavorando su Dimitriades e adesso sono alle prese con un suo testo. Py ha voluto affidarmi questo compito, di confrontarmi con questi testi un po’ enigmatici. Quindi si dà spazio alla nuova drammaturgia, assumendosi un rischio ma anche un ruolo di promozione culturale: far scoprire al pubblico degli autori sconosciuti. Nello stesso tempo si lavora in un teatro molto grande, che comunque deve rispondere a un pubblico vasto e a dei conti economici, deve mantenere e far crescere gli abbonamenti. Gli stessi problemi che hanno i nostri grandi teatri pubblici, ma loro rischiano mentre noi no… Tra l’altro all’Odéon hanno un progetto che oltre agli autori coinvolge anche registi di generazioni e provenienze diverse, che vengono messi alla prova durante la stagione. Ci sono anche registi molto più giovani di me ed ognuno di loro fa riferimento a una particolare scena nazionale, a un centro drammatico nelle diverse regioni. La Francia è piena di questi teatri, che sono anche teatri di produzione, diversamente dai nostri, che di produzioni ne fanno sempre meno e all’interno di un giro molto ristretto, dove devi rispettare certe regole di allestimento degli spettacoli, di materiali che adoperi, di interpreti, secondo dei criteri stabiliti da coloro che controllano questo circuito e che sono da questi ritenuti accettabili per il pubblico, come se il pubblico avesse un suo indice di gradimento che determina poi le scelte di programmazione, un po’ come accade in televisione. Questo abbassa il livello dei cartelloni e riduce la varietà delle offerte.

AB – Già Dario Fo aveva detto anni fa che a vedere i cartelloni degli stabili italiani sembrava di essere al cimitero perché erano tutti autori morti. Alla stagione teatrale sembra poi che siano abbonati anche i registi oltre agli spettatori. E poi sopratutto accade quello che dicevi tu, c’è un eccesso di filtri che vengono imposti sulle scelte del cartellone, innanzi tutto il filtro politico, poi il filtro dello scambio di produzioni tra teatri stabili che poi è la logica che fondamentalmente li regge. Inoltre nella prassi mi sembra che sempre di più la produzione teatrale si stia trasformando in una sorta di catena di montaggio, per cui si montano degli spettacoli anche su autori e su testi complessi in pochissimo tempo per qualcosa che poi muore li, o che comunque ha una limitata circuitazione, viene a mancare il tempo necessario per l’elaborazione artistica di un progetto di messinscena. Il mestiere prevale sull’arte.

GBC – Certo, un progetto di messa in scena ha un costo e il tempo di allestimento dipende dal budget dello spettacolo, per cui se non ci sono molti mezzi bisogna far presto. In Francia ho quasi due mesi di prove, un lusso di cui sono più che felice. Il progetto su cui sto lavorando è in preparazione da più di un anno, mi è stato commissionato con due anni di anticipo e quando sono andato a scegliere gli attori ho avuto la più totale libertà. L’attrice che per esempio rappresentava Gertrude ha vinto il Molière, per cui sono stati ben felici di farla lavorare ancora e per me è una delle migliori attrici che ci siano in Francia in questo momento.

AB – E invece una realtà più povera come quella del Portogallo, che tu conosci bene, che caratteristiche ha ?

GBC – Ci sono due teatri nazionali, uno a Lisbona e un altro a Porto, poi ci sono tante altre piccole realtà con grandi difficoltà perché comunque in Portogallo la situazione economica è ancora peggiore della nostra. Però anche là c’è una grande ricchezza di proposte e un gran fermento. Per esempio Raquel Silva, che è la mia assistente storica e alla fine dell’anno scorso ha presentato un suo lavoro all’India, adesso sta mettendo in scena uno spettacolo con un gruppo di attori che ha deciso di fare il giro delle montagne, un percorso costruito durante diversi anni di escursioni attraverso tutti i paesini delle montagne portoghesi. E’ un gruppo molto attivo e anche molto interessante e la caratteristica dello spettacolo è che può andare ovunque, in qualsiasi sala con qualsiasi caratteristica, molto flessibile, e così loro portano il teatro laddove il teatro non è mai stato. Quindi scoprono un impatto primario del teatro sulle persone, riproducendo una sorta di fase originaria dell’evento teatrale. Il Portogallo è una terra molto strana, perché da una parte è totalmente europea, ma conserva ancora un elemento arcaico fortissimo. C’è ancora quello che in Italia esisteva fino alla morte di Pasolini: un legame con la terra, con la campagna, che qui si sta perdendo, si sta sfaldando. A Porto si sente più che a Lisbona che è una città più europea. A Porto si trovano ancora quelle che Pasolini chiamava le facce da poveri, non sono ancora completamente omogeneizzati. Ma anche lì ovviamente le cose stanno cambiando.

AB – Tornando a Py, la scelta di quel testo come è avvenuta?

GBC – Il passaggio è stato abbastanza singolare, perché sapevo che lui aveva scritto questo testo, ma non l’avevo ancora letto, poi dovendo scegliere gli attori per fare Gertrude, mi ha dato il video de l’Epistola interpretata da John Arnold, un attore franco-inglese che interpretava il personaggio principale in una maniera straordinaria, nello stesso tempo mi sono innamorato del testo, per cui quando dall’ambasciata francese mi hanno proposto di fare qualcosa per Face à Face, io ho detto che mi sarebbe piaciuto moltissimo lavorare sull’ Epître. Il testo ha una potenza incredibile, Epistola ai giovani attori è una lettera, un anatema lanciato per far conoscere ai giovani attori qual è l’essenza del teatro. Il poeta si veste da attrice tragica per parlare del teatro, invocando la forza della parola nel momento in cui viene in tutti i modi calpestata, dimenticata. Non si tratta ovviamente di un’apologia della chiacchiera ma della parola intesa nel suo senso più profondo, nella sua essenza che è misteriosa, enigmatica unione di visibile, di udibile e di inaudito. Una parola legata all’invisibile all’inesprimibile come punto emergente di tutto quello che non può essere detto e non può essere espresso e nella fattispecie, il sacro, tutto ciò che ha a che fare con la poesia, con il mondo nascosto e quindi con il valore simbolico della parola. Dove per simbolo si intende quello che si può mostrare dell’invisibile. Quando Florensky parla delle icone appese sull’iconostasi nella chiesa ortodossa, le icone non sono delle immagini, ma delle finestre aperte sull’altro mondo, che è il mondo dei sogni o l’al di là o il mondo dei santi, che per lui sono la stessa cosa.

AB – Tra l’altro il termine ”simbolo” etimologicamente vuol dire unire, unione, quindi è l’unione del visibile con l’invisibile, del rappresentabile con l’irrappresentabile, e mi sembra che una chiave importantissima di quel testo sia l’idea che nel momento in cui si perde la capacità della parola, nel senso in cui la intendevi tu, non c’è più alcun ponte con l’invisibile e con il simbolico. Questo è il vero inferno, invece del simbolo c’è il “diavolo”, la cui etimologia è appunto, all’opposto, divisione, separazione…

GBC – Nella nostra società mediatizzata abbiamo inventato la cosa peggiore che possa esistere, un simbolo che non significa nulla, non un simbolo che simbolizza il nulla ma il simbolo di un simbolo di un simbolo… un rimando di specchi che non significa assolutamente nulla, uno svuotamento totale. L’universo dei significati ridotto alla piattezza della traduzione letterale: l’ A=A dell’espressione televisiva, dove si racconta soltanto ciò che è, o che appare. L’impero della tautologia. Nel testo di Py a questo mondo si contrappone la maschera dell’attrice tragica che si spende giocando su tutti i registri possibili, dal gigionismo più estremo a una componente fortemente patetica, all’ironia. E in questa sua omelia in favore della poesia e della parola poetica viene continuamente interrotta da vari personaggi che in un qualche modo rappresentano gli stereotipi della contemporaneità e contro cui poi lei si scaglia. Alla fine dice: in fondo la parola è promessa, la parola non è soltanto qualcosa che appartiene al passato, ma anche qualcosa che appartiene al nostro destino e il nostro destino è promessa, promessa di una trasformazione, di un’altra vita, di un’altro mondo anche in senso metafisico. Si ribadisce qui una funzione epifanica della parola, è molto diverso dire mi fanno male i piedi, che è l’espressione di una sensazione, e io ti sarò fedele, che è una promessa, e la parola è anche amore nel senso più ampio, un atto di appartenenza al genere umano e quindi anche alla divinità che nel genere umano si rispecchia.

AB – In questo si riprende anche la tematica espressa da Benjamin nell’Angelus Novus dove si dice che il mondo prende forma con l’atto di dare un nome alle cose, quindi la cosmogonia passa attraverso la parola, o come nelle Vie dei Canti di Chatman, dove memoria e identità di un popolo, quello aborigeno, sono legate alle parole e al loro suono originario.

GBC – E’ il potere profondo della parola che nello stesso tempo è suono. Qui si rivela l’importanza del valore fonetico, la capacità del fonema, della sonorità, di risuonare e di riempire lo spazio. Quindi il fonema anche come energia, come potenza vitale, legato al senso, legato alla composizione di una parola accanto all’altra. Di fatto ogni parola ha la sua potenza, la sua radice che si proietta nel rapporto con l’altro e di conseguenza esprime un’energia sia vocale, che mentale, che fisica legata al respiro, il soffio vitale che tu proietti in direzione dell’altro da te. In questo scambio, in questa promessa passa il non detto che c’è tra gli esseri, tutto ciò che non è esplicitato e che comunque è presente nell’atto stesso in cui questa parola viene formulata. Una straordinaria ricchezza che si perde nel bla-bla, nella degenerazione del discorso prodotta soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa. Perché la parola oggi s’impone come rumore, mentre dovrebbe scaturire dal silenzio e non dal frastuono, è un momento di silenzio, diciamo che deve stagliarsi in esso, per questo per me il teatro parte da un momento di quiete e di silenzio, di ascolto. La parola è ascolto delle parole che risuonano dentro noi stessi e i poeti notoriamente sono attraversati dalla parola, non la possiedono, ma ne sono il veicolo.

Ricordiamoci della Lettera del Veggente di Rimbaud che diceva: io è un altro, la parola attraversa, viene da altrove, è udita, anche Olivier Py vuol dire questo nel suo testo. Rimbaud diceva non è colpa del legno se ne fanno dei violini, cioè non è colpa del poeta se a un certo punto la sua materia si mette a cantare e a suonare parole. Quando uno scrive davvero non sta più scrivendo, è scritto, non so come dire, viene scritto da qualcos’altro.

AB – Sì. È quello che ho sperimentato anche nella mia esperienza drammaturgica, che la scrittura funziona proprio quando non c’è più l’intenzione. Quando tu sei preso dalla scrittura, quando accade che le parole si scrivano da sole, allora in questa fluidità si percepisce che sta passando un’energia, si sente che c’è veramente la parola come materia vivente e significante. D’altra parte la radice della poesia è la preghiera, il mantra, unità indissolubile di significato e di vibrazione sonora, come diceva Paul Valery la poesia raggiunge il senso attraverso il suono. Perciò è così difficile tradurre la poesia.

GBC – Eppure, quando c’è veramente questa attenzione, si riesce a scavalcare anche la difficoltà di traduzione da una lingua all’altra. Questo è un altro miracolo della parola, che in qualche modo attraverso la sensibilità del traduttore riesce a far passare il suo senso intatto da una lingua all’altra.

AB – A proposito di questo, alcuni si sono domandati come mai tu non abbia usato per la tua messinscena la traduzione già pubblicata (da Editoria & Spettacolo), preferendo invece far ritradurre il testo a Gioia Costa. Leggendo l’originale francese di Py e ascoltando dall’attore la traduzione di Gioia, ci si accorge del lavoro straordinario fatto da lei. Secondo me a un certo livello il traduttore è come una sorta di medium, la traduzione diventa una specie di lucida trance, soprattutto quella per il teatro che deve poi essere espressa, deve funzionare in bocca all’attore.

GBC – Premetto che io conosco molto bene il francese, per cui riesco a rendermi conto se la traduzione risponde esattamente o meno alla mia lettura. La traduzione esistente era molto francesizzante e si perdeva secondo me il linguaggio parlato di Olivier.
Gioia è molto brava, ci avevo già lavorato, aveva tradotto per me dei testi di Artaud particolarmente difficili, scritti in un periodo in cui lui era profondamente disturbato, pieni di parole inventate, però con un senso profondo che le legava alle altre parole, una miscela esplosiva che Gioia era riuscita a tradurre in modo da consentirmi di recitarla. Quindi, nel momento in cui mi sono trovato di fronte a una lingua come quella di Olivier, che può essere estremamente raffinata e in certi momenti cercare l’opposto, scavando nel linguaggio più basso per poi di nuovo ripartire, mi serviva una traduzione molto, molto sensibile.

AB – A questo punto chiedo a Gioia: considerando che paradossalmente la forza del testo di Py è anche la sua difficoltà, un’apologia della Parola e della sua musicalità, con una stratificazione di significati e anche di livelli linguistici, qual è stato il tuo approccio iniziale alla traduzione e quali le tue principali chiavi di lettura?

G COSTA – Olivier Py scrive con lo stesso slancio con il quale recita e mette in scena: un fiume. Quando Giorgio Barberio Corsetti mi ha proposto di tradurre l’Epistola ai giovani attori per la sua compagnia questo invito è stato per me un vero dono. Sono anni che rileggo questo testo e lo faccio leggere, perché tocca la mia ricerca di una parola-parabola, una parola che è azione. Rispetto all’insieme della produzione drammaturgica di Py, questo testo è un getto, come lo sono in natura quei germogli che rompono la corteccia. È un’invettiva d’amore e di rivolta, e non differisce dalle opere più strutturate e drammaturgiche: solo, sembra esserne la filigrana.

AB – Cosa manca e cosa può esserci in più, o di diverso, nella versione italiana rispetto a quella francese?

G COSTA – Ogni testo è un particolare movimento: nello spazio, nel corpo dell’attore, nella scena. Cambiando lingua, il movimento cambia. La scommessa, traducendo, è trovare una nuova andatura, che sia corretta ma che abbia carattere: si tratta di creare un nuovo tempo per la parola. Ed è bellissimo cercare.

AB – Quali differenze riscontri tra le caratteristiche della parola drammaturgica italiana e francese?

G COSTA – Una volta Luca Ronconi, rileggendo insieme un testo, parlando delle differenze del pubblico mi ha detto: i francesi ascoltano, gli italiani guardano. Folgorante nella sua chiarezza. Credo l’origine sia qui.

AB – Vedendo lo spettacolo e rileggendo il testo sia in francese sia nella tua traduzione, mi ha colpito molto la sua forza di rilanciare il teatro come luogo di riscatto simbolico di una parola spogliata di senso dalla società. Il teatro può svolgere effettivamente ancora questo ruolo di provocazione e sensibilizzazione collettiva della collettività, soprattutto dei giovani, come accadeva tra gli anni 60 e 80?

G COSTA – Speriamo! Sono certa che abbia un grande valore e una forza che opera in profondità: è il luogo della Parola, e se Py ha saputo ricordarci quanto la parola possa modificare le cose, e fondarle, e generarle, allora sì! Credo che – con le giuste proporzioni – il teatro, come ogni autentica arte, rimetta in scena il mondo, apra uno squarcio verso l’infinito. Così l’invisibile, l’insensato, possono trovare la loro forma, e svelare quel mistero cui il palcoscenico sa magicamente dare la parola. Perché il teatro possiede un segreto: sa offrire il buio e il silenzio per un ascolto straordinario.

AB L’Epistola ai giovani attori a tratti assume quasi il tono di un manifesto programmatico, può essere letto come una metafora forte non solo rispetto al teatro ma anche in relazione alla società attuale. Io ho sempre pensato al teatro, forse in una visione troppo utopistica-idealistica, come a un laboratorio antropologico, perché il teatro non è solo una dimensione artistica per quanto grande possa essere, ma è una sorta di sperimentazione dell’umano, di catarsi e di deposito della memoria ma anche di promessa, di una visione futura. La perdita del linguaggio simbolico e della capacità di comunicare – per esempio con altre culture – è uno degli eventi tragici centrali della nostra epoca ed è quindi molto importante che diventi soggetto dell’elaborazione drammaturgica.

GBC – Sicuramente il testo di Olivier funziona in tantissime direzioni, proprio perché centra un punto fondamentale, ovvero il valore assoluto della parola nella sua complessità di relazione con l’uso pratico e nello stesso tempo di relazione con l’indicibile, col mistero, col segreto. Coglie uno dei punti nevralgici delle nostre relazioni, della relazione tra un uomo e un altro uomo, o un uomo e gli altri uomini, la cosiddetta società. Sicuramente colpisce profondamente quelli che della parola hanno fatto la loro arte, cioè gli attori. Devo dire che le reazioni più forti, più commosse le ho sentite da parte degli attori che mi dicevano: questo testo restituisce un senso profondo al lavoro che facciamo, ci ridà uno spessore, una profondità. Tendenzialmente l’attore viene considerato come una specie di essere scimmiesco che mima gli atteggiamenti della vita quotidiana o le emozioni senza capire esattamente cosa sta scimmiottando. Dall’altra parte c’è anche il pubblico normale che sente risuonare in questo testo qualcosa che gli appartiene intimamente, il bisogno profondo che c’è in ognuno di noi di poesia, anche se la poesia è qualcosa che sembra del tutto staccata dalla vita quotidiana delle persone. Di fatto è come se quotidianamente vivessimo in una situazione di esilio, anche quando non ne siamo consapevoli, anche quando pensiamo di appartenere a questo luogo così come ci viene proposto, noi risentiamo nostalgia per un altro luogo. Questo sentimento dell’esilio può essere colmato o espresso soltanto dalla parola poetica, quest’altra terra, quest’altro luogo a cui noi veramente, profondamente, apparteniamo, che non è qua, è là. E quando incominci a far risuonare quest’altra possibilità ne sviluppi anche la coscienza.

AB – Paradossalmente la poesia è la meno letta e la meno venduta oggi ed è forse quella di cui forse c’è più bisogno

GBC – Più che bisogno, mancanza, perché il bisogno è qualcosa di cui si è consapevoli, invece si può essere mancanti di qualcosa che non si conosce. Certo si può vivere a metà, però se si riuscisse a vivere completamente sarebbe meglio. Se la vita fosse più piena sarebbe meglio. Dipende dalla coscienza e dalla consapevolezza dell’essere, dell’essere qui, dell’esserci. A me pare che il testo di Py lavori proprio su questa zona, su questo vuoto, che non è un vuoto metafisico, perché oggi ci sono delle scavatrici condotte da personaggi vivi e concreti che lavorano a togliere terreno, a creare questo vuoto giorno per giorno.

AB – La struttura del testo è un po’ mercuriale, c’è una sorta di struttura interna che disegna un possibile percorso della consapevolezza, è una parola che man mano diventa sempre più forte, man mano diventa più pregnante, si avvicina a un nucleo di senso sempre più denso…

GBC – Ci sono delle stazioni in cui intervengono dei personaggi – i disturbatori – che hanno un atteggiamento fortemente enunciatorio. Mentre la parola dell’attrice tragica ha un andamento ellittico, segue delle spirali, riviene su se stessa, riparte e poi a un certo punto scivola, invece i disturbatori hanno un loro carattere ma allo stesso tempo hanno una funzione, servono a suscitare la reazione dell’’attrice. Anche la maschera dell’attrice tragica che si mette il poeta all’inizio, gli permette una moltiplicazione dei punti di vista, a volte è il punto di vista del poeta, a volte è il punto di vista dell’attrice tragica, a volte del poeta che porta quella maschera. Questa moltiplicazione dei punti di vista permette all’attore di scivolare da un’identificazione totale con quello che dice ad una grande ironia e a un distacco, c’è un gioco, si apre un terreno molto vasto in cui lui può muoversi.

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Andrea_Balzola_in_collaborazione_con_Silvio_Combi

2010-02-03T00:00:00




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