Per un’economia politica del corpo

La Biennale Danza 2007: Ismael Ivo chiude il triennio con l'edizione dedicata a Body & Eros

Pubblicato il 20/08/2007 / di / ateatro n. 111

Forse non è stata la chiusura in bellezza che ci si aspettava da Ismael Ivo per questa quinta edizione della Biennale Danza, la terza sotto la sua direzione: tra le molte prime mondiali si sono visti anche spettacoli mediocri e scontate provocazioni, mentre la scena mediatica veniva occupata dalle polemiche intorno al presunto vilipendio alla religione in uno spettacolo che non meritava tanta attenzione. E tuttavia il coreografo e danzatore brasiliano lascerà il segno nella storia del giovane festival veneziano per la qualità complessiva della sua direzione, per la volontà di pensare e praticare la relazione tra la danza e le altre arti, la riflessione filosofica e scientifica, la politica. Dopo la svolta normalizzatrice nel settore Teatro, che dalle esplorazioni warburghiane di Romeo Castellucci è passato agli ordinati palinsesti goldoniani di Maurizio Scaparro, è stata la Biennale Danza ad aprirsi ai territori più avanzati – e a volte scivolosi – della ricerca. Queste edizioni saranno ricordate anche per la grande umanità dimostrata da Ivo nelle numerose occasioni pubbliche. Non si è mai sottratto al confronto, neppure di fronte agli attacchi pregiudiziali, talvolta volgari, contro le scelte conclusive della sua Biennale dedicata al corpo, ovvero il rapporto tra eros e danza. Se nel 2005 il tema era ciò che muove e trasforma il corpo dall’esterno (Body Attack) e nel 2006 ciò che muove e si muove dall’interno (Under Skin), quest’anno veniva indagata l’origine stessa del movimento, la sua natura pulsante, la sua scaturigine più profonda e irriducibile. Body & Eros, dunque, il corpo nella tensione amorosa, il desiderio che si fa corpo, l’energia sessuale che muove il gesto e crea il movimento, la danza organica di un pensare differente, incarnato e vivo. Perché il mio corpo non ha le mie stesse idee, come scriveva Roland Barthes, ma anche perché mai come oggi il corpo è luogo di sperimentazioni e di resistenza. Percorrere l’idea di Eros come un codice antico del rapporto con il corpo significava dunque riattivarne il linguaggio segreto nell’esplorazione dell’attuale condizione dei nostri corpi, di ciò che stanno diventando, e perfino del nostro corpo sociale. Ecco dunque le declinazioni erotiche del paradigma proposto da Ivo per il suo triennio: il corpo come spazio in cui si riflettono contraddizioni, bisogni, interrogativi del nostro tempo. E la danza, “disciplina dei tropismi amorosi” (Maria Nadotti), come mezzo per tracciare le lettere di un nuovo vocabolario corporeo.

Mercato del corpo

Ismael Ivo.

Accanto a The Erotic Body, un “polittico” di cinque ore no-stop di Marina Abramovic e 13 artisti del suo Independent Performance Group – una serie di azioni sovvertitrici di luoghi comuni su affettività, innamoramento e dintorni, attraverso l’esibizione di oggetti feticci e strumenti autoerotici o lavorando per segmentazioni e ingrandimenti di porzioni corporee – la scelta più forte e intelligentemente provocatoria, perché chiamava in causa lo spettatore e lo costringeva a farsi attore dell’evento, è stata il Mercato del corpo: vendita all’asta di danzatori e danze. Una vera e propria asta battuta da Rosanna Cancellieri nel salone nobile del Palazzo Contarini della Porta di Ferro. In catalogo sette diverse danze interpretate da altrettanti danzatori. Lo spettatore che avesse fatto l’offerta migliore si sarebbe assicurato il pezzo prescelto, eseguito poi esclusivamente per lui o per lei in una camera d’albergo. Già il “corpo frutta” di una seducente fanciulla offerto in banchetto agli spettatori in attesa dell’asta avviava il meccanismo ideato da Ivo: un gioco coreografico e insieme una sfida psicologica per danzatori e compratori, entrambi attori e protagonisti. Poi le fiaccole hanno accompagnato il pubblico nel salone, dove il disinvolto mezzobusto televisivo, con tono da imbonitore, ha proposto “l’incanto dei corpi messi all’incanto”. In pochi minuti, quasi un breviario multietnico della sensualità danzata, sette artisti hanno mostrato la loro “merce”: la danza del ventre di Abeer Will, la sinuosa geisha di Yui Kawaguchi, la danza africana della seduzione (geerewol) di Twana Rhodes, il flamenco di Miguelete, la go-go dance di un angelico Sebastian Corsten e il bolero dello stesso Ivo. Solo la dominatrix Michela Lucenti ha scelto tra il pubblico il destinatario della propria performance. Gli altri hanno atteso le offerte. Grande successo per Corsten e per la Rhodes, oltre che per lo scultoreo Ivo, naturalmente, la cui raffinata danza di muscoli underskin è stata subito “venduta”. Lasciamo al gossip locale le illazioni su quanto accaduto nell’intimità delle camere. Quel che ci sembra rilevante è che in questo caso è stato praticato alla lettera, e con ciò stesso rivelato e cambiato di segno, l’accurato esercizio di controllo che il mercato impone al fenomeno artistico: produzione, esposizione, compravendita, gestione. Il legame che si crea tra spettatore e danzatore ha percorso il discrimine sottile tra venditore e acquirente, tra espositore e voyeur. Si è trattato dunque di una riflessione sulla mercificazione come codice dei rapporti umani, in cui le parti possono confondersi e invertirsi. “Proprio i media – spiega Ivo nel catalogo del Festival – hanno sviluppato la comunicazione nella forma del voyeurismo. A cominciare dall’intrattenimento chiamato reality show, come il Grande Fratello, che spinge a spiare l’intimità che proprio i protagonisti svelano agli spettatori. D’altro canto alcune tradizioni vecchie di secoli pongono il corpo del performer nella sfera dell’arte come mercanzia.”

Censura del Corpo

Se già l’asta si prestava a sospetti e critiche, il Messiah Game di Felix Ruckert si è attirato quasi una crociata. Preceduto da polemiche veementi – quotidiani interventi del Patriarca di Venezia, interrogazioni parlamentari, appelli alla magistratura, richieste di censura preventiva e addirittura di scomunica ufficiale per artisti, organizzatori e spettatori – lo spettacolo è andato in scena al Teatro alle Tese dell’Arsenale senza incidenti né entusiasmi. In entrambe le serate, la risposta del pubblico è stata forte e composta: dentro, una platea gremita e attenta (con il sindaco Cacciari e i vertici della Biennale in prima fila al debutto); fuori, gruppetti di integralisti cattolici in preghiera, qualche leghista e qualche fascistello vanamente (tutti spazzati via, la prima sera, da un violento acquazzone). Prevedibilmente, non si trattava di “uno spettacolino”, come aveva dichiarato il Patriarca senza averlo visto, ma neanche di un’opera memorabile. Interessante il lavoro di dilatazione e disgregazione dell’iconografia evangelica, ma il risultato è apparso troppo lungo, a tratti noioso e pretenzioso. Quanto allo scandalo, alla pornografia, all’offesa alla religione, si è visto davvero “un sadomaso da educande”, come ha dichiarato Cacciari all’uscita. Gli undici danzatori sulla scena nuda ritrovano e reinterpretano nel proprio corpo le forme della tradizione artistica ispirata a episodi neotestamentari: il battesimo, la tentazione, l’ultima cena, la crocifissione, la resurrezione. La complessa trama gestuale così disegnata è frutto di un lavoro di astrazione, che decontestualizza e risemantizza figure e azioni seguendo l’ipotesi di una ambiguità nella rappresentazione cristologica, che spesso esprimerebbe emozioni contrastanti, sintetizzando nell’immagine del Messia sofferente la dialettica Padrone-Servo. A momenti di performatività impulsiva e fortemente strutturata, dove emerge la perizia tecnica del Ruckert allievo di Pina Bausch, si alternano lunghe scene statiche e prive di pathos, altre di imbarazzante ingenuità (la flagellazione “vera” di un ballerino che poi si dimena a terra), altre ancora di banale equivalenza (l’Ultima cena trasformata in un’orgia stilizzata e pudica). Le scene a due, a tre, gli assolo come gli interventi di massa moltiplicano scambi, incroci, improvvisazioni dei danzatori su un canovaccio fatto di poche regole relazionali e di costellazioni di giochi di ruolo, tra i quali i performer scelgono in base a uno sguardo o a un dispiegarsi random di rapporti di forza e di devozione. Ed è qui che lo spettacolo mostra i suoi limiti. Debole è proprio l’interazione fisico-emozionale che dovrebbe governare lo sviluppo dei pezzi intorno al motivo della dominanza e della sottomissione. A connettere l’immaginario gudaico-cristiano e le pratiche sadomasochistiche, come si propone Ruckert, forse non basta un hegelismo coreografico.

Estensione del corpo

Laboratory Dance Project.

Nutrita anche quest’anno la presenza di artisti asiatici, per esempio con il coreano Laboratory Dance Project in Position of body e Boulevard. Nel primo lavoro, l’oppressione femminile nel costume sociale tradizionale coreano viene indagata a partire da gesti eloquenti di esclusione e sottomissione: le danzatrici non possono scegliere (non entrano e non escono mai di scena); una di loro si afferra la gonna, abbassa la testa e nasconde il viso. Peccato che la coreografia di Sung Hoon Kim approdi a una grossolana figurazione dello scontro tra i sessi, su un Bolero di Ravel profilato a luci rosse. Il secondo lavoro è invece tutto maschile, atletico, scattante. Un hip hop con sonorità etniche per inscenare la fisicità di una band giovanile, scrutata da una coreografa, Mi Na Yoo, attenta a imbastire serialità verticali e rotolamenti a terra. Sinuosi e allegri, i ragazzi girano con le mani in tasca, si affrontano, giocano a pallone, lasciando intravedere qualche bella soluzione di squadra.

Kaiji Morijama.

Interessante poi lo spaccato della scena giapponese: da Kaiji Moriyama, con una Velvet Suite su musica originale eseguita dal vivo dal violinista Koichiro Muroya, al gruppo tutto al femminile Batik, che ha presentato uno spettacolo di denuncia della condizione femminile nel paese del Sol Levante – un tema ugualmente centrale nelle pur così differenti società asiatiche.

Batik.

In Shoku (che significa “toccare”) le sette ragazze vestite di rosso saltano urlando con le mani tra le gambe, come in un rito tribale. Poi una si alza il vestito e fruga tra le mutande di pizzo. Con ironia e disperazione insieme, danzano scostumate e rabbiose, scalciano, fanno il verso alle dive rock, a quelle del cinema, alla moda brasiliana. E’ un attacco violento contro gli immaginari d’importazione falsamente liberatori. E’ il principio femminile che rompe il fragile confine tra il “dentro” e il “fuori”. Come Batik, anche Fuyuki Yamakawa viene da quella fucina di talenti che è l’underground di Tokio. Dopo l’incursione dello scorso anno con il suo battito cardiaco amplificato, è tornato a Venezia accompagnato da una “hardcore punk band” in un happening sinestetico intitolato Spontaneous core. Mentre spara la sua musica tagliente, fatta di vibrazioni, ronzii, distorsioni di una chitarra suonata senza mai toccare le corde, alle sue spalle si esibisce una nota spogliarellista, Mash, che posa eloquente, prova abiti robotici, indossa un finto pene. Sullo sfondo scorrono crude immagini di operazioni chirurgiche e tutto lo spazio scenico, vibrante del pulsare cardiaco di Yamakawa, sembra trasformarsi in una estensione del corpo del performer. Accettare, come spettatori, questa invasione di campo vuol dire lasciarsi assorbire in un corpo esteso, dilatato, in un sistema circolatorio di sensazioni e di immagini mentali che ci trascendono. Può essere un’esperienza liberatoria. O insostenibile.

Nei dettagli nascosto, il segreto del tango

Non poteva mancare il tango, con due spettacoli dell’argentino Rodrigo Pardo. In Ognat (una specie di tango speculare, proprio come nel titolo), ai primi due brevi, strepitosi pezzi classici segue una serie di sguardi sul tango come “seduzione costruita”, precipitato formale di sensualità. Un ballerino impegnato in una danza a terra viene ripreso e proiettato sul fondale in presa diretta. Così almeno sembra all’inizio, tanto precisa è la simultaneità dei movimenti. Poi scarti e slittamenti, dissociazioni e dislocazioni delle immagini fanno apprezzare il lavoro di duplicazione dal vivo di una registrazione, lo sforzo di sovrapposizione che lo spettatore non riesce più a stabilire. In un altro pezzo classico, la musica si dilata improvvisamente portando nello stiramento del ralenti anche i movimenti dei danzatori. Un tango alla moviola, con posizioni e volute, di solito sfuggenti, per una volta percepibili in una presenza plastica che seziona ed esalta ogni parte del corpo, perché “anche il piede viene erotizzato nel tango”, come scrive Remi Hess nel catalogo. Sospesa la velocità del sincrono, gli spettatori possono scoprire i fondamenti del movimento, mentre sul fondo si proiettano le immagini di un amplesso. Altro pezzo: due danzatori rotolano in scena, danzano senza musica, scalzi, poi entra anche una donna in rosso, si spingono, si sostengono, si scambiano i ruoli in viluppi e figure che non sono più “tango” ma ne portano ancora i segni nascosti nei dettagli, là dove le forme sempre si conservano più a lungo e si rivelano a chi sa guardare. Pardo elabora il tango, lo disarticola e destruttura per ricomporlo o per scioglierlo in una danza che ne conserva in filigrana la struttura sincopata, la continua interruzione di direzione, la rottura, la sfida. Finalmente oltre i cliché, un tango che non si accontenta di sedurre lo spettatore, di rapirne lo sguardo, ma che guarda alla contemporaneità e se ne lascia trasformare. Una conferma è anche il Tango toilet danzato da Cristina Cortés e dallo stesso Rodrigo Pardo in un noto showroom veneziano, all’interno di un bagno di circa tre metri quadri. In questo spazio ridottissimo la coppia volteggia con ironia e millimetrica precisione, proponendo i passi tradizionali sul bordo della vasca, davanti allo specchio, sopra il lavabo, sul water, perfino alzando i tacchi sulle pareti e sulla vetrina oltre la quale il pubblico assiste divertito, seduto sugli scalini di un ponte, con la musica che esce dalle finestre dell’appartamento al primo piano. Interessante anche il gioco di riflessi voyeuristici tra pubblico e danzatori che alla fine salutano bucando la (trasparente ma reale) quarta parete, i volti degli spettatori (e le loro reazioni) che si specchiano sulla vetrina, gli sguardi interrogativi e curiosi dei passanti.

L’arte della seduzione

Lo spettacolo vincitore del Leone d’oro, The Art of Seduction del gruppo austriaco Liquid loft diretto da Chris Haring, è un altro esempio – giustamente il migliore tra quelli visti a Venezia – di lavoro sull’immaginario collettivo dell’erotismo. Con il musicista Andreas Berger e l’artista visuale Aldo Giannotti, Haring ha costruito dodici scene disponendole (alcune in successione, altre in contemporanea) in uno spazio circolare con gli spettatori seduti a terra, giocoforza sceneggiatori di sequenze differenti a seconda della loro prospettiva. Le tre danzatrici e i due danzatori (Stephanie Cumming, Katherina Meves, Alexander Gottfarb, Anna Maria Novak e Luke Baio) si producono in pose plastiche e in posture studiate nella loro struttura comunicativa, rivelandone la natura artificiosa, la trama convenzionale. Sotto coni di luci a stelo o contro il muro delle Tese alle Vergini – nome quanto mai suggestivo per uno spazio teatrale offerto al corpo e all’eros – verificano la tenuta di espressioni stereotipiche attraverso la ripetizione e la progressiva millimetrica modifica di frasi gestuali e vocali. Prende forma così uno studio, condotto sempre con precisione e ironia, sulla percezione e sul condizionamento. Anche la più inquietante deformazione è funzionale a una divertita analisi del gusto contemporaneo dell’esposizione del corpo. La vamp diventa grottesca, il macho ridicolo. Una risata può deformarsi fino alle contorsioni. Un danzatore-sedia con una coperta di pelo bianco accoglie una danzatrice tra mugugni di piacere e abbracci sempre più espliciti che innescano un divenire-animale danzato a otto arti. Da identiche coperte escono i mezzi busti di ragazze urlanti al microfono, il seno candido, i capelli sciolti, sirene ondeggianti nel mare di antiche formule di richiamo e adescamento. Si susseguono con leggerezza ammiccamenti, sorrisi, vocalizzi, rapidi svestimenti-rivestimenti, combinazioni di indumenti colorati, mentre il materiale sonoro e le stesse voci dei danzatori vengono dilatati e alterati in tempo reale. Prende vita un melodramma di sospiri e piagnistei distorti, dove le moine, i tremolii, gli spasmi diventano ritmo che disarticola le tecniche di seduzione, fino al giocoso e colorato danzare a terra dentro magliette tirate fino alle ginocchia, ruotate da una spalla all’altra, il gomito che esce al posto della testa, il piede che slarga, le braccia che girano e spingono dall’interno. Corpi desideranti e forse ancora prigionieri di ruoli e forme da svelare.

Fernando_Marchiori

2007-08-20T00:00:00




Tag: BiennaleDanza (6), corpo (21), Marina Abramović (7)


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