Il rivoluzionario mite del teatro italiano da Roland Barthes alla Raffaello Sanzio

Giuseppe Bartolucci, Testi critici 1964-1987 a cura di Valentina Valentini e Giancarlo Mancini, Bulzoni, Roma, 2007

Pubblicato il 20/08/2007 / di / ateatro n. 111

Rivoluzionario dall’’aria mite, Giuseppe Bartolucci è stato uno dei protagonisti della scena italiana dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, prima che la malattia e la morte gli impedissero di continuare il suo lavoro. Critico militante, Beppe ha sostenuto con preveggenza alcune delle realtà più interessanti del nuovo teatro, dopo averne offerto una possibile base teorica. Aveva la straordinaria capacità di cogliere subito, fin dalle prime acerbe e sgangherate prove di una giovane compagnia, il talento e la determinazione. Quando individuava in un gruppo il germe di una visione poetica e scenica, se ne faceva immediatamente pugnace paladino, impegnandosi tanto sul versante critico quanto su quello organizzativo-promozionale, attraverso riviste e convegni (a cominciare da quello di Ivrea nel ’67, quando firmò con Quadri, Capriolo e Fadini gli “Elementi di discussione per un convegno sul nuovo teatro”); e poi rassegne e festival (tra le altre Nuove Tendenze a Salerno, Opera Prima a Narni, Paesaggio Metropolitano a Roma). E magari lanciando con un occhio al marketing culturale una parola d’ordine d’effetto come “post-avanguardia” e “nuova spettacolarità”, “scrittura scenica” o “ritorno all’opera”, in grado di rendere visibile questa o quella nuova onda.
Valentina Valentini e Giancarlo Mancini hanno raccolto una serie in testi che abbracciano un ampio arco della produzione saggistica di Bartolucci, con il titolo Testi critici 1964-1987 (Bulzoni, Roma, 2007): in queste pagine il suo sguardo analitico incontra, tra gli altri, l’Orlando ronconiano e il primo Carmelo Bene, il Living e Wilson, Leo & Perla, Perlini, Scabia, e infine il Carrozzone e la Raffaello Sanzio degli esordi. Ma sono interessanti soprattutto i testi attraverso i quali imposta l’approccio al nuovo, attraverso un serrato confronto con la tradizione del teatro europeo e italiano.
Al centro della sua impostazione teorica, quella che gli permise di cogliere la novità e l’importanza delle esperienze del nuovo teatro, è il concetto – peraltro discusso – di “scrittura scenica”, messo a punto già negli anni Sessanta (“Mi pare di aver posto io il sigillo sulla scrittura scenica, dopo tante obiezioni di fondo da parte di Ferruccio Rossi Landi, e nonostante le infinite ripulse di grandissima parte del teatro italiano”, p. 325) e destinato a entrare nella testata della sua rivista, “La scrittura scenica-Teatroltre”, ventotto numeri (alcuni doppi) tra il 1971 e il 1983.
Questo grimaldello teorico scenica gli permise di superare una visione del teatro centrata sul testo e/o sulla regia (e sull’attore). Nell’impostazione di Bartolucci, almeno agli inizi, la scrittura scenica si poneva in un rapporto di interazione dialettica con la “scrittura drammaturgica”, e dunque si contrapponeva, oltre che alla concezione tradizionale del teatro, anche all’idea che del teatro potevano avere avanguardie sedicenti destabilizzanti e “sovversive” come il Gruppo 63, ancora legate a una dimensione sostanzialmente letteraria dell’evento teatrale.
Per Bartolucci gli elementi della “scrittura scenica” erano “tanto le parole quanto l’immagine, tanto il testo corporeo quanto il movimento, tanto gli oggetti quanto l’ambientazione; e i materiali erano drammaturgicamente sia in stato di frammentazione che di deformazione, sia di provenienza pittorica sia cinematografica, oltre che musicale e architettonica. L’insieme non procurava una contaminazione di generi, né era una forma di interdiscipliarietà; esso costituiva una modalità tutta italiana e originale rispetto alla tradizione italiana, di rivoluzione rispetto al passato del teatro italiano” (p. 325).
E’ interessante seguire la genesi della formulazione di questo concetto chiave da parte di Bartolucci. Fermi restando i padri fondatori Antoine e Stanislasvkij, condensa un’analisi della storia della drammaturgia italiana nella triade Praga-Marinetti-Pirandello (e s’intravede in filigrana la riflessione sulle didascalia drammaturgica, oggetto di un suo studio).
A permettere lo scarto teorico è però Brecht, che “ha presentito la varietà e la relatività dei sistemi semantici” (p. 51) e “ha deciso che le forme drammatiche avevano una responsabilità politica, (…) che la materialità dello spettacolo non è regolata soltanto da un’estetica o da una psicologia dell’emozione, ma anche e soprattutto da una tecnica della significazione” (p. 52), permettendo dunque di disarticolare e destrutturare il naturalismo e ogni sua pretesa di “naturalezza”. A innescare la riflessione è la lettura di Brecht operata da Roland Barthes (con le sponde di Planchon e Dort). Secondo Barthes, che Bartolucci cita e commenta in dettaglio:

Il postulato di tutta la drammaturgia brechtiana è che, almeno oggi, l’arte drammatica più che esprimere il reale deve significarlo. E’ perciò necessario che ci sia una certa distanza tra il significato e il suo significante: l’arte rivoluzionaria deve ammettere una certa arbitrarietà dei segni, deve dare la sua parte a un certo “formalismo”, nel senso che deve trattare la forma secondo un metodo appropriato, che è il metodo semiologico. (cit., pp. 50-51)

Si può notare di sfuggita la preferenza di Bartolucci per il primo Brecht, quello espressionista, e poi per quello dei drammi didattici, rispetto alle scelte che andavano allora per la maggiore e privilegiavano i testi più maturi e ideologicamente più risolti (o meno problematici).
Ma non è questo il punto. L’importante è che questa piccola rivoluzione copernicana, ovvero la consapevolezza che lo spettacolo teatrale fosse un sistema di segni, ha avuto un effetto dirompente, rispetto a una concezione del teatro come “traduzione” o sottoprodotto di un testo letterario.
Questa “svolta semiotica” ha accompagnato infatti la gestazione di una nuova idea di teatro, e in parallelo di una nuova critica (o meglio di un nuovo lettore, p. 320) in grado di valutare la complessità dell’intreccio di segni presenti nell’evento spettacolare (che poi un evento estetico non possa ridursi a produzione di segni ma metta in gioco altre variabili e zone psicofisiche diverse da una decodificazione semantico-culturale, questo è un altro discorso).
L’accenno al formalismo nella citazione di Barthes rimanda ovviamente alle avanguardie storiche del Novecento, che il realismo socialista aveva condannato proprio con questa accusa. E’ il secondo punto fermo della strumentazione con cui Bartolucci imposta la sua griglia critica: la continuità della giovane e fragile avanguardia italiana con le grandi esperienze del futurismo e della Bauhaus, come fonte di ispirazione e di legittimazione. E questo quando il nuovo teatro era ancora in embrione, poco più di una potenzialità o di una speranza.
Un altro aspetto che val la pena di sottolineare, e che oggi può apparire sorprendente. sono i costanti richiami di Bartolucci all’etica. Di fronte a una degenerazione del sistema teatrale già allora avvertibile (o almeno prevedibile) anche nel teatro pubblico, il rilancio di una moralità del teatro appariva l’elemento qualificante di qualunque tentativo di rinnovamento delle nostre scene (e siamo ancora negli anni Sessanta, quando la lottizzazione era solo agli albori…).
Anche se, alla fine degli anni Ottanta, il bilancio non è del positivo: se “la scrittura scenica uscì da Ivrea formalmente e tecnicamente in pieno trionfo, sbancando e terrorizzando il vecchio teatro italiano (…) la sua grande prova di forza fu la sua stessa débacle”. Perché nel corso degli anni Settanta, considerato il percorso dei vari Perlini, Vasilicò, Nanni, Marini,

questi gruppi si sono visti tradire dai propri stessi spettacoli per riduttività interna; la loro capacità di andare a fondo sulla propria espressività infatti è diminuita o si è celata via via per calcoli approssimativi, per calo di genialità, per mancanza di cinismo, per povertà di opposizione (…); d’altro lato le istituzioni, i critici, gli organizzatori, i politici, i produttori, assai vigili dell’andamento produttivo e artistico del teatro e dintorni, avevano nel frattempo preso respiro, nel considerarsi salvati dal Sessantotto e a riabilitare quel tanto di tradizione che non dico l’arte ma almeno il sistema gli concedeva di nuovo e regalava a mani aperte. (p. 325)

Questo alla metà dei dorati anni Ottanta, quando alla prima onda del nuovo teatro ne era già subentrata un’altra dotata come si vedrà di maggiore respiro: Carrozzone, Gaia Scienza, Falso Movimento, Santagata e Morganti, i nuovissimi – allora – Raffaello e Valdoca. Per riequilibrare i piatti della bilancia Bartolucci lanciava allora la sua ultima parola d’ordine, chiedendo di privilegiare l’opera “come mobilità e come nobilità della scrittura scenica” rispetto alla performatività e alla progettualità aperta che avevano contrassegnato le fasi precedenti.
Da allora di opere – buoni e ottimi spettacoli, che hanno avuto gran successo di critica e pubblico anche all’estero – il nuovo teatro italiano ne ha prodotte più d’una, anche se quella débacle e quella successiva, alla metà degli anni Ottanta, ancora continuano a pesare.
Anche per questo si sente con forza la mancanza di una figura atipica come quella di Beppe, anche negli slanci visionari e nelle fughe in avanti, in quello sguardo che era fatto prima di tutto di sensibilità al nuovo, di apertura alla forza vitale, di curiosità per l’aspetto perturbante delle esperienze estetiche. Ma era anche, proprio nel suo utopismo realistico, attento agli equilibri politici della scena e alle loro conseguenze etiche ed economiche.

Per concludere, un piccolo aneddoto che dà conto dell’apertura mentale e della curiosità di Bartolucci. Per presentare un numero monografico di “teatroltre” dedicato alla giovane critica (e forse nel 1982 ero giovane anch’io, anche se forse un vero critico non lo sono mai stato), con Paolo Landi organizzò una presentazione a Firenze, all’Affratellamento. A condurre la serata arrivò un bizzarro personaggio con un buffo cappellino sormontato da una piccola elica, che straparlava con forte accento romagnolo di piadine e pedalò. Nessuno di noi “giovani critici” aveva la più pallida idea di chi fosse. Qualche tempo dopo lo rivedemmo in tv, accanto a Renzo Arbore, in una trasmissione destinata a fare epoca, Quelli della notte. Quel tipo buffo che non conoscevamo – ma Beppe sì – era Maurizio Ferrini.

Sul concetto di scrittura scenica e sulle relative problematiche vedi anche, in ateatro 62, la recensione di Oliviero Ponte di Pino a Lorenzo Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Bulzoni, Roma, 2003.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2007-08-20T00:00:00




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