Avventuriero del linguaggio
Una intervista con Sergio Pappalettera
Penso che Duchamp, come dai suoi diari, abbia girato la ruota perché si stava annoiando. Può essere anche un suo modo di dichiarare qualcosa, però ci posso credere che lui fosse a casa di sua sorella, ha preso questa ruota e lha girata. Altrimenti saremmo tutte persone che ogni giorno si svegliano con lansia di produrre qualcosa.
Avrei voluto conoscerlo da piccola. Mi avrebbe trasmesso lentusiasmo per la complessità, delle cose, ferme e in movimento, degli eventi, dei pensieri e delle parole, delle piante, degli animali. Delle persone. Avrei capito che per impossessarci di una qualsiasi verità della Natura, osservandola con locchio di artista, di scrittore o di commercialista, è inutile partire dalle cose più semplici: la semplicità non esiste. Tutto nasce complesso, tutto è intriso di una magia naturale molto più profonda di quella che ci immaginiamo. La complessità è un albero e la semplicità ne è il frutto.
Sergio Pappalettera è un avventuriero del linguaggio. E un artista che si accontenta del mondo, perché è un posto non ancora del tutto scoperto, e per questo crede che la fantascienza sia un porto dellimmaginazione ancora lontano.
Il Big Bang delluniverso artistico di Pappalettera, avviene ogni giorno nello Studio Prodesign di Milano, officina delle cover dei dischi dei più importanti musicisti italiani, e luogo di progettazione di comunicazione e linguaggi, legati allevento dal vivo.
Euno dei guru italiani della sperimentazione visiva, da sempre primo collaboratore per le performance live e per i progetti grafici di Lorenzo Jovanotti Cherubini.
La storia di Sergio Pappalettera è ricchissima di creazioni ed eventi.
E nato a Milano il 15 settembre del 1961. Ha frequentato il liceo artistico, la facoltà di architettura al Politecnico di Milano, e ha fatto parte della Scuola del Cinema di Milano. Agli inizi degli anni 80 ha fondato lo Studio Prodesign, orientando la propria attività nellambito musicale; innumerevoli le collaborazioni con i più grandi artisti italiani: possiamo citarne alcuni, tra cui Franco Battiato, Renato Zero, Laura Pausini, Giorgia, Gianni Morandi, 883 e Max Pezzali, Pino Daniele, Adriano Celentano, Irene Grandi, Timoria, Raf, Mario Venuti e Nek, per i quali ha realizzato le cover destinate alle loro produzioni discografiche. La sua collaborazione più grande rimane tuttoggi quella con Lorenzo Jovanotti.
E stato scenografo per tour musicali e per il teatro. E stato regista di videoclip musicali, premiati dalla critica negli anni in cui sono stati prodotti: Forma e sostanza (1997)con Giovanni Lindo Ferretti dei CSI, File not found (2001) e Salvami (vincitore nel 2002 del Premio per la regia del miglio video di Ricerca) di Jovanotti. Sempre per Jovanotti ha prodotto un video sperimentale girato in super 8, dal titolo Mamillapatalla, una sorta di diario-racconto della realizzazione del disco Capo Horn del 1999.
Nel 2000 ha realizzato un cortometraggio intitolato Venceremos selezionato come film per il Sundance Film Festival e Festival di Locarno.
Molteplici sono i premi da lui ricevuti nel corso della carriera oltre a quelli già citati, tra cui il riconoscimento per le opere realizzate in campo grafico e per le videoinstallazioni ricevuto a Brescia Music Art nel 2000, e il premio per il mediometraggio Mario il Cavallo ritirato nel 2001 al Roma International Film Festival.
Nel 2004 lIstituto di Cultura Italiana in Brasile ha organizzato una mostra su tutte le più importanti cover della musica italiana di Pappalettera, accanto ad una personale sulle sue opere, dedicandogli un intero piano del Palazzo di Giustizia Federale di Rio De Janeiro.
Il 2008 è lanno della personale Il gioco del mondo in Triennale Bovisa a Milano: un progetto di grande successo, che ha visto la partecipazione di Lorenzo Jovanotti e Aldo Nove, il cui tentativo è stato quello di modificare la chiave di lettura dellesposizione delle opere darte. Attraverso il lavoro svolto dallartista, lo spazio dedicato alla mostra ha ospitato opere che hanno rielaborato il concetto di gioco e i suoi oggetti, come reinterpretazione di elementi comunicativi e simbolici.
Nel corso degli anni ha maturato esperienza nel campo dellinsegnamento: dopo aver collaborato come docente in alcune Università lombarde nei corsi di Comunicazione Visiva e Graphic Design, è attualmente titolare della cattedra di Crossmedialità e Creatività presso lo IULM di Milano. E chi meglio di Pappalettera può insegnare la materia, lui che utilizzando larte e i mezzi informatici è riuscito ad alternare, e forse anche a combinare, marketing artistico e show design. La crossmedialità, cioè la dimensione permessa dalla convergenza digitale per le attività di creazione e di distribuzione dei contenuti informativi o di intrattenimento, fruibili a richiesta in diversi formati e su diversi apparecchi, è la nuova frontiera dellofferta di mercato.
Varco la porta del Prodesign in una fredda giornata di inizio Dicembre, giusto qualche giorno prima che lItalia di fine 2009 venga completamente coperta dalla neve. Allo Studio cè anche la cucina, che si fa posto tra le immagini de Il gioco del mondo.
E il caffè di Sergio è sempre pronto
Qual è la tua storia? Come sei arrivato ad essere Pappalettera illustratore di copertine, regista e show designer? Come mai hai scelto questo settore particolare?
Potrei dirti che la mia carriera di artista è iniziata frequentando il Liceo Artistico.
Erano gli anni 70, e Liceo Artistico significava imparare tre forme di comunicazione ben precise: scultura, pittura, architettura.
Io ero poco interessato allarchitettura e non conoscevo la scultura: per me era importante disegnare. Il liceo mi ha dato la possibilità di approfondire i rapporti con i miei professori che erano pittori, e il fatto di essere pittori impegnava noi studenti a frequentare mostre e gallerie, a entrare in contatto con la figura dellartista vero e proprio. Così, dopo un bel periodo di frequentazioni di persone ed ambienti, ed ovviamente di studi, iniziai a sentirmi artista anche io. Fu il momento in cui dissi ok, voglio fare questo mestiere, voglio fare lartista.
Poi però, quando frequentai lAccademia, in modo un po presuntuoso pensai che il pittore lo potevo fare anche senza una preparazione accademica: mi volevo cercare un ruolo diverso e mi iscrissi alla Facoltà di architettura, mantenendo sempre linteresse per il disegno, passando attraverso fasi come il surrealismo, linformale
Questa è la ritengo una cosa bella, perché tutti passano le fasi, un giorno sei Dalì, poi laltro giorno sei un Informale, poi sei Pollock e due settimane dopo diventi Fontana che taglia le tele! E una cosa normale, fa parte del bagaglio di esperienza personali, che va riempito il più possibile.
Oltre ad essere divertente è anche importante, perché è un percorso, una conoscenza delle varie ramificazioni della materia che diventa oro quando sei più grande. Tecnicamente è una ricchezza immensa, perché nel tempo ti accorgi veramente di saper usare le mani. A me è successo così.
Tornando agli studi di Architettura, in quel momento non capivo nemmeno io che cosa fosse la figura dellarchitetto: è utile ripetere la data, inizio degli anni 80, per ricordare che Architettura voleva dire Archittettura o Urbanistica, ancora una volta a differenza di oggi che ha vari distaccamenti che vanno dal Movie Design al Design applicato, etc.
A quel tempo dovevi diventare come Renzo Piano o Le Corbusier, o un tecnico del territorio.
In quel periodo però, presso il Politecnico di Milano, grazie a Cesare Stevan, nacque un Centro di Documentazione Video: Stevan comprò delle Betacam, io mi avvicinai a questo Centro e alle macchine da presa, e insieme ad un altro allievo e ad un assistente, cominciammo a fare dei documentari. Da qui la grande passione della ripresa. A questo punto per me poco importava che andassi a riprendere un mercato della frutta o degli elementi di architettura, era fondamentale il mezzo. Iniziammo a giocare con i mezzi a disposizione, producevamo un sacco di video, e la passione crebbe così tanto che arrivato allultimo anno di Architettura mi iscrissi alla Scuola di Cinema, capendo che a me interessava raccontare con le immagini.
Nel frattempo aprii uno studio di grafica per sopravvivere; con molta fortuna facevo lassistente ad un gruppo che si chiamava Plagio con il quale, nel periodo in cui lavoravamo per Fiorucci, inventammo i famosi angeli con gli occhiali. Questa fu loccasione per incominciare a mischiare tutti quei linguaggi imparati al liceo. Iniziò a chiudersi un cerchio sensibile e fortunato, quello dellespressione. Vorrei aggiungere un dettaglio: studiavo chitarra classica, e avevo lopportunità di capire il senso dellespressione anche a livello musicale.
Facevo un sacco di cose, col rischio di farle tutte male, ma capivo che era un punto a mio favore perché sapevo fare tutto spinto dalla voglia di conoscere tutto, un tutto, sintende, ristretto al campo dellarte.
Il video e la fotografia entrarono prepotentemente nella mia vita, ovviamente in maniera analogica: il computer iniziò ad arrivare quando io facevo già il grafico con la colla e la carta, con le immagini prese dai libri e dalle riviste che io andavo a comprare a New York.
New York e il Giappone per me erano la base di una parte del mio lavoro: là andavo a cercare le riviste dove si trovavano i font, i caratteri, che una volta in Italia fotocopiavamo per inventarci caratteri nuovi da utilizzare nei lavori di grafica.
Avvicinarsi a tutte le tecniche, imparare più cose possibili, sperimentare più linguaggi, è come parlare una lingua universale nel momento in cui si lavora e si collabora con persone che svolgono lavori artistici diversi.
Posso fare un esempio in parallelo con la musica: da chitarrista classico non mi ero mai avvicinato alla musica elettronica, e adesso, a cinquantanni, mi trovo ad essere innamorato della musica elettronica, non solo di quella colta, ma di quella dance! Sembra un paradosso, ma è la voglia costante di scoprire che ti porta fare questo; non credo tanto nel mettersi in gioco, credo piuttosto nel divertimento di conoscere una cosa nuova, che non ti annoia mai. Tanti sostengono che lunico difetto può essere quello del non andare mai veramente in profondità nelle cose, ma secondo me non è vero, anche landare troppo in profondità può nascondere grandi mancanze. Per tornare alla similitudine musicale, lesecuzione non è la creazione, un musicista può essere un grande esecutore, ma non vuol dire per forza che sia un grande compositore o comunque un grande comunicatore di sensazioni.
Cè un bellissimo testo di Nelson Goodman in cui si parla dellinterpretazione, dove lautore si chiede se una canzone triste debba avere anche un interprete triste: la risposta è no, linterprete deve essere bravo a dare quella sensazione e lo può fare conoscendo tutte le sensazione e gli stati danimo dellessere umano.
Questo per dirti che sin da giovane ero stregato dallidea che la creatività fosse una dimensione superiore.
che cosa ti attraeva del video?
Il fatto di essere duttile, veloce, che poi è il motivo per cui è diventato sostitutivo del cinema perché è più duttile. Per questo mio modo di essere molto infantile, ero e sono molto affascinato dal video perché mi dà la possibilità dellimmediatezza; ho bisogno di tempi più ristretti proprio per un fattore caratteriale. Il set fotografico, per esempio, mi annoia: la meticolosità e lattesa per me sono fonte di noia e mi sembra di non poter esprimere al meglio delle cose che vorrei fare. Inseguo da sempre la filosofia dellazione intesa come il fare: mi piace il concettuale nella fase dello studio, ma nel momento dellesecuzione ho bisogno di immediatezza. È un po come accade in musica con il solfeggio, che è ritenuto dagli studenti una cosa massacrante, che ti fa quasi pensare di smettere di suonare; però poi ti accorgi che anche la fase del solfeggio è fondamentale perché non solo è una possibilità di lettura e di interpretazione della musica, ma di scrittura. Dopo un lungo studio, il solfeggio diventa come una cosa innata, non ci si chiede più i perché della posizione dei pallini neri sullo spartito, tutto diventa linguaggio libero.
Quindi ritengo che la fase dello studio metodico e noioso, anche paranoico, è la più interessante; la parte pratica non deve più essere metodica, deve essere libera.
In ogni caso non bisogna mai creare un confine tra la zona della teoria e la zona della pratica, è la regola per un buon risultato nella comunicazione!
Come è nato lo Studio Prodesign?
Lo Studio nacque negli anni 80. Come ti ho detto andavo a New York a comprare riviste utili per i miei lavori. Acquistai una rivista di skateboard che in quel momento, in America, era un vero e proprio fenomeno.
Le riviste di skateboard avevano una grafica accattivante, ed erano bellissime da guardare, con tutte quelle immagini di ragazzi che saltavano con quellaggeggio sotto i piedi. Io ne ero estasiato, era un mondo fantastico. In una di queste, tra gli annunci di massaggi, cera la pubblicità di un negozio californiano di disegnatori di skateborad che si chiamava Prodesign, ed io, dentro di me, pensai Studio Prodesign
bellissimo!!. E così arrivò il nome dello studio.
Non è un nome da leggersi a favore del design, perché in realtà a me il design non piace, molte volte è assurdo. Io sono per il bel disegno delle cose, e penso che lesasperazione nel disegno degli oggetti, soprattutto quelli di uso comune, sia una follia.
Sin dalla sua nascita il Prodesign ha realizzato copertine dei dischi, dopo aver lavorato nella moda con Fiorucci e Avirex, per citare due nomi.
Ci sono stati una serie di incontri che hanno permesso di svilupparci nel settore musicale: il primo fu quello di mia moglie Patrizia Ferrante nell 81-82 (allora non eravamo ancora sposati
) con Claudio Cecchetto, che ci chiese di rilavorare al marchio già esistente di Radio Deejay. Nel frattempo nacque Radio Capital, e venni chiamato a disegnarne il marchio e limmagine della radio stessa.
Inizialmente, moltissimi sono stati i lavori per le produzioni dance, perché in quel periodo era quello che andava, ed era anche lepoca in cui nascevano le radio libere: disegnavo copertine per artisti internazionali, che facevano tre pezzi e poi sparivano dalla circolazione, ma vendevano milioni di copie.
Le prime copertine veramente importanti sono state quelle per Jovanotti.
Lui aveva già un disco alle spalle, La mia moto, e fa un salto di qualità passando immediatamente a Giovani Jovanotti.
Andai a sfogliare una vecchia enciclopedia americana, tra quelle pagine vidi una persona seduta con la camicia a fiori e arrivò lidea per la copertina. Il disco si chiamava Giovani Jovanotti e inserimmo dei bambini che volavano
era un primo tentativo di imitare le copertine fantasmagoriche dei dischi stranieri. Ero convinto che anche in Italia si potessero fare delle cose belle come quelle: con coraggio e voglia potevamo uscire dallo standard del ritratto del cantante.
Negli anni 70 lillustratore di copertine, abusava un po dellareografo: in ogni caso si trattava di grandi artigiani dellimmagine. Il modo artigianale di produrre immagine portava sempre a dei risultati superlativi, era una possibilità di creare dei mondi, non dimenticandoci che la forma dellLp forniva lo spazio ottimale per arrivare a questa magia.
La varietà degli studi del liceo tornarono in aiuto ancora una volta per la mia avventura nella creazione delle cover dei dischi italiani.
Luso di vari linguaggi e di varie tecniche, la funzionalità della comunicazione, le riflessioni sui suoi risultati sul pubblico, sono venuti fuori anche quando hai iniziato a lavorare nei concerti?
Si, e la collaborazione con Jovanotti è stata fondamentale per capire ancora meglio i segreti della Comunicazione.
Lorenzo è il primo che mi ha dato fiducia. E lartista italiano più adatto a sviluppare un lavoro di concept e di elaborazione della comunicazione, allinterno della dimensione live. È uno che è molto ricco di ritmo, e la comunicazione stessa è ritmo, è movimento.
Non a caso nella fase di messa in scena le più grandi discussioni vengono fuori tra chi fa le luci e chi fa i video, perché sono due soggetti che attraverso il loro mezzo hanno la possibilità di raccontare a modo proprio la stessa storia, lo stesso messaggio. Ci potremmo quindi trovare di fronte a due narrazioni diverse dello stesso soggetto.
Le immagini sono pulsazioni, sono movimento, sono emozioni che vanno a tempo con la musica. Allora è chiaro che il ragionamento sulle potenzialità della comunicazione si fa serio quando si lavora con un personaggio come Lorenzo, che intraprende un percorso che va dalle canzoni vere e proprie, con dei testi, con dei contenuti, con delle parole, su cui io posso e fare delle considerazioni, al ritmo che funziona anche da solo, senza parole, e dona altre emozioni introducendo per esempio una serie di suoni accattivanti come tamburi africani o altri accenni di musica etnica inseriti a dovere in punti strategici e soprattutto in modi strategici. Diventa il territorio della sperimentazione pura, e accetta anche di lavorare su un territorio di unimmaginazione non stereotipata, ma piuttosto unimmaginazione che procede per contrapposizione. Il rischio che limmagine, lemozione non arrivino cè sempre, ma in ventanni acquisisci unesperienza tale che diventa mestiere, impari dei meccanismi automatici dellemozione stessa, sai che alcune cose funzionano sempre e altre invece non funzionano. Lesperienza è la base di tutto, ma bisogna avere la fortuna di trovare chi ci da la possibilità di farla!
Parlando di live, qual è stata la vostra prima collaborazione?
Il primo tour che abbiamo fatto insieme è Carboni – Jovanotti, nel 1992. Quellanno, e quella produzione hanno rappresentato per Lorenzo una svolta sia dal punto di vista musicale che di popolarità. Il successivo è stato il tour legato a Penso Positivo, nel 1994.
Già nel 92 Giancarlo Sforza introdusse delle innovazioni per il concerto dal vivo. Fece scalpore veder portare sul palco un canestro da basket. Il palco, per pochi minuti diventava un campo da basket, e i due cantanti erano i giocatori di una mini partita.
Fa un po ridere ripensarci, perché era una cosa molto piccola, ma anche questo abbozzo di interazione di Lorenzo e Luca con la palla da basket rappresentò in quel momento una grande novità. Il concerto diventò qualcosaltro, venne abbattuta la sacralità dellartista, della pop star.
Molto probabilmente niente era studiato dal punto di vista prettamente concettuale, ma cerano comunque delle intenzioni per lavorare su qualcosa di nuovo.
Di li in poi è stato un crescendo
Si, e la tecnologia è stata di grande aiuto nella nostra evoluzione.
Nei primi tour cerano le video proiezioni, per le quali usavano delle enormi macchine che venivano dalla Francia, ed erano state utilizzate anche per proiezioni sulla Torre Eiffel.
Le prime proiezioni veramente potenti non mi consentivano di lavorare su immagini cinematografiche, era già un risultato se riuscivo ad animare delle grafiche. Io potevo disegnare delle figure su pellicola, e loro, i francesi, riuscivano a fare una pseudo animazione. Per noi era già un successo riuscire a proiettare delle immagini di quelle dimensioni e con quella luminosità.
La luminosità era laspetto tecnico più importante e più difficile. Tecnicamente era impossibile proiettare su una superficie di 25 metri per 30, non ci pensavamo neanche, non potevamo e basta.
Queste macchine riuscivamo a proiettare per 40 metri, ed era una cosa grandiosa per noi.
Col passare del tempo, piano piano, il mezzo ha cominciato a darci delle possibilità creative.
Ricordo che era unemozione fortissima vedere il tetto del palazzetto coperto da un cielo stellato, cosa che oggi non farebbe più effetto, perché ormai il pubblico si è abituato ad un escamotage del genere.
Lo stupore viene dettato dallingigantimento; lantropologo Gilbert Durand parla del concetto di gulliverizzazione: lessere piccoli rispetto a immagini di cose o persone gigantesche, come quelle che possono essere proiettate durante uno spettacolo, produce unemozione molto forte.
Per esempio, noi proiettavamo una boccia di vetro con un pesce rosso, larga 25 metri. Era gigantesca.
Nei live dei più grandi artisti si è visto di tutto, secondo te cè ancora da inventare qualcosa che possa meravigliare o le soluzioni espressive sono già state sperimentate tutte? Credi che a un certo punto bisognerà tornare al minimalismo per suscitare emozione e stupore?
Non ho una chiave di lettura precisa per questa domanda, forse nessuno potrebbe dare una risposta, ma ci sono una serie di riflessioni che si possono fare.
Io credo che sia un punto di non ritorno inteso in un senso più che positivo. Penso che non siamo ancora arrivati a sfruttare potenzialmente tutte le nostre possibilità espressive, soprattutto dal punto di vista tecnologico. Larrivo a questo punto di non ritorno è in realtà solo un inizio.
Il ritorno sarà invece ciò che è sempre stato, cioè rimarrà intatto laspetto sacro dellartista, del performer, che fa un evento live.
Lelemento sacrale delluomo, della carne, che rappresenta se stesso ci sarà sempre, e sarà un fatto valutato e rivalutato, ma siamo coscienti che la tentazione è di andare oltre la rappresentazione di quello che vediamo oggi intorno a noi.
Non abbiamo fatto tutto, e in questo caso non parlo di tecnologia, che è arrivata ad unaltissima qualità e ci potrà aiutare sempre di più, ma parlo in termini di opera totale.
Il dono più bello dei mezzi tecnologici è la possibilità di mischiare i linguaggi. Questo non è stato ancora fatto completamente, perché è vero che sono stati usati i video post prodotti, i video prodotti in diretta, manipolati in diretta, il balletto, la parola narrata, etc..ma tutti ancora legati a quellarea sacra della centralità dellartista.
Credo che oggi le potenzialità di questi mezzi possono portati a dire Io sono quello che ha pensato lopera, ma non è necessario che io sia li, o se sono li posso essere anche virtuale.. Sarà lidea di espressione a contare, ovviamente insieme alla performance. Riuscire a concepire unopera totale che funzioni con tutti i linguaggi oggi è una rivoluzione: il problema è che bisogna essere artisti molto bravi, molto preparati, per superare il concetto di artista incentrato su se stesso. Alla base ci deve essere una grande umiltà e una grande voglia di conoscenza, di collaborazione con altri artisti, e di venire in contatto con altre forme darte. Un artista deve anche avere il coraggio di ripensare allo spazio dello spettacolo, ancora una volta per superare il concetto di centralità: deve saper rinunciare allessere al centro delluniverso della comunicazione.
Luomo, inteso come pensiero e cervello, resterà comunque fondamentale per tutto, perché la tecnologia sarà sempre un qualcosa che si adatterà al cervello umano. Pensiero e idea sono ancora più avanti delle macchine.
Guardando al futuro e pensando sempre alla situazione concerto, secondo te è possibile sviluppare una vera e propria interattività tra palco e pubblico, con laiuto della tecnologia?
Certamente. Ma questa interazione non deve essere confusa con linterazione dei multimedia. Purtroppo lunico rischio della tecnica è quella che, parlando di interazione, ci si limiti sempre al mezzo multimediale.
Il mezzo ti illude e ti vincola a quel tipo di interazione. Lidea delluomo deve nascere da qualcosaltro, deve essere unesigenza espressiva, solo successivamente il mezzo ci deve venire in aiuto.
Se è il mezzo che mi dichiara linterazione, mi dispiace, ma è poco interessante.
È lidea in se che funziona, lidea che non deve essere subordinata alla tecnologia. È un passo importante e non facile, e non so se siamo ancora pronti: linterazione in un concerto deve avere un senso, solo in questo caso possiamo dare la parola anche al pubblico diverso. Altrimenti rischia di diventare una velleità, quasi una dimostrazione di forza.
Ci deve essere unesigenza precisa di interazione col pubblico, di comunicazione dellinformazione. Il mezzo rende tutto immediato ad è una figata, è vero, ma allora potrebbe essere interessante interagire inserendo una manipolazione dellimmagine di chi sta nel mezzo alla comunicazione: esempio, limmagine che mi sta mandando la telecamerina che io ho dato ad uno del pubblico, oppure a cinquanta, o a mille, posso riutilizzarla come linguaggio, la manipolo e la rilancio quello stesso pubblico.
Se la ridonassi così comè ci illuderemmo tutti di creare linguaggio, ma in realtà non lo è.
Che cosa succede quando bisogna allestire un tour di Lorenzo? Come nasce lidea e come iniziate a lavorare?
Le prime telefonate sono quelle per dire che si inizia lavventura, per prenderne coscienza, e ci ritroviamo per sentire i pezzi nuovi e magari riflettere anche su quelli vecchi che verranno eseguiti nel concerto.
Poi ci sono le mail.
Lorenzo è capace di inviarmi, in una sola sera, mille e cinquecento immagini diverse, senza un minimo filo logico. Inizialmente sono delle immagini e basta, delle sensazioni: la sua risposta alla mia domanda sul perché abbia scelto quelle immagini è Perché mi piace!. Ma allora ci sono cose che possono piacere anche a me, e Lorenzo mi dice di inserirle, di buttare dentro materiale interessante, magari anche solo a livello sensoriale.
E ancora una volta un po quello che succede ai bambini, che fanno una cosa perché a loro piace, perché funziona emotivamente.
Da questo tipo di ricerca nasce poi una strada da seguire, dettata da una selezione.
Il modo di lavorare di Lorenzo è appunto quello di propormi una quantità immensa di materiale, che poi io rielaboro nel mio studio, e gli ripropongo a mia volta per capire in che direzione creativa possiamo andare.
Potrei dirti che allinizio cè una specie di anarchia creativa, è il famoso sogno ad occhi aperti, poi ovviamente andiamo a studiarci tutti i riferimenti culturali, artistici, sociali delle immagini che abbiamo creato. In questa fase la presenza di Lorenzo è fondamentale perché offre degli stimoli incredibili.
Nellintervista per linaugurazione della tua mostra Il gioco del mondo Lorenzo parla di una visione ludica, intesa come visione della vita. In fase di ideazione di un concerto voi pensate molto al gioco? Cercate sempre di mantenere un rapporto tra fantasia e realtà, oppure il vostro intento, utilizzando il gioco del video e dellimmagine, è quello di estraniare completamente lo spettatore?
Laspetto ludico è molto interessante, perché rappresenta una premessa al divertimento. La componente ludica di partecipazione fa già divertire i partecipanti al gioco, prima che il gioco stesso abbia inizio.
Se tu pensi al tutto come a un gioco hai la garanzia di poter interagire, daltra parte il gioco in se non potrebbe mai essere giocato senza i giocatori.
In primis il gioco è interessante perché ha delle regole, quasi matematiche ma non così rigide come unequazione, e la forza del gioco è la possibilità di poterle mettere in discussione.
Seconda cosa, il gioco è lavvicinarsi allirrealtà: il fatto che tu possa vestirti da Superman, ti fa sentire Superman, anche se poi ti butti giù dal palazzo e ti sfracelli perché non sei in grado di volare come lui. Ma questa è la grande forza del teatro, quella dellirrealtà della maschera tragica del teatro greco. Come in teatro, nel gioco cè la possibilità di avvicinarsi a qualcosa di impossibile.
Anche in tour ci avviciniamo a qualcosa di impossibile, arrivano 10.000 persone, sovraeccitate da unaspettativa che lartista non sa bene qual è. In realtà si tratta della partecipazione ad un grande rito, che lega tutti, dai ragazzi del pubblico, allartista, ai tecnici. La partecipazione al rito, con lacquisto del biglietto, lattesa di ore fuori dal palazzetto, è fortemente adrenalinica.
Dal momento in cui tutto il pubblico entra nel luogo deputato allo spettacolo inizia il nostro lavoro, noi dobbiamo dargli qualcosa che lui si aspetta. Il rito diventa necessariamente qualcosa di stupefacente: se noi non facciamo entrare queste persone in una dimensione irreale la magia non si compie. (Lasciamo per un attimo da parte il fanatismo che porta le persone a vedere più volte uno stesso spettacolo, e ovviamente a sapere esattamente quello che succederà.)
Con Lorenzo la politica, lintenzione, è sempre quella di fare entrare gli spettatori in un grande Luna Park. La definizione di Luna park per noi è sempre accattivante, perché quando entri in quel luogo sei sempre un poemozionato e un po spaventato perché andando sulle giostre metterai a repentaglio la tua vita, anche se sai benissimo che non è così perché tutto è controllato: ma cè sempre quella possibilità su mille che il seggiolino su cui sei seduto si sganci, e questo pensiero ti da adrenalina.
Oltre al gioco pericoloso cè quello rasserenante, poi ci può essere quello che mette alla prova la tua abilità nel fare una serie di cose, etc et…La metafora del Luna Park è bella perché esci e hai provato delle esperienze che ti sembrano uniche.
Il gioco rappresenta quindi il poter entrare un in un mondo fatto di irrealtà, costruendo dei nuovi linguaggi, perché nel gioco vale tutto: i bambini giocano inventando, sono pienamente coscienti che stanno operando di fantasia, ma si immergono completamente in quella, si immedesimano in tutti i personaggi e in tutte le situazioni da loro create.
Ciò che mi piace del lavoro con Lorenzo è che nellimmaginazione da noi sviluppata cerchiamo sempre di essere collegati alla realtà: ci piace immaginare un mondo nuovo, prendendo elementi del mondo in cui stiamo vivendo. Per capire questo concetto possiamo pensare a quanti giochi diversi si possono fare con le carte: il mazzo è sempre lo stesso, i segni sono sempre quei quattro, e i numeri hanno il loro valore sempre, ma i giochi sono svariati.
Io posso prendere due oggetti e creare una convergenza di significati tra di loro, posso prendere un leone e una madonna che accostati non vogliono dire niente per te, ma per me vogliono dire qualcosa; non inventiamo mai un animale a sette zampe, di raro arriviamo a certi livelli, prima di tutto ci interessa giocare con la realtà, con le cose che abbiamo già a disposizione. Questo rappresenta la possibilità di descrivere una realtà che per tutti è uguale, perché il mondo è li a nostra disposizione, però cerchiamo di trovare delle chiavi di interpretazione diverse. La mole delle cose che non conosciamo del nostro mondo è vastissima, quindi possiamo lavorare su quella, rielaborarla, senza andare a cercare la fantascienza. Operiamo con la consapevolezza di aver conosciuto e di conoscere delle cose, le abbiamo già viste e studiate, e le rimettiamo in gioco, arrivando a descrivere una realtà. Credo che sia anche una grande dichiarazione di pluralismo intellettuale, in questo modo non cè mai una verità assoluta. Quando si ha davanti un pubblico così numeroso, che ti attende per ore, e arriva di fronte al palco carico di adrenalina, entra in gioco lonestà intellettuale dell’artista, perché deve scegliere quali significati donare ad un gruppo di persone che in quel momento può assorbire qualsiasi messaggio. L’artista deve dare la visione del proprio mondo, la sua verità, che può
Francesca_Pasquinucci
2010-02-03T00:00:00
Tag: Jovanotti (2)
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