La cultura globale tra buone intenzioni e contraddizioni

La convenzione UNESCO sulla Protezione e la Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali

Pubblicato il 02/09/2007 / di / ateatro n. 111

E’ entrata in vigore il 18 marzo 2007 la “Convenzione sulla Protezione e la Promozione della Diversità delle Espressioni Culturali”, approvata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO il 20 ottobre 2005, dopo la firma dei primi 30 Stati su 148 che si erano espressi favorevolmente (fra cui l’Italia, che ha ratificato il documento il 31 gennaio). Contrari Stati Uniti e Israele.

“La Convenzione nasce con lo scopo di rafforzare il dialogo tra le culture e il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali per l’individuo. Essa riconosce agli Stati membri la facoltà sovrana di elaborare politiche pubbliche a favore della protezione e della promozione della diversità delle espressioni culturali, nell’ottica di creare le condizioni per consentire alle diverse culture di prosperare e interagire liberamente in un mutuo beneficio”. (www.unesco.it; il sito riporta la convenzione integrale in traduzione italiana)

Il documento è significativo per articolazione e spessore etico-teorico – e anche solo per questo vale la pena di soffermarsi a rifletterci. Allo stesso tempo costituisce il punto di mediazione delicato del confronto a livello mondiale di due visioni contrapposte rispetto alle attività culturali: le concezioni che privilegiano il valore non commerciale delle culture e la necessità di preservare pluralità e differenze; e dall’altro lato l’industria culturale e la sua capacità (e facoltà) di diffondere i prodotti in quanto merci, in coerenza con i principi di liberalizzazione acquisiti a livello mondiale.
La distinzione è tutt’altro che teorica. La Convenzione, apparentemente innocua, si muove su un terreno minato. Non è difficile ipotizzare che la vittoria a grande maggioranza delle logiche patrocinate in particolare dall’Europa (tanto dai singoli Paesi che dall’Unione) e dal Canada, a fianco dei paesi in via di sviluppo, dovrà fare i conti con l’applicazione concreta, con l’interpretazione dei trattati internazionali commerciali e di accordi bilaterali, con le stesse pressioni dell’industria culturale (che si sono naturalmente già verificate).
A questa contraddizione potremmo aggiungerne una più sottile ma forse non minore. La cultura si collega senza dubbio all’identità (degli individui, dei popoli), ma allo stesso tempo aspira/richiede/vive di aperture e confronti. Esiste il rischio che la sacrosanta “protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali” alimenti una visione prevalentemente “folklorica” e sostanzialmente conservatrice e isolazionista delle culture? Soprattutto presso i paesi in via di sviluppo, ma anche nelle periferie – e nelle Padanie – del mondo? br> Il documento introduce raccomandazioni (il principio di equilibrio) e antidoti in proposito (a partire da quello economico, con l’istituzione di un fondo), ma resta legittimo il timore che – come spesso negli atti dell’ONU – non si mettano in atto gli strumenti corretti per raggiungere finalità nobili (o che i fatti finiscano per ribaltare i fini).

Un riassunto ragionato della Convenzione Unesco

Un’articolata premessa indica nella diversità culturale una caratteristica innata e un patrimonio comune dell’umanità, che amplia le possibilità di scelta, costituisce una spinta allo sviluppo, è garanzia della realizzazione dei diritti umani, prospera in un contesto di tolleranza e giustizia sociale e favorisce la pace, lo sviluppo, l’eliminazione della povertà. Esprimendosi attraverso forme diverse nel tempo e nello spazio, le diversità culturali, incluse le diversità linguistiche, sono costitutive della pluralità delle identità, trovano fondamento nei saperi tradizionali (fonte di ricchezza materiale e immateriale) e nei contenuti, come anche nella creatività e nel rinnovamento. Valorizzano inoltre il ruolo delle donne nella società e delle minoranze. Tutto ciò va promosso e protetto dalla minaccia di estinzione e alterazione.
In particolare si ribadisce che “la libertà di pensiero, di espressione e d’informazione, e con queste il pluralismo dei mezzi di comunicazione, consentono il prosperare delle espressioni culturali all’interno della società” ed è la diversità delle espressioni culturali che consente agli individui e ai popoli di esprimere e condividere con gli altri idee e valori. La conferenza Unesco è inoltre “convinta che le attività, i beni e i servizi culturali abbiano una duplice natura, economica e culturale in quanto portatori di identità, di valori e di senso e non debbano pertanto essere trattati come dotati esclusivamente di valore commerciale” e constata “che i processi legati alla globalizzazione, agevolati dalla rapida evoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, se da una parte creano condizioni del tutto nuove per una maggiore interazione fra le culture, dall’altra rappresentano una sfida alla diversità culturale, in particolare per quanto riguarda i rischi di squilibrio fra paesi ricchi e paesi poveri.”
Gli obiettivi che la Convenzione si pone sono l’attuazione concreta delle premesse: proteggere, creare condizioni, promuovere, incoraggiare il dialogo, collegare cultura e sviluppo, rafforzare le cooperazione e la solidarietà internazionale. In particolare, “riaffermare il diritto sovrano degli Stati di conservare, adottare e attuare le politiche e le misure che ritengono opportune per la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali sul loro territorio”. Chi contesta(va) questo diritto? Nella fase iniziale della discussione della Convenzione emerge con forza la posizione USA, secondo cui essendo i beni e le attività culturali merci destinate alla circolazione commerciale internazionale, l’Unesco non avrebbe l’autorità per stabilire regole vincolanti globali al riguardo, che competerebbero a organismi internazionale come l’OCM (Organizzazione Mondiale del Commercio). La convenzione segna un punto importante contro questa visione:

“Analogamente a quanto ottenuto con la convenzioni sulle biodiversità (che consente agli stati di porre delle barriere e dei limiti allo sfruttamento di certe materie prime ambientali), disporre di una Convenzione che protegga le diversità culturali consentirà agli Stati nazionali (e alle istanze sovra-nazionali come l’UE) di porre limiti e regole che altrimenti sarebbero considerati come ‘protezionistiche’”. (Bruno Zambardino La convenzione Unesco: la protezione e promozione della diversità culturale, in “Economia della Cultura”, 1/2006, Il Mulino)

Le linee direttrici attraverso cui la Convenzione intende operare elencano alcuni principi guida: rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sovranità, pari dignità, solidarietà e cooperazione, complementarietà degli aspetti economici e culturali, sviluppo sostenibile, accesso, infine “principio di cultura e equilibrio”: “Quando gli stati adottano misure volte a favorire la diversità delle espressioni culturali, dovrebbero fare in modo di promuovere in modo adeguato, l’apertura ad altre culture” (quel “dovrebbero” significa ovviamente fare i conti con le sovranità nazionali, le condizioni economiche, gli accordi bilaterali eccetera).
Le indicazioni precise e gli auspici si intrecciano nell’elencazione dei diritti e dei doveri delle parti, che riaffermano le finalità, le prerogative degli Stati, individuano e suggeriscono alcuni strumenti operativi destinati a promuovere (nel quadro di uno sviluppo sostenibile) e a proteggere le espressioni culturali, in particolare nei paesi in via di sviluppo, tendono a favorire la partecipazione del pubblico e della società civile. La Convenzione istituisce infine un “fondo internazionale per la diversità culturale” gestito da un comitato intergovernativo, che interverrà secondo le finalità dell’accordo presumibilmente nelle situazioni più a rischio (approvata nel marzo 2007, l’applicazione della Convenzione è proiettata nel futuro e non è ancora possibile dare conto delle linee e dell’efficacia di questo fondo).
Merita particolare attenzione l’articolo 20:

“1. Le parti si impegnano ad adempiere in buona fede agli obblighi sanciti dalla presente convenzione e da tutti gli altri trattati cui partecipano. Così, senza subordinare la presente convenzione agli altri trattati, le parti: a) incoraggiano il sostegno reciproco tra la presente convenzione e gli altri trattati cui partecipano; b) quando interpretano e applicano gli altri trattati cui partecipano o quando sottoscrivono altri impegni internazionali tengono conto delle pertinenti disposizioni della presente convenzione.
2. Nulla nella presente convenzione può essere interpretato come modifica dei diritti e dei doveri delle parti nel quadro dei trattati cui partecipano.”

I numerosi commenti al dibattito triennale sulla convenzione riferiscono delle iniziali resistenze, poi della sostanziale adesione alla convenzione da parte di paesi leader – attuali o potenziali – nella produzione e diffusione di prodotto audiovisivi (quindi interessati alla relativa liberalizzazione) come il Giappone, l’’India e la Cina.
E all’India si deve il comma 2 dell’articolo sopra riportato. Dall’avvio della discussione (fine 2003) alla firma dei primi trenta paesi e all’entrata in vigore della convenzione (marzo 2007), sono stati siglati innumerevoli accordi bilaterali, con gli USA in particolare, che vincolano molti paesi, prevalentemente in via di sviluppo, ad affidare all’esterno servizi audiovisivi e informazione.
La strada per la tutela della diversità e per l’emancipazione dell’informazione e della produzione di contenuti audiovisivi sembra ancora molto impervia. Se questa convenzione poi costituirà uno strumento di dialogo fra le culture, di valorizzazione e allo stesso tempo di innovazione delle aree regionali più isolate, e tutto questo malgrado l’industria culturale… è un aspetto da tenere sotto osservazione.

Mimma_Gallina

2007-09-02T00:00:00




Scrivi un commento