Il mistero scomparso
Alienazione e compulsione del teatro italiano degli ultimi anni
Sempre più spesso mi capita di andare a teatro a vedere nuovi gruppi, nuovi autori, nuovi registi. Lo faccio per due ragioni principali. La prima è che dirigo – o meglio co-dirigo – il Teatro Litta di Milano, che negli anni ha sempre cercato con fatica di produrre nuovi registi e nuovi autori, inserendoli nella stagione di programmazione non saltuariamente o occasionalmente, ma con una linea programmatica reale, concreta e durevole nel tempo, cercando in questo modo di dare continuità quando possibile al loro lavoro e alla loro presenza sul palcoscenico del Litta.
La seconda ragione di questo mio girovagare per teatri è sinceramente dovuta alla curiosità innata in me nel cercare di scoprire e capire quelle che sono le nuove tendenze del teatro e della danza italiana di questi anni.
A margine di questo mio essere spettatore ho iniziato da tempo a rimuginare osservazioni e pensieri sulla creatività artistico/spettacolare di questi ultimi anni. Il primo pensiero è quello preponderante: ho limpressione di trovarmi ad assistere sempre a uno stesso spettacolo, o allo stesso spettacolo. Nella realtà non è così perché i titoli sono diversi, gli artisti in scena e fuori scena sono diversi, la provenienza, la data e il luogo di creazione sono diversi. Anche le età anagrafiche dei componenti della compagnia/gruppo/ensemble sono differenti, ma è un po come se tutti facessero lo stesso spettacolo.
Questa mia percezione piuttosto paradossale di omologazione me la sono spiegata individuando una stessa forma compulsiva nella creazione degli eventi a cui ho partecipato come spettatore.
Una prima istanza è luso del corpo, che è sempre e costantemente martoriato, sudato, abbruttito, esposto, contorto, irriso, vituperato, e così via, come se fosse necessario ridurlo o trasformarlo in uno di questi modi per renderlo espressivo, per renderlo il vettore di un disagio dichiarato, utilizzandolo per unestetica deforme e volutamente alienata, indicandolo ipertroficamente come lunica possibilità drammatica di espressione.
Al corpo va unito il movimento che di solito è coatto, pseudo-danzato, parossisticamente e inutilmente reiterato in modo da creare una sorta di continuum ossessivo senza fine e generalmente noioso. Forse lo scopo della reiterazione e della ridondanza del movimento è quella di creare empatia emotiva, pietas o catarsi, ma in generale si risolve per essere una protesi emotiva quasi del tutto infantile nel suo costante stato di ebbrezza.
Sempre applicato al corpo cè la compulsione a mostrare genitali sia maschili e che femminili. E questo mostrare i genitali viene sempre fatto in modo anchesso infantile e ostentato, come se ci dovessimo tutti vergognare o al contrario esaltare per il fatto che attraverso questa nudità venga a realizzarsi una sorta di catarsi collettiva e creativa per ognuno di noi, sia officianti che partecipanti al rito espressivo/creativo.
La compulsione parossistico/espressiva del corpo viene completata con luso della voce che è quasi sempre anchessa utilizzata come suono più che come interpretazione, come singulto o urlo, impedendo la fruizione – per me spettatore – della parola nellinsieme delle sue sillabe. La fatica dello spettatore è quella di capire cosa stanno dicendo, perché il più delle volte la giostra infernale dei movimenti, unita a colonne sonore altrettanto ossessive impedisce la percezione e la comprensione della parola stessa, quando viene utilizzata, come da copione o da scrittura scenica. E anche la parola come il corpo o il movimento finisce per essere o diventare un forma distorta di narrazione o di esposizione di messaggi più o meno decodificabili.
A tratti come spettatori si ha limpressione di essere piombati in una sorta di girone dantesco dove a tutti i costi e in tutti i modi si sta svolgendo un rituale assolutamente autoreferenziale e pericolosamente patologico, molto vicino a una sorta di esperimento psichiatrico o di psico-dramma su larga scala.
Non credo di esagerare quando dico che ho visto attori/performer/interpreti farsi inondare da schiuma, acqua, piume, palline da ping pong, cereali, riso, olive, liquidi colorati, per citare solo gli ultimi spettacoli visti. E a tutti questi elementi di scrittura scenica, si possono aggiungere anche altri strumenti scenici come asciugacapelli, macchine per fare le bolle di sapone, soffiatori da giardino, trapani e chi più ne ha più ne metta.
A mio modo di vedere, in questi spettacoli in genere si viene a creare per lo spettatore una sorta di transfert con i performer/attori molto simile a quello che succede nei reality televisivi – quelli più estremi – che mettono alla prova i loro partecipanti attraverso vari livelli di difficoltà. In fondo noi spettatori conduciamo una vita normale, ma lì sul palcoscenico cè qualcuno che urla e si dibatte, mostrando anche i propri genitali, al suono di qualche musichetta straziante o irridente, atta a creare contrasto e ambiente emotivo con lintenzione di coinvolgerci il più possibile come voyer predestinati o prescelti da un fato culturale bizzarro e anche un po burlone.
Questo giochi senza frontiere del teatro contemporaneo italiano – quello più off e quello più trendy o à la page – mettono la critica e i mètre à penser in uno stato di idillio concettuale/voyeuristico abilitandoli a una proliferazione il più delle volte entusiastica in quelle poche righe ormai rimaste a loro disposizione (ahimè!) sulle pagine della cultura e dello spettacolo dei quotidiani.
Mi viene da pensare ed è questo uno dei punti conclusivi di questa prima parte di mie osservazioni/riflessioni che il teatro di questi nostri anni, in Italia, stia sempre più diventando una forma di creatività completamente alienata dalla realtà, e dalle forme psicotiche ed emotive della stessa, diventando in parallelo allarte visiva quello che Gillo Dorfles definisce i fattoidi.
Per quelli come me che hanno potuto assistere ancora giovanissimi al teatro degli anni 80 e quelli prima di me che hanno partecipato come spettatori e osservatori del teatro degli anni 70, viene naturale pensare che le esperienze di questi ultimi anni facciano riferimento a quel periodo: in realtà sono convinto che non è così. E mi sbilancio ad affermare che invece gli anni 70 non centrano niente, perché il teatro di tendenza di questi ultimi anni in Italia è frutto esclusivo dei nuovi media, e dellinfluenza che i media hanno nella nostra vita di tutti i giorni e quindi anche nella vita creativa. Il teatro che da sempre negli ultimi decenni ha voluto con forza distanziarsi come forma creativa unica, primaria e originale proprio dalla televisione, da internet, e dagli altri mezzi meccanici di riproduzione è invece diventato il naturale e alienato riferimento di questi, come per una legge del contrappasso.
Personalmente sostengo che il teatro di tendenza in Italia va sempre di più alienandosi in blog-spaces, in social networking, creando micro-community di personal bloggers in grado di convocare a se sparuti pubblici che possano postare o a loro volta essere taggati in universi completamente minimali di narrazioni svolte per compulsione e afasìe. Tali micro-raduni avvengono anche grazie agli stessi mezzi massivi di comunicazione come face book o twitter, per citare solo gli ultimi e più noti.
E come se la lezione di Amleto ai comici sul teatro come specchio della realtà si fosse completamente cancellata, sostituendo la parola specchio con la parola finestra/finestre (Windows), perché forse non è un caso che il codice Da Vinci/ex codice Hammer/ex codice Leicester sia stato acquistato proprio da Lui, Mr. Bill Gates, e sia di sua proprietà in quel di Seattle (Washington), USA.
Antonio_Syxty
2010-01-24T00:00:00
Tag: nuovoteatro (38), SyxtyAntonio (2)
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