Un horror musicale e metafisico in sette stanze e tre grotte

Santarcangelo 2009

Pubblicato il 14/07/2009 / di / ateatro n. 122

Per me quest’anno Santarcangelo, più che il Festival Internazionale del Teatro in Piazza, è stato Sette Stanze e Tre Grotte, dove sperimentare il potere del suono e della musica, il suo dramma ora salvifico ora terribile.

Nella prima stanza non ho potuto entrare. Sono salito fino alla piazzetta delle Monache. E’ arrivata Chiara Guidi, circondata da un gruppo di bambini. Dopo una breve esitazione ha aperto una porta e sono entrati tutti dentro, lei e i bambini. La porta si è richiusa, noi siamo rimasti a guardare quella casetta, immobili.

Ma subito abbiamo cominciato a sentire i rumori che arrivavano dall’interno: una favola inquietante e feroce, innervata dalle sonorizzazioni di Scott Gibbons. La storia mi pare piena di crudeltà, e destinata a una conclusione orribile.

La seconda stanza aveva il pavimento devastato, come se fosse stato deformato da un terremoto o da una frana. Le assi di legno si erano sollevate verso il centro, aprendo fessure e fenditure. Un’attrice-danzatrice ha iniziato a esplorare lo spazio, saggiando la resistenza di quelle assi.

E quelle assi, muovendosi come i tasti di un gigantesco pianoforte, producevano rumore: un cigolio, una percussione, un ritmo… Ma sembravano attivare anche altri suoni (progettati da Luigi Ceccarelli), come se la profondità – il sottosuolo – fosse abitata da chissà quali inquietanti presenze, come se i gesti della danzatrice li risvegliassero e li provocassero. La danza si è fatta via via più guerresca e pericolosa, tanto che Chiara Lagani ha dovuto indossare ginocchiere e gomitiere prima di lanciarsi in un corpo a corpo con quel pavimento sconnesso e con le sue fenditure, accarezzandolo, percuotendolo, premendolo, strusciandolo.

La terza stanza si trovava esattamente sotto la seconda. Ci siamo scambiati di posto con gli spettatori che avevano vissuto lì la prima parte della performance. Questa volta i suoni calavano da un soffitto nero. Progettati da Mirko Baliani, erano diversi da quelli della prima parte: una partitura di sonorità inquietanti, angosciate. Potevamo dedurre l’origine della musica che calava dall’alto in quella cassa acustica nella lotta danzata che ora non potevamo più vedere.
Grazie a quel pavimento-tastiera, l’intero spazio – la seconda e la terza stanza – è diventato uno strumento musicale assai complesso: solo per collegare i diversi sensori sotto il pavimento ai computer che generano le sequenze musicali, sono state necessarie migliaia di pazienti saldature.

La quarta stanza è tutta buia, l’oscurità è assoluta. Ancora una volta, siamo tutti addossati alle pareti. Dopo un po’, avvertiamo una presenza, il rumore di ruote o rotelle, forse un bicicletta, un carrello della spesa, o una di quelle valigie che ci trascinano dietro faticosamente negli aeroporti. Passano sul pavimento, il rumore si avvicina e si allontana. Quella presenza si muove nel buio, girando tutto intorno alla stanza; poi i percorsi si fanno più complessi, casuali. Quando la luce s’accende e gli amplificatori sparano un rock-punk a tutto volume, scopriamo che quella cosa era una ragazza munita di pattini a rotelle e di un visore a raggi infrarossi, in grado dunque di vedere anche nell’oscurità. Il titolo della performance è Gorgone, allude ai percorsi circolari e concentrici della pattinatrice, ma anche all’antica divinità che accecava e pietrificava chiunque osasse guardarla.

La quinta stanza è nelle ex-prigioni, un edificio in ristrutturazione. Come al solito, siamo addossati alle pareti. Entrano quattro ragazzi, indossano maschere nere a forma di cono, hanno in mano lunghi bastoni con sonagli, percuotono il terreno, saggiano le pareti, come se volessero scacciare – o evocare – presenze di cui soltanto loro sono consapevoli. E’ un rito ingenuo, elementare. A un certo punto indossano corazze di metallo e legno, che li incassano e li accecano: ora sembrano delle caffettiere giganti fuggite da chissà quale paese delle meraviglie – o degli orrori. Con quelle corazze-elmo, altre percussioni, scontri, in una danza impacciata e violenta. Adesso sono loro che non vedono.

La sesta stanza è un teatro. L’unico teatro in cui entro nei miei due giorni al festival. Ma non c’è spettacolo. C’è una conferenza del compositore Heiner Goebbels, che mostra spezzoni dei suoi lavori e li commenta, spiegando la sua “drammaturgia dei media”.

Racconta del suo teatro anti-narrativo, basato sulla scomposizione dei diversi elementi dell’evento spettacolare – luce, suono, spazio, musica, parole, corpi… – e sul confronto, o meglio lo scontro tra di essi. Richiama Brecht e lo straniamento. A un certo punto, spiega: “In teatro, meno fai vedere, più nascondi, e più il pubblico resta affascinato”.
Poi spiega che rifiuta le scorciatoie della psicologia e dell’identificazione tra attore e personaggio; ricostruisce il procedimento compositivo di Stifters Dinge (2007), uno spettacolo dove non ha utilizzato attori ma soltanto una scenografia in movimento, suoni e luci: “Gli spettatori erano molto contenti perché, mi hanno detto, in scena non c’è nessuno che dica loro che cosa pensare”.

Nel testo programmatico in cui presenta l’edizione 2009 del Festival di Santarcangelo, Chiara Guidi (delegata alla direzione dalla Socìetas Raffaello Sanzio) parla di “vedere un suono”, dello “scambio tra sentire e vedere” e delle metamorfosi che causa. E’ un chiaro accenno al fenomeno della sinestesia, al centro sia della poetica della avanguardie storiche sia di alcune delle teorie sull’opera d’arte totale, in grado di coinvolgere tutti i sensi dello spettatore, attraverso l’uso combinato di diversi media e delle diverse arti.
Ad accomunare le performance alle quali ho assistito, o forse partecipato, sono diversi elementi: il rapporto strettissimo – sinestetico – tra il suono, il corpo e lo spazio; l’uso della tecnologia, sempre determinante ma discreto, e in genere senza puntare ad alcuna forma di interattività (come nota Goebbels, “il dramma è nello spettatore”); e poi l’importanza dell’aspetto musicale, rispetto al predominio del visuale che aveva caratterizzato gli anni Settanta del “teatro immagine”.
Il teatro ha le sue radici etimologiche nel verbo theaomai, “vedere”. Ma questo teatro ci sta dicendo, e ripetendo, che ci sono cose che non possiamo vedere, che non riusciamo a vedere. Che forse non dobbiamo vedere. Perché ci sono cose che non possiamo sapere, perché la realtà non è interamente conoscibile, perché dietro la fragile superficie del reale è in agguato l’orrore, o forse la redenzione.
Dunque questo teatro non ha più l’ambizione di rappresentare la realtà, o magari di ricrearne un’altra. Non serve a conoscere, perché ci sono cose che non possiamo conoscere, che non possono diventare parola e nemmeno poesia. Che sono il puro dramma dell’esistenza. Cose che forse vanno oltre la realtà fisica, la trascendono – il mistero.
Forse questa considerazione può diventare una domanda. Che cosa resta – o deve restare – fuori scena? Che cosa oggi è “osceno”? Cosa si nasconde dietro quel buio, dietro quella porta chiusa, sotto le crepe di quel pavimento? Cosa abbiamo rimosso?
Per certi aspetti questa edizione del festival è come un film dell’orrore, dove hai più paura delle cose che non vedi che di quelle che vedi. E alla fine, quando il mostro finalmente colpisce e lo schermo si riempie di sangue, è quasi una liberazione.

La settima stanza, curiosamente, riprende l’ultima immagine che ci ha fatto vedere Goebbels: ci sono diversi pianoforti, alcuni sventrati, altri animati da meccanismi automatici, come pianole.

Su uno di questi – o meglio, sulle sue corde metalliche – è infisso un essere umano dall’aspetto androgino, il corpo segnato da graffiti e sporcizia. E’ la vittima di una delle più terribili e inquietanti invenzioni di Franz Kafka: una macchina per torturare, che inscrive atrocemente il dolore sul corpo umano. Quella che si danza qui è un’agonia, uno strazio.
Alla fine, dopo che gli ingranaggi della pianola meccanica hanno suonato il loro assolo, s’illuminano alcuni scaffali pieni di bottiglie vuote, la terra trema e le bottiglie iniziano a vibrare, a tintinnare, come scosse da un fantasma, o dalla nostra presenza.

Le luci si riaccendono su un corpo seminudo, impigliato tra le corde del pianoforte. La musica uccide…

La prima grotta è piuttosto grande, una stanza rettangolare con un soffitto di tufo. Accanto a una delle pareti, quattro microfoni bene illuminati proiettano la loro ombra nitida. La piccola folla di spettatori guarda disciplinata i microfoni e la parete. All’estremo opposto c’è Theo Teardo con la sua chitarra elettrica e un tavolino con il mac, il mixer e qualche altra scatolina con pulsanti e led luminosi. Io guardo lui che suona la chitarra con l’archetto o con il plettro, maneggia la timeline dei suoni preregistrati sul computer, modula il rientro dei suoni catturati in loop dai microfoni, pigia deciso un tasto dall’effetto misterioso.
Verso la fine del mini-concerto, il volume si alza, la grotta vibra e vibriamo anche noi. Quello che gli spettatori non hanno voluto vedere, quello che gli ideatori della performance non volevano far vedere, era l’intervento umano live e il suo intreccio con la tecnica. Mi sono messo anch’io a guardare quello che gli altri hanno guardato per venti minuti: quattro microfoni e la loro ombra sulla parete.

Nella seconda grotta grotta ci accolgono due giapponesi. Siamo una decina, ci sistemiamo tutto intorno a un altoparlante rivolto verso l’alto, come una grossa ciotola.

Sul fondo, una pasta bianca fatta di acqua e amido. Il primo dei due giapponesi ha un baschetto e una giacca a quadri, sta anche lui vicino a un computer che invia un segnale sonoro all’altoparlante. L’impasto inizia a vibrare, la sua superficie s’increspa con onde più piccole o più grandi, a seconda della frequenza e del volume del segnale. L’altro sta vicino all’altoparlante, ha una camicia bianca sembra un cuoco, infila un dito nell’impasto.

Si stacca qualche frammento, bianchissimo, che inizia a prendere forme affascinanti, che ricordano le sculture di Henry Moore, che sobbalzano e si consumano rapidamente, prima di annullarsi sul fondo.

Questa piccola lezione sull’entropia si ripete, quelle forme sembrano vivaci animaletti, forse la vita è nata così ed è destinata ad annullarsi in quella superficie così bianca.

L’ingresso della terza grotta è sulla cima della collina su cui è arroccata Santarcangelo. Si entra uno alla volta, si scende una lunga scala, fino al centro della collina. Una sorta di tempietto circolare, che ricorda la pinata della Chiesa di San Clemente, ma in miniatura e nel ventre della terra.
Al centro, adagiata su un fianco, una grancassa sventrata e riempita d’acqua. Sulla superficie perfettamente liscia cade dall’alto, dal centro della volta dov’è appesa una bottiglia da flebo, un goccia d’acqua, a ritmo regolare. Sul fondo della grancassa c’è un proiettore, l’ombra delle onde casate dalla goccia allarga centri concentrici sulla volta. Ance qui, sulla superficie dell’acqua, c’è un microfono, anche qui, nascosto tra le colonne, c’è un musicista che modula i suoni, da una computer e da una piccola tastiera.
Una nota ripetuta a piccoli intervalli regolari. Ritmi, frequenze, vibrazioni. L’esplosione del suono della campane. E’ come se qui, al centro del mondo, si fabbricasse il tempo. O si provasse a replicarlo. A un certo punto m’accorgo che il ciclo si ripete. L’eterno ritorno.
Risalgo la scala e torno a riveder le stelle. O forse l’orrore del mondo.

s1
CHIARA GUIDI e SCOTT GIBBONS (IT-USA)
Teatro Anatomico Infantile
Piazza delle Monache

s2 e s3
FANNY & ALEXANDER (IT)
+/-
Musas
foto di Laura Arlotti

s4
ORTHOGRAPHE (IT)
Gorgone
Teatrino della Collegiata

s5
DAVIDE SAVORANI (IT)
Erma
Ex prigioni

s6
The Drama of the Media / Conferenza con estratti video
Lavatoio
HEINER GOEBBELS

s7
MASQUE TEATRO (IT)
La macchina di Kafka
Celletta Zampeschi
Foto di Laura Arlotti 

g1
TEHO TEARDO (IT)
Oh Hook
Grotta Teodorani

g2
YOSHIMASA KATO e YUICHI ITO (JP)
White Lives on Speaker
Grotta Pubblica
foto di Yoshimasa Kato

g3
J.G. THIRLWELL (USA)
Ecclesiophobia
Grotta Stacchini

ZAPRUDER FILMMAKERSGROUP (IT)
Slaughterhouse
Teatro Supercinema

Oliviero_Ponte_di_Pino

2009-07-14T00:00:00




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