Dove va la Biennale Teatro?

Il marketing carnevalesco dell'edizione 2009 del festival veneziano

Pubblicato il 31/03/2009 / di / ateatro n. 120

Dove va la Biennale Teatro? Finita l’’era Scaparro, si attende la nomina del nuovo direttore per capire se il festival veneziano tornerà ad aprirsi alla ricerca o scivolerà definitivamente sul terreno di una programmazione senza qualità, paravento di operazioni commerciali più che vero laboratorio internazionale del fare teatro oggi. Difficile definire il mix di provincialismo e pressappochismo che ha caratterizzato quest’ultima edizione. Una rassegna di teatro di parola, che ha finanziato a pioggia le produzioni locali (territorio è diventata anche qui parola d’ordine) e accolto ecumenicamente i teatri stabili (che certo non dovrebbero aver bisogno del sostegno della Biennale per produrre i loro lavori destinati al tradizionale sistema di scambi). Un cartellone di periferia, che ha conosciuto non poche occasioni degne di palcoscenici amatoriali e ha subìto senza scomporsi (o forse banalmente senza rendersene conto) il suo nuovo ruolo di decorazione “colta” per il sempre più becero carnevale lagunare. Una foglia di fico per la fiera della volgarità che ha trasformato le calli in vespasiani e lastricato corti e campi di immondizia (400 metri cubi nel solo fine-settimana precedente il martedì grasso) rendendo il centro storico invivibile ai residenti, senza peraltro garantire neppure i treni per il ritorno dei pendolari, costretti ad attese estenuanti mentre fra Comune e Ferrovie dello Stato andava in scena il penoso spettacolo dello scaricabarile sulla mancanza di treni supplementari.
Fortemente sostenuto dal sindaco Massimo Cacciari, lo spostamento del festival nel periodo carnevalesco non poteva riprodurre il circolo virtuoso che, agli inizi degli anni Ottanta, e proprio con Maurizio Scaparro, rilanciò il carnevale nella città di Goldoni. Allora il teatro fece da volano alla spontaneità di manifestazioni partecipate, allo spirito popolare di un appuntamento che, ormai da tempo, di veneziano ha solo gli aspetti più grossolani: la spremitura dei turisti, la mancanza di rispetto per la città. Oggi il carnevale travolge e strumentalizza ogni tentativo di qualificazione culturale. È una mera operazione commerciale lasciata in mano a un’agenzia creata ad hoc per lo sfruttamento di quel che resta della Serenissima: “Un luogo”, si legge nella presentazione di Venezia Marketing & Eventi S.p.A, gestore della kermesse veneziana dopo l’abdicazione del Comune, “che ogni anno richiama oltre venti milioni di visitatori grazie a un patrimonio artistico ineguagliabile e a manifestazioni di risonanza mondiale. Una città con un valore altissimo in termini di comunicazione e di occasioni commerciali. Opportunità uniche che oggi possono appartenere alla vostra azienda”. Casinò e Azienda di Promozione Turistica controllano il consiglio di amministrazione della società, che oltre al Carnevale – affidato alla direzione di Marco Bialich, quello di Love, il bacio di migliaia di coppie a mezzanotte in Piazza San Marco per il Capodanno, la cui prosa risuona di budget, format e sponsor – organizza la Regata Storica, la Festa della Sensa e quella del Redentore.
Puro intrattenimento capace di attrarre tanto il pendolarismo carnascialesco giovanile (notturno, alcolico, sguaiato) quanto l’esibizionismo a quattro stelle degli stranieri di mezza età con travestimenti che costano un occhio della testa, la manifestazione ha tuttavia bisogno di accontentare anche i palati un po’ meno rozzi. Di qui l’idea, dopo la catastrofica edizione dello scorso anno, di portare Dario Fo in Piazza San Marco, con un Mistero Buffo rivisitato per l’occasione, e di chiedere la collaborazione di Biennale, Fenice e Teatro Stabile nella programmazione degli spettacoli. Benissimo. Ma perché asservire il settore teatro della prestigiosa istituzione veneziana alla logica mercantile di un evento che ne snatura le funzioni? Mancando del resto anche il nuovo target. Non solo perché il calendario sforava ampiamente nella Quaresima, ma anche perché le mascherine che capitavano in teatro non vi trovavano certo l’atmosfera trasgressiva e festante che giustamente si attendevano. Non avevano tutti i torti, per esempio, le signore che il martedì grasso si lamentavano in platea di uno spettacolo – S’ard – giudicato più adatto al mercoledì delle Ceneri.

S’ard.

Forse il prossimo direttore della Biennale rimedierà, ottimizzando i tempi e proponendo solo spettacoli divertenti, accattivanti, magari un po’ piccanti?

Delusioni mediterranee

Scaparro ha anche provato ad alzare il tiro, scegliendo un tema, già ampiamente indagato ma sempre affascinante, come quello del Mediterraneo e mettendolo al centro di una prima fase laboratoriale svoltasi tra ottobre e novembre scorsi (ma dove lo trovate un festival che ogni anno, giusto per sorprendervi, cambia periodo dell’’anno?). Già allora, tuttavia, i pochi appuntamenti spettacolari avevano suscitato sconcerto. Si aspettava il teatro e sono arrivati una lettura di Lella Costa, un’anteprima del film dello stesso Scaparro L’ultimo Pulcinella, la voce (pur sempre emozionante) di Adonis nel Concerto per il Cristo velato. Si aspettava la prova di un maestro ed è arrivata la delusione di Le porte di Fatima, del regista libanese Roger Assaf, Leone d’oro alla carriera: una recita che imbastiva qualche momento drammatico, con lo stesso Assaf in scena insieme a Hanane Hajj Ali e Zeina Saab De Melero, e immagini di guerra e distruzione del Libano sotto le bombe.
Quanto a Un mare di angeli di Raffaele Curi, non ci è dato sapere quali alchimie combinatorie e quali interessi (certo non teatrali) hanno fatto approdare sul palco del Goldoni, in quello che ancora si chiamerebbe “festival internazionale del teatro”, una produzione autopromozionale della Fondazione Alda Fendi. Per venti minuti la bella voce di Myrtò Papatanasiu ha interpretato canzoni d’area mediterranea accompagnata da quattro musicisti e da un “visual design” che proiettava circolarmente su palchi e fondale aerei e angeli in volo.
In questo contesto deprimente, è apparso onesto il lavoro del regista Ferdinando Ceriani, che in Salonicco 43, presentato in prima nazionale, racconta la storia degli ebrei della città greca salvati dal console italiano Guelfo Zamboni. La vicenda, dimenticata per sessant’anni, è stata ricostruita in un volume pubblicato dall’ambasciata italiana ad Atene (a cura di Alessandra Coppola, Jannis Chrisafis e Antonio Ferrari). Il 15 marzo 1943, dopo mesi di soprusi, violenze, umiliazioni pubbliche, lavori forzati, inizia la sistematica deportazione degli ebrei di Salonicco, la multietnica Gerusalemme dei Balcani. Uomini e donne, bambini e anziani. Molti anche di origine italiana. Sono oltre 50 mila. Mezza città. Dal ghetto in cui sono stati rinchiusi, vengono caricati all’alba nei treni merci. Quattro alla settimana, fino a 2500 persone per convoglio. Destinazione Auschwitz. Alla metà di agosto, della più grande comunità sefardita d’Europa, discendente dagli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492, non vi sarà più traccia. Salvo per i pochi strappati alla barbarie nazista da Zamboni, che riconoscendo la cittadinanza italiana o estendendola in via provvisoria a circa 500 persone ne consente l’ingresso nel territorio controllato dal Regio esercito e la fuga verso Atene.
Dopo Tel Aviv e Salonicco, è stata dunque la città del primo ghetto a sentire alzarsi gli antichi canti in ladino dalla voce di Evelina Meghnagi, raffinata interprete di musica ebraica sefardita e yemenita. In scena accanto a lei e ai musicisti Domenico Ascione (chitarra e voce) e Arnaldo Vacca (percussioni), Massimo Wertmüller nei panni di Zamboni e Carla Ferraro in quelli di vari personaggi e in definitiva sineddoche dell’intera comunità, la parte visibile per il tutto scomparso. Ceriani è fin troppo contenuto nella costruzione dell’azione scenica, forse consapevole di quanto sia difficile dare corpo a qualcosa di scomparso senza cadere negli stereotipi della rappresentazione dell’olocausto. Il lavoro drammaturgico rispetta, senza romanzarla, la storia emersa dai materiali autentici. Lettere formali di Zamboni, documenti ufficiali, dichiarazioni, confessioni, fotografie sono stati incrociati con altri documenti provenienti dagli archivi tedeschi e da quelli israeliani, con le notizie sull’occupazione italiana della Grecia, con le testimonianze di quanti hanno conosciuto Zamboni e si sono salvati grazie al suo ostinato intervento, con i racconti di ebrei italiani. Primo fra tutti Shlomo Venezia, che da Salonicco fu deportato ad Auschwitz-Birkenau ed è l’unico sopravvissuto italiano che abbia fatto parte di un Sonderkomando, le squadre speciali di ebrei addetti allo smaltimento e alla cremazione dei corpi dei prigionieri uccisi nelle camere a gas. Immagine eloquente dell’impossibilità e insieme della necessità di reagire, Wertmüller è quasi sempre alla scrivania, scrive, s’indigna, protesta, redige liste di nomi, si vergogna di fronte alla brutalità dei tedeschi, all’ottusa precisione documentaria che è preludio allo sterminio, al calcolo scientifico dei contraccolpi psicologici (la stella di David cucita e non appuntata, la scritta a caratteri gotici perché “più evocativi”). Zamboni era un funzionario e un fascista, ma non accettò di applicare le leggi razziali. Più che a Schindler, la sua figura si avvicina a quella di Giovanni Palatucci, il questore di Fiume che salvò cinquemila ebrei prima di finire a Dachau, o a quella di Giorgio Perlasca che a Budapest si finse ambasciatore spagnolo per farne espatriare altrettanti. Come loro è stato dichiarato “giusto tra le nazioni”. La sua storia è esemplare anche perché non si tratta di un eroe solitario. Zamboni agì sempre in accordo con il Ministero degli Esteri e la sua azione fu proseguita dal suo successore Giuseppe Castruccio. I rimpatri furono possibili grazie anche al capitano Lucillo Merci, ufficiale di collegamento con le forze tedesche e interprete presso il consolato italiano, autore di un dettagliato diario custodito a Gerusalemme nell’archivio di Yad Vashem, il memoriale della Shoah. Italiani brava gente e fascisti non razzisti? No, semmai la dimostrazione che ci si poteva e doveva opporre. E che troppo pochi l’hanno fatto. Nello spettacolo, lettere e dialoghi sono inseriti in un tessuto musicale che fa rivivere la vitalissima cultura di quella comunità ebraica. C’erano 32 sinagoghe a Salonicco, quattordici delle quali costruite da siciliani, calabresi e pugliesi. Sono rimaste solo le foto sbiadite. E questi canti, che nel debutto israeliano gli spettatori accompagnavano sommessamente a mezza voce.

Badanti e vecchi Arlecchini

Tornando al cartellone 2009 – era, tra l’’altro, la 40^ edizione – scorriamo qualche appunto. Le sorelle Brontë è un’opera musicale scritta in lingua franca nel 1964 dall’alessandrino Bernard de Zogheb. Un’opera dalla trama assurda, che vede le tre sorelle scrittrici in viaggio dalle brughiere inglesi a Brussella e di cui il regista Davide Livermore accentua i tratti deliranti facendone un vaudeville demenziale. Nell’ospizio in cui si svolge la vicenda, Anna, la più anziana, è su una sedia a rotelle, reduce da un ictus. Suore e badanti si occupano di lei e interpretano la sua parte cantata. Sono allieve della scuola di recitazione per cantanti del Teatro Stabile di Torino, con varie presenze dall’Est europeo ben sfruttate nel loro ruolo quando, sull’aria di Maledetta primavera, intonano beffarde: “Che fretta c’era/di passare la frontiera/se poi di sera/io pulisco il culo a te”. Quanto a recitazione, lasciamo perdere.
Carlotta ed Emiglia sono invece interpretate rispettivamente dal baritono Alfonso Antoniozzi e dallo stesso Livermore. Come nell’esperanto commerciale del testo si mescolano tutte le lingue del Mediterraneo, così le arie musicali intrecciano Amado mio e il Flauto magico, Rosamunda e Arrivederci Roma. Brani famosi con testi parodiati, in puro stile Quartetto Cetra doppiato da Paolo Poli. Forse voleva essere questo lo spettacolo carnevalesco del festival. Ma ci sono inutili volgarità, banali doppisensi e l’operetta è lunga, sgraziata, noiosa.

Orlando da Virginia Woolf (foto di Giovanni Tomassetti).

Ben risolto invece l’Orlando con la regia di Stefano Pagin, dove Stefania Felicioli e Massimo di Michele danno voce e corpo all’ambiguo personaggio di Virginia Woolf, mentre Michela Martini si trasfigura abilmente nelle regine delle verie epoche attraversate dalla vicenda. Dal Cinquecento all’Ottocento della Woolf e oltre, perché Pagin sceglie di estenderne lo sviluppo fino ai nostri giorni, quando infine Orlando trova la metà di se stessa, compiendo la propria educazione sentimentale.
Interessante anche Il giavellotto dalla punta d’oro che Giorgio Marini ha ricavato da un testo di Roberto Calasso. Le voci degli attori sono frantumate in un gioco di contrappunti, mentre i loro corpi s’intrecciano e si trasformano di continuo, come i tanti racconti mitici intorno all’arma di Procri. Anna Paola Vellaccio (Procri) si districa in un palcoscenico affollato di allievi del laboratorio propedeutico allo spettacolo, tra i quali si erge ogni tanto il corpo lucido di un culturista messo lì a fare il Minotauro. Sempre meglio del Ciclope di Euripide ambientato, nella messinscena di Francesco Siciliano, in una discarica. Gran dimenarsi di braccia e prevalenza del romanesco – ma è meglio Gigi Proietti, dice uno spettatore – in un testo che il padre dell’attore, Enzo Siciliano, si era divertito a tradurre impastando vari dialetti meridionali.
Da due opere di Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio e quel capolavoro che è Passavamo sulla terra leggeri, Marco Parodi ha ricavato uno spettacolo che non rende giustizia all’originalità dello scrittore e consegna ancora un’immagine stereotipata della Sardegna. S’ard. I danzatori delle stelle intreccia le vicende personali del protagonista del primo romanzo con la storia mitica dell’isola narrata nel secondo, in uno spazio scenico, delimitato dalle “pietre sonore” di Pinuccio Sciora, che nelle intenzioni doveva richiamare il sito nuragico di Tiscali. Lo spettacolo risulta affollato, statico, privo di magia e d’invenzione. Tenta di evocare a parole un mondo che non sa agire e trasfigurare oltre una recitazione naturalistica.

Capitan Ulisse di Alberto Savinio.

Bella l’idea di Giuseppe Emiliani di riprendere il Capitano Ulisse di Alberto Savinio, un capitano, appunto, un uomo non un eroe, che diventa contemporaneo e dialoga con l’autore, che vive tutte le esperienze della vita, prima di abbandonarle per liberarsi del desiderio e della necessità, delle donne e della società. Un Ulisse (Antonio Salines) misogino e antidemocratico, che confonde Penelope con Circe e Calipso, solo ostacoli sulla sua strada (Vanessa Gravina, sempre caricaturale, le interpreta tutt’e tre, fedele alle indicazioni dell’autore), e vagheggia una Penelope astratta, irraggiungibile pretesto della sua smania e della sua nostalgia. Ma lo spettacolo trasforma la potenziale tragedia del desiderio in commedia del superuomo decaduto, senza la carica ironica che questa operazione comporterebbe. Virgilio Zernitz convince nei panni dell’autore, ma le scene di Andrea Stanisci prendono sul serio il “teatro dell’avventura colorata” teorizzato da Savinio, mentre la regia di Emiliani insiste sulla presunta “intelligenza pura” di Ulisse. E finisce per crederci.
Sicuramente il laboratorio con i bambini di Jenin sarà stata una buona occasione per i piccoli palestinesi. Ma il quarto d’ora di Nero inferno con la regia di Alessandro Taddei che ne sarebbe il risultato è un saggetto inconsistente. Incredibile che sia stato messo in cartellone, di sera, come uno spetacolo qualsiasi. Viene da pensare che, lasciati soli, i bambini avrebbero saputo fare sicuramente qualcosa di meglio di questa “trilogia quasi dantesca, sicuramente non salvifica”.
Da ricordare invece l’Arlecchino servitore di due padroni del madrileno Teatro de la Abadia, ma più per le proteste della Lega Nord che per la qualità della messinscena. Con la finezza intellettuale che li contraddistingue, alcuni esponenti del Carroccio hanno chiesto nientemeno che il taglio dei fondi alla Biennale per l’affronto alla tradizione dello zanni bergamasco-veneziano da parte del simpatico Argelino arabo interpretato da Javier Gutiérrez.

Argelino.

Evidentemente non sanno che sempre, ovunque c’è fame, c’è anche un disperato che s’ingegna e che proprio perciò questa figura è universale. Non sanno che c’è già stato un Arlecchino immigrato del sud (Marco Sgrosso, e prima Eugenio Allegri) al servizio di un Pantalone nel nordest (in Arlecchino militare di Maurizio Schmidt). Non sanno che c’è già stato l’arlecchino nero del senegalese Mor Awa Niang (in I ventidue infortuni di Mor Arlecchino che nel 1991 vedeva insieme le Albe e il Tam Teatromusica) e, proprio a Venezia, quello algerino nell’Âge d’or di Ariane Mnouchkine e del Théâtre du Soleil. Era il 1975. Un’altra Biennale. Un altro teatro. Un’altra Venezia.

Dalla parte di Antigone

Nell’assoluta indifferenza della critica nazionale, che evidentemente ha voltato la testa da un’altra parte, il festival ha dunque confermato l’empasse nel quale si trova il settore Teatro – tutt’altra la situazione del settore Danza alla guida del quale è stato riconfermato Ismael Ivo – a conclusione di una direzione che in quattro anni è passata dagli ordinati palinsensti goldoniani ai luoghi comuni mediterranei. Per concludere con uno spettacolo in cui il testo non era tutto, segnaliamo l’Antigone del Lemming.

L’Antigone del Lemming.

Da questo punto di vista, e nonostante le lentezze e le smagliature nella tessitura drammaturgica, il lavoro firmato da Massimo Munaro è stato tra le cose più interessanti di questa Biennale. Appena entrati al Teatro Fondamente Nuove, gli spettatori vengono messi nella condizione di dover scegliere: restare seduti in platea a guardare, schierandosi con Creonte dalla parte della Legge, o salire sul palco con Antigone, mettendosi dalla parte della disobbedienza e del sovvertimento. Chi sale è direttamente coinvolto nell’azione, forzando così anche norme e divieti del “teatro di Creonte” che impone la distanza dello sguardo, la scena frontale, le restrizioni previste dalla 626 per la sicurezza. Chi resta subirà i discorsi del re e il disprezzo di suo figlio Emone, conoscerà solo come testimone la prossimità e l’affettività di un teatro che si vuole condiviso anche sul piano sensoriale. Ma sarà altrettanto necessario per polarizzare lo spazio scenico e farne l’immagine del conflitto che attraversa la polis. Conflitto irresolubile – e in questo sta la tragedia – tra due fondamentalismi inconciliabili. Quello di Creonte che deve fare rispettare a tutti, parenti compresi, le leggi della comunità, e quello di Antigone che sente il dovere supremo, del sangue e dell’anima, di dare sepoltura al fratello. Il teatro ridiventa così il luogo in cui aprirsi all’ascolto delle ragioni di entrambi. Dopo una serie di spettacoli che indagavano il mito praticando il coinvolgimento diretto degli spettatori (uno solo alla volta in Edipo, una coppia in Amore e Psiche, nove in Dioniso, un gruppo limitato a 17 per il ciclo Nekyia), Munaro prova questa volta a riattivare la funzione del coro, centrale nella tragedia greca quanto per noi oggi incomprensibile. La promessa interazione col pubblico per dare corpo alla dialettica politica-antipolitica non viene in realtà sviluppata nelle sue potenzialità davvero dirompenti, ma alcune scene sono efficaci. Come quelle dello scontro fratricida a Tebe: una testa oscillante nel vuoto sopra un corpo acefalo, un’anguria spaccata violentemente sul proscenio, sulla cui polpa odorosa Antigone si rotolerà trovando a sua volta la morte. Munaro-Creonte alla fine invita gli spettatori a prendere le proprie cose e a uscire. Non c’è più niente da vedere. Niente applausi per gli attori rimasti aldilà del telo che, chiudendo la scena, ha visto scorrere sguardi e paesaggi nell’ultima parte dello spettacolo. Si va via in silenzio. Lo stesso silenzio interrogativo che rimane una volta calato il sipario sull’intero festival: dove va la Biennale Teatro?

Fernando_Marchiori

2009-03-31T00:00:00




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