Le Buone Pratiche della Resistenza (con spunti di ottimismo)

In risposta a La fine del (nuovo) teatro

Pubblicato il 03/11/2008 / di / ateatro n. 118

Era una notte buia e tempestosa. Mi sembra un buon inizio: intanto perché descrive la situazione, poi perché da quando è uscito il pezzo di Oliviero Ponte di Pino “”La fine del (nuovo) teatro italiano””, ormai tre mesi fa, mi trovo come Snoopy davanti al foglio bianco: i miei pensieri sono frammentari e non so come cominciare. Il punto è che condivido quell’analisi quasi al cento per cento, ma vorrei anche fornire spunti per andare avanti.

E’ una notte buia e tempestosa, quindi.
Da quando ateatro ha avviato questo dibattito, cosa è successo ancora in questo paese? Ha continuato e continua ad accadere di tutto, in uno scivolone che sembra senza fine (diritti rinnegati, privilegi riabilitati, razzismo, intolleranza per le diversità, assenza di solidarietà, ottusità per i problemi ambientali) e ci trascina verso il confine stesso di quel mondo progredito e civile di cui ci credevamo al centro e in cui fra breve saremo clandestini (penso alle classifiche mondiali del divario ricchezza/povertà o di genere, per ricordare solo i picchi più vergognosi). Non è accaduto tutto in pochi mesi – ovvio – ma l’accelerazione sgomenta.
E’ successo e succede che il governo Berlusconi persegue con una violenza e una rapidità che non ci aspettavamo lo smantellamento di tutto quello che favorisce la formazione di un pensiero critico e di una coscienza civile – scuola, ricerca, università, informazione – e l’estromissione della cultura dall’area del servizio pubblico. E’ una scelta controcorrente rispetto alle politiche mondiali, anche e soprattutto a fronte della crisi economica che non la giustifica e anche da un punto di vista conservatore (penso alla politica di Sarkozy per la ricerca), tanto da sembrare stupida se non fosse diabolica (penso a Gelli).

Lo spettacolo è più emblematico di quanto si creda se – nell’attuazione di questa linea – i tagli che vengono riservati al settore rasentano il 35% del FUS e se il famoso “patto” stato-regioni, che evidentemente tanto patto non era, ha potuto essere abrogato da un giorno all’altro con i suoi miserabili 20 milioni.

I numeri del FUS

– nel 2008 è stato di 479 milioni circa (per dare le voci principali e arrotondando, 213 vanno alle fondazioni lirico sinfoniche, 89 al cienema, 74 alla prosa, 63 alla musica, 9 e mezzo alla danza, quasi 7 allo spettacolo viaggiante e il resto per spese di funzionamento e per l’osservatorio;

– la finanziaria del 2007, che aveva avviato il recupero dopo i tagli della precedente legislatura, prevedeva, per il 2009, 567 milioni;

– rispetto all’attuale finanziaria, il Ministro Bondi dichiata che saranno 459 miloni, l’AGIS – interpretando la filosofia del Ministro Tremonti e ricordando gli accantonamenti annunciati, pari al 17%, e come raramente vengano recuperati – ritiene realisticamente che la disponibilità sarà di 380 milioni (“Giornale dello Spettacolo”, n. 17 del 26 settembre).

La riduzione in termini di valore reale dall’istituzione del fondo nel 1985 dovrebbe ormai rasentare il 70%.

All’’interessante incontro promosso dai sindacati al Teatro dal Verme di Milano (di cui ha riferito su ateatro Giovanna Crisafulli), un sindacalista faceva notare che un taglio del 35% non è un taglio e che solo al nostro settore è riservato questo trattamento: insomma, “ce l’hanno con voi”. Se ancora non si fosse capito. A voler essere ottimisti, è quasi motivo d’orgoglio.
Allo stesso incontro Dario Fo invitava a rinnovarsi e a non accettare elemosine. Mi sembra sacrosanto. Dario voleva dire a mio parere un paio di cose significative:
– se è vero che principi e criteri legislativi vanno ridefiniti (anzi definiti), PRIMA di qualunque eventuale concertazione (ristrutturazione, razionalizzazione, magari autentica modernizzazione: che sarebbe possibile), va ripristinato il rispetto per questa area della produzione e del lavoro culturale e il riconoscimento della sua funzione (vedi l’art. 9 della Costituzione): senza dignità non c’è dialogo possibile;
– senza dimenticare però, che non è certo il riconoscimento statale, morale o materiale a legittimare il teatro, ma quello civile, il ché è molto diverso;
– infine, dobbiamo ricordare che nei tempi peggiori della sua lunga storia al teatro non è mai mancata la fantasia, né artistica né imprenditoriale: se ha ancora senso, è molto probabile che anche questa volta sopravviverà. E saprà ancora e sempre graffiare. Senza elemosine.

Come nelle parole di Fo quella sera, come in molti degli interventi che hanno seguito quello di Oliviero, non mancano riflessioni e elementi di analisi con il segno +.
Alle logiche politiche statali, per esempio, sembrano non aderire gli enti locali, anche quelli di centro-destra, che le subiscono e un po’ reagiscono. Non ultima ragione del disappunto è il fatto che si troveranno in mano un FUS svuotato (di soldi e di senso): questa rischia di essere l’amara conquista del federalismo, anche in altri campi. Che, almeno nelle dichiarazioni pubbliche e in qualche atto, gli enti territoriali e locali si sentano a loro volta vittime e siano solidali con il teatro, mi sembra positivo (e chissà che non riducano gli eventi e i circenses per un’attività piu “regolare”).
Anche l’AGIS sembra davvero per una volta arrabbiata: la “vertenza” si prospetta molto più dura che nelle precedenti puntate, la situazione non è più quella in cui tutti (i soci AGIS) si comportavano come chi pensa di avere qualcosa da perdere in uno scontro: hanno forse finalmente capito che hanno già perso tutti, e da un pezzo.
E così i sindacati, che annunciano mobilitazione. E non mancano le iniziative spontanee e associative (come quelle dell’Associazione Teatro italiano di Roma di cui ha dato notizi anche ateatro).

La notizia del giorno è che Berlusconi ha momentaneamente rimandato la “riforma” dell’Università: forse una protesta vera, e radicale e convinta, è possibile e può dare qualche risultato. In fondo perché il Governo dovrebbe accanirsi sullo spettacolo, e in fondo per 180 miseri milioni di Euro?
Mi sono fatta prendere dall’ottimismo della scrittura e del “movimento”: in realtà non sono molto convinta di quello che ho appena scritto (insomma, non credo davvero che la “lotta” dello spettacolo, un’azione visibile e diffusa, possa dare frutti significativi). Penso però che da questo tunnel ci porteranno un po’ fuori due onde: quella determinata e gentile del nuovo movimento degli studenti, e quella lunga di Obama (incrociando le dita!).

Credo invece nell’ “ottimismo dello spettatore”.
Ieri sera, chez Marzullo, una sequenza di appelli un po’ patetici invitava ad andare a teatro, “perché ci si diverte”, “si pensa un po’”, “il teatro è un’arte”, “ha bisogno del pubblico”, eccetera: a enunciarli, una carrellata di ottimi professionisti, ma anche un po’ vecchie cariatidi (sia detto con rispetto e amicizia), poco o per nulla note al pubblico che non sia già teatrale. Una pubblicità “contro”, certo in buona fede.
Mi sembra invece che la gente stia già andando a teatro e per motivi più profondi. Di recente a Milano la “Festa del teatro” ha fatto esauriti ovunque, anche per le proposte più eccentriche, a 3 euro, molti i giovani.
La mia statistica personale più recente mi dice che negli ultimi dieci giorni ho visto cinque spettacoli. Due li definire “impegnati”, uno di ricerca, uno di nuova drammaturgia e uno di buona tradizione. Tutti i teatri erano pieni o quasi, anche qui: molti i giovani. Una “piazza” come Milano esprime un’offerta quanto mai larga e una qualità media molto alta. Ma anche la provincia pullula di proposte, di iniziative, di stimoli: anche dove proprio non te li aspetteresti.
Non si può anestetizzare troppo il pensiero, e mortificare il gusto. Alla fine qualcuno si ribella, cerca altro. Credo e spero che stia già succedendo, che la saturazione televisiva non porti solo verso il web. Credo che il pubblico del teatro possa crescere se e dove troverà contenuti, necessità, senso, e naturalmente qualità.
Ricordate la scoperta di Paolini e del teatro “civile” dopo l’edizione televisiva di Vajont? (eravamo nell’era Berliusconi I) E più di recente gli exploit di Celestini? Credo che le ricadute positive di questi fenomeni siano ancora in atto. Quel filone non si è inaridito, e ha ancora molto da dire sulla scena e nella società: il pubblico si aspetta un teatro che mette in moto pensieri e insinua dubbi, che denuncia e che lo fa con carisma e fascino.
E che dire della satira, se sono possibili maschere geniali come quelle di Albanese e di Sabina Guzzanti, ritratti più efficaci e veri di quest’epoca grottesca di qualunque saggio o ricerca.
Anche i Teatri delle Diversità: non sarà così facile spazzarli via. Sono ormai un fenomeno diffuso, qualificato, differenziato, ancora giovane ma quasi inestirpabile, anche se o proprio in quanto controcorrente, lontano dallo stato, vicino al territorio e alle sue necessità (e anche nel profondo nord, o dove la diversità è reato, queste necessità esistono).

Qualche altro pensiero positivo sul fronte organizzativo (ne ho anche – e molti – di negativi, ma li rimando a un’altra volta!).
Il teatro è fatto di vasi comunicanti (anche se spesso i circuiti si inceppano), e le politiche CONTRO il teatro di questi governo ricadranno direttamente o indirettamente su tutti, come la crisi economica. Ma il “nuovo” teatro, quello giovane, per una volta forse ha qualche punto di vantaggio: di soldi statali non ne ha mai avuti, la miseria aguzza l’ingegno e chi non è mai stato troppo assistito ha forse più capacità di pensare ad altri fronti e di praticare altre strade (fondazioni, privati, gestioni innovative, rapporti con lindustria culturale, proventi connessi, l’Europa, il Pubblico!). Sono convinta inoltre che la qualità espressa negli ultimi tempi da molti giovani gruppi e la capacità di rigenerarsi sia più alta di quanto si colga in superficie (anche se è vero che i giovanissimi sono compressi dalla – ancora giovane – generazione ’90).
Forse per questa volta saranno le istituzioni a soffrire di più della crisi, e le migliori avranno qualche buon motivo in più per ripensarsi. E non dimentichiamo che la nomenklatura è – paradossalmente – un po’ migliorata in questi anni. Mi riferisco in particolare alle direzioni degli stabili: sono molti i direttori che potrebbero oggi contribuire a un reale rinnovamento di questa area, e favorire ricambio e apertura (se solo volessero).

A conclusione del suo pezzo Oliviero si chiedeva se ha senso “resistere” e “che fare”: “…che cosa può dirci oggi il teatro, di nuovo e di necessario? Quale può essere oggi un teatro per il quale val la pena di impegnarsi – mente, corpo e anima? (…) Una prima certezza: se fossimo in guerra, quasi certamente non ci sarebbero le forze (in primo luogo di fantasia e di immaginazione culturali) per un contrattacco. Restano però diverse alternative, oltre alla resa senza condizioni e al silenzio. La prima è quella di pensare a consolidare un fronte più arretrato, con l’obiettivo di compromessi possibilmente dignitosi (del resto, è sempre affare di incontri tra singole persone). La seconda è quella di tentare di salvare e difendere alcune isole felici, “zone temporaneamente liberate”, in una prospettiva di guerriglia culturale” (…) In alternativa possiamo rilanciare la discussione”.
“Resistere” a mio parere è necessario e doveroso, ed è importante credere di non essere perdenti sui tempi medi, e lunghi. Confortare o recuperare o mandare momentaneamente nelle retrovie chi si è logorato (certo anche noi di ateatro), ritrovare le forze, reclutare nuove leve.
I fronti sono numerosi.
C’’è il fronte delle istituzioni culturali (penso agli stabili, ma anche ai teatri comunali, ai circuiti, all’’ETI e a tutta l’area pubblica).
E c’’è quello delle regioni, degli enti pubblici, dei partiti di opposizione.
C’’è un’’area indipendente e consolidata (stabili privati e centri, progetti, compagnie con sede e non, festival), dove si raccolgono forse le risorse migliori del teatro italiano.
Tutti questi centri decisionali e produttivi, tutte le organizzazioni “solide”, che pure sono oggi in difficoltà, hanno crescenti responsabilità verso il “nuovo” teatro. In tutte queste aree non mancano le persone con cui dialogare e che già sono o possono essere sensibilizzate ad assumersele.
Non credo sia possibile e utile scegliere e dichiarare le zone temporaneamente liberate e quelle occupate dal nemico; penso invece che per le molte accerchiate (e resistenti) il sito e il forum possano rappresentare uno strumento di confronto, di dialogo, di verifica.
Poi c’’è il fronte Buone Pratiche: non tutte quelle che abbiamo raccontato si sono affermate o sono diventati modelli da riproporre altrove, ma alcune si sono rivelate molto importanti. Il censimento che abbiamo fatto negli anni ha mostrato che sono numerose, e diffuse, e continue. Gli incontri di ateatro sono stati fondamentali per renderle visibili e consolidarle. E’ questo il fronte più mobile, quello di guerriglia.

Usciamo dalla metafora strategica. Diffondere questi “casi” è stato utile e importante e può ancora esserlo.
Nell’’incontro del 13 dicembre, e forse in qualche momento più ristretto, territoriale o preparatorio, si dovrà discutere con calma dei temi generali lanciati in agosto e approfonditi in questi mesi, ricondurli alla filosofia del “rimbocchiamoci le maniche” sarebbe un po’ riduttivo, ma ugualmente aspettiamo di poter proporre nuovi modelli ed esempi. Forse sarà utile che come per il passato individuiamo alcuni filoni. Saranno le Buone Pratiche della Resistenza, ma anche del pensiero. Saranno un’’iniezione di fiducia.

Mimma_Gallina

2008-11-03T00:00:00




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