Una Guida Monaci del teatro tecnologico?
Steve Dixon. Digital Performance
Digital Performance vuole essere una sorta di Guida Monaci al territorio multiforme del teatro tecnologico oggi espanso anche ai territori del web; Dixon non ama i veloci manualetti plug and play (tra cui annoveriamo linfelice Virtual Theatres della Giannachi) dato che largomento in oggetto comincia ad avere una storia piuttosto lunga e si presta a essere scandagliato sotto vari profili. E forse questo rimane il problema di fondo del libro per cui non riusciamo a essere convinti completamente che trattasi davvero della nuova bibbia del tecnoteatro. Il volume, di quasi ottocento pagine, cerca di mappare tutto il mappabile, cioè di trattare tutte le minime sfumature del rapporto media-teatro, tutte le nuove forme dello spettacolo multimediale (comprendendo persino i cd didattici e i progetti educativi di ricostruzioni in 3D dei teatri dellantichità
), le convergenze con le installazioni interattive e con gli ambienti virtuali, verrebbe da dire tutto lo scibile se non fosse che a questo lungo elenco della vastissima produzione tecnoteatrale sembra mancare un solido impianto teorico che permetta di distinguere effettivamente estetiche teatrali differenti. Che largomento sfugga a ogni tentativo di catalogazione ce ne siamo accorti da tempo: fare ordine nel mare delle proposte videoteatrali non è semplice considerato che oggi pressoché ogni compagnia usa le tecnologie in scena: dal grado zero del video pre-registrato ai sistemi più sofisticati che sollecitano unazione interattiva delattore con uninterfaccia corporale. Del resto teatro e media, per usare una terminologia cara a McLuhan, si sono ibridati, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione dellibridazione che sta dando vita a quello che si può definire, per prendere a prestito un termine dalle biotecnologie, un teatro-chimera. Libridazione ovvero linterpentrazione di un medium nellaltro, in questa generalizzata computerizzazione della cultura secondo Manovich consta non solo nellacquisizione del livello informatico allinterno del teatro ma nel trasferimento concettuale dal mondo informatico alla cultura nel suo complesso. Questo significa che il processo inclusivo dei media nellarte ha riguardato anche il linguaggio, come hanno ampiamente dimostrato De Kerchove, Maldonado e Lévy. Nel teatro questo ha significato il passaggio epocale, come ricorda Dixon allinizio del volume, dallidea delle tecnologie come tools al loro uso in quanto agents, sottintendendo un uso non più strumentale (immediato, direbbe Maldonado) dei media, ma concettuale, metaforico, espressivo, interpretativo addirittura. Agenti di trasformazione, veicoli di significazione, metafore: è stata per prima Brenda Laurel nel volume Computer as Theatre a parlare di agents per definire le interfacce che mettono in comunicazione computer e essere umano, recuperando la nozione di agente, come è noto, proprio dalla Poetica aristotelica (limitazione di unazione è realizzata da persone che agiscono().
Largomento poteva essere trattato dal punto di vista storico, a partire dalle utopie delle avanguardie e relativi temi che anticipano il multimediale, oppure dalle tematiche oggetto degli spettacoli, dalle caratteristiche delle tecnologie usate, oppure usando le categorie di Manovich sulle caratteristiche dei nuovi media (ipermedialità, interattività ecc). Ancora, si poteva scegliere un criterio cronologico oppure puramente enciclopedico (autore-gruppo). Ebbene Dixon usa proprio tutti questi criteri insieme, mescolando un approccio storico con unanalisi descrittivo-analitica. A onor del vero Dixon fa veramente un lavoro monumentale, encomiabile e dettagliatissimo: entra nel merito delle caratteristiche dei sistemi tecnologici, sintetizza alcune delle più autorevoli posizioni teoriche in merito al rapporto tra teatro e digitale e alle questioni del tempo reale innescate dai nuovi media (da Brenda Laurel a John Birringen a Auslander), racconta della vexata quaestio tecnologia vs contenuto o Teatro vs Media e non esita a criticare proprio la tecnodiva Laurel e le categorie del tecnoguru Lev Manovich. Insomma cè dentro tutto o quasi, dalla spiegazione di come funziona il sistema di realtà virtuale immersiva Cave al networked theatre, dagli attori virtuali al Postmoderno in epoca digitale.
Pur premettendo però nellintroduzione che nello scandagliare tutti i fenomeni multimediali teatrali e parateatrali, performativi e paraperformativi ha considerato una griglia di massima che li avrebbe suddivisi in base alla pertinenza intorno a tre macro-temi: corpo-spazio e tempo, con laggiunta di altre tre sezioni: una storica (le avanguardie) e una teorica (il Liveness, il Postmodern), con un appendice sostanziale che riguarda espressamente linterattività, limpressione è che in realtà questa distinzione regga poco di fronte allevidenza di produzioni (e sono la maggioranza) che appunto in genere mettono laccento sullinsieme di tutte queste categorie. In buona sostanza, lappartenenza a una sezione o a unaltra del libro sembra in qualche modo aleatoria, soggettiva, quanto meno opinabile. Talvolta infatti questa distinzione viene fatta sulla base dellevidenza tecnologica delle produzioni, altre volte sulla dominanza tematica, altre volte ancora sulla somiglianza a progetti davanguardia. Per esempio: lo spettacolo Ph dei Dumb Type dove i ballerini danzavano a terra e venivano scannerizzati da unenome laser che li fotocopiava, viene inserito nel capitolo storico quale esempio attuale di attenzione e attrazione per la macchina che rimanderebbe ai vari manifesti del Futurismo. Più in là lo stesso gruppo si ritrova nellambito della sezione Body insieme con Orlan. Mettendo da parte la considerazione piuttosto ovvia che Dixon non prende in considerazione lelemento testuale, anche solo per sottolineare levoluzione della narrazione e della drammaturgia (e questo mette bene in luce come da elemento fondativo e prioritario, oggi il testo sia diventato un dato puramente accessorio per lanalisi dello spettacolo), le categorie proposte confondono un po le idee, ci risultano da un lato delle maglie un pocostrittive, dallaltro lato eccessivamente aperte. Nella sezione Corpo si analizzano progetti che mettono laccento su Avatar, doppi, robot, interfacce corporali; nella sezione Spazio si condensano le produzioni in cui il lavoro maggiormente di rilievo è quello legato alla progettazione scenografica visuale, allambito proprio delle realtà virtuali (ma è il corpo dello spettatore ad avere una esperienza di immersività
), ai progetti che contemplano spazi diversificati, pubblici, telematici, a distanza, mobili, mentre nella sezione TEMPO si inseriscono progetti che lavorano sulla frammentazione o decostruzione temporale, sulla memoria. Linterattività poi apre a un universo infinito e inclassificabile che ovviamente rimette in campo questioni in parte già sondate nelle precedenti categorie: partecipazione, condivisione, immersività, connessione remota, realtà virtuali, videogames, cd rom interattivi e molto altro. Insomma, viene difficile per esempio considerare Alladeen di Marianne Weems del gruppo The builders Association unicamente come esempio di teatro sintetico laddove la tematica, rafforzata dalla particolare tecnologia usata, è quella dello sfruttamento del lavoro a distanza (i call center di Bangalor). Forse una sezione legata alle tematiche, per esempio allattivismo (artivism o activism) o al teatro politico in epoca tecnologica, avrebbe posto questioni vitali tali, per esempio da unire Peter Sellars e il Critical Art Ensemble, il Big Art Group o William Kentridge, al di là e oltre la pura evidenza tecnologica. Ebbene, si tratta proprio di artisti che non vengono neanche accennati nel libro (il CAE raccoglie giusto un pugno di righe nel libro). In effetti Dixon non sembra essere molto consapevole dei volumi scritti da studiosi e ricercatori a lui precedenti che fuori dagli States hanno già delineato con grande precisione una possibile storia delle produzioni e delle estetiche tecnoteatrali. I volumi della Picon-Vallin e di Christopher Balme rimangono per esempio, clamorosamente fuori dal quadro bibliografico e con essi anche la loro precisa metodologia di analisi delle produzioni internazionali.
Insomma limpressione è che nellansia di mettere su un edificio, si tralascino le fondamenta. Dispiace poi non vedere neanche un nome di italiano (manca persino Studio Azzurro!): del resto nella pesca americanofona del volume molti monumenta europei rimangono fuori dalla rete.
Ci piace, dunque, leggere il libro come un coraggioso tentativo di offrire una prima possibile mappatura di un territorio che non sta dentro alcuna cartina geografica, tentativo che soddisferà alcuni e deluderà molti. E senzaltro la natura stessa della performance tecnologica, ad aver determinato questa difficile collocazione dei lavori in uno specifico contesto/genere/categoria: per chi fa e studia questo teatro ri-mediatoo ri-mediatizzato con il digitale spesso il limite tra installazione, concerto e performance è molto labile. Lo sanno molto bene anche coloro che distribuiscono queste produzioni, dal momento che trovano maggiore ospitalità dentro festival di arti elettroniche che non dentro festival teatrali veri e propri. Forse però basterebbe semplicemente evitare di definire il teatro tecnologico un genere a sé e impegnarsi piuttosto a considerarlo come suggeriscono i lavori di Lepage, di Wilson, del Wooster Group – teatro e basta.
Steve Dixon, docente di Performing Arts allUniversità di Brunel, è unautorità nel campo della performance tecnologica. Teorico, studioso dellarte scenica in relazione con i nuovi media digitali ha diffuso le proprie idee in riviste specializzate autorevolissime come The Drama Review, International Journal of Performance Arts and Digital Media, Performance Arts International, Ctheory.net. Aveva concesso unintervista anche ad ateatro a firma di Pericle Salvini. Suo è il progetto del Digital Performance Archive, un data base internazionale on line iniziato nel 1999 (e dal 2001 mai più implementato). Dixon è anche un artista di teatro e con il suo gruppo Chamelions non solo ha cercato di svolgere unattività videoteatrale in scena ma anche di progettare documentazioni digitali sperimentali (incluse in cd nel numero 43 del 1999 di “The Drama Review”).
Anna_Maria_Monteverdi
2007-10-04T00:00:00
Tag: tecnologiaeteatro (6)
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